Zurigo – Non si ascolta di frequente, da noi, I1 franco cacciatore (Der Freischütz) di Cari Maria von Weber, benché conti in assoluto fra i titoli che hanno fatto gloriosa la storia dell’opera: e non solo di quella nazionale tedesca. Su questo capolavoro toccato dalla grazia, nato in un periodo nel quale il genio di un autore poteva realizzarsi pienamente negli orizzonti espressivi della sua epoca, anzi spalancarli, grava da sempre una riserva comune anche al Flauto magico e al Fidelio: il fatto cioè di alternare alla musica i dialoghi parlati, come in un testo di prosa. Singspiel si chiama questo genere, semplicemente inimmaginabile nell’estetica dell’opera italiana: dove l’opera è si espressione delle passioni, ma nella forma lirica del canto piú o meno spiegato. Del resto, proprio per risolvere questo non piccolo nodo strutturale Richard Wagner, che pure aveva ambizioni di poeta non meno che di musicista, affidò da ultimo all’orchestra il compito di dare continuità e direzione al dramma, riconoscendo a Weber solo l’onore dell’apripista.
Che cosa accade di solito quando si rappresenta Il franco cacciatore (ma anche Fidelio, o Il flauto magico)? Si tagliano i dialoghi e li si riducono all’osso; rendendo cosa non solo incomprensibile l’azione ma anche scentrata la funzione della musica: che è appunto quella di «entrare» con il suo linguaggio e le sue forme in una cornice preordinata, esaltando proprio la componente della trasfigurazione lirica, espressiva, del sentimento e del dramma. Quando poi, come qui, non c’è un solo «numero» della partitura di fronte al quale non si rimanga ogni volta estasiati per l’invenzione melodica, la fantasia timbrica, la suggestione poetica, la forza drammatica, allora il rapporto fra recitazione e musica è pari a quello che corre tra prosa e poesia: l’una completa e giustifica l’altra.
Appunto la prospettiva non tanto di riascoltare Il franco cacciatore quanto di ascoltarlo per la prima volta nella versione integrale, come prometteva l’Opera di Zurigo, ci spinse fin quassú con trepida emozione. Incuriosiva, piú che entusiasmare, l’idea che a dirigerlo fosse Nikolaus Harnoncourt, da qualche tempo passato a pascolare l’Ottocento romantico, con risultati tutto sommato non disdicevoli: se solo curasse di piú l’aspetto tecnico (e anche il dirigere senza bacchetta non aiuta la precisione degli insieme), potrebbe vantarsi di aver conciliato gli scrupoli filologici con la libera ricreazione dello spirito autentico della musica. Se Harnoncourt, pur non volando come le aquile, affronta il testo musicale in modo sensibile e perfino gradevolmente partecipe, la regista Ruth Berghaus vanifica la scelta dell’integrità con una messa in scena schizofrenica e cenciosa, da squallido spettacolo postepressionista. Un po’ stupisce che costei, dopo aver menato il can per l’aia al di là del muro, sia approdata a Zurigo per replicare l’orrore delle sue regie sociopolitiche; ma consola che il pubblico l’abbia accolta come meritava, con un uragano di boati e di muggiti: bravi. Come bravi erano gli interpreti vocali: tutti, salvo uno, il protagonista Reiner Goldberg, debuttanti nelle loro parti. Convincenti le due donne, Inga Nielsen e Malin Hartelius, e il diabolico Kaspar del tonante Matti Salminen. Cosí così l’orchestra, ripetutamente fallace e sporca, e troppo impegnato in mosse e mossettine il coro per andare a tempo. Successo per la musica, catastrofe per lo spettacolo.
«Der Freischütz» di Weber all’Opera di Zurigo, repliche fino al 27 marzo
da “”Il Giornale””