Si vede tutto, ma non l’abisso
A Zurigo pioveva che Dio la mandava. Non smetteva mai, e faceva tanto freddo. Era domenica, tutto era chiuso e deserto. Fu forse l’attesa in albergo tutto il giorno, in mancanza di ombrello e cappotto, tra programmi televisivi locali di una noia glaciale e sguardi veloci alla partitura – senza ordine, saltando da un punto all’altro per associazione di idee, di sentimenti, di ricordi – a caricare di un’aspettativa speciale l’ascolto. Fidelio non è un’opera qualunque. Non lo sarebbe neppure se venisse eseguito con più frequenza di quanto non avvenga. Potendo decidere, vorremmo che Fidelio venisse rappresentato ogni anno all’inizio o alla fine della stagione, in ogni teatro (non è un’idea originale, anche Furtwängler la pensava così). Proprio perché è una cosa unica, dovrebbe tornare regolarmente, e ogni volta l’ascolteremmo in modo diverso e troveremmo un buon motivo per emozionarci. Avremmo un punto di riferimento: ad ogni ritorno del si bemolle della tromba fuori scena che annuncia la liberazione di Florestan ci interrogheremmo su quanto è accaduto in noi nel frattempo, e inevitabilmente ci sentiremmo male accordati – calanti o crescenti – rispetto a quell’appuntamento. E senza disprezzare la nostra inadeguatezza faremmo certo seri propositi di riprovare la prossima volta.
La ragione per cui ci trovavamo a Zurigo a ripensare a queste cose, e naturalmente a molte altre ad esse collegate, forse in modo esagerato nell’attesa a causa della pioggia e del freddo, era che a dirigerlo si presentava per la prima volta Nikolaus Harnoncourt. Su Harnoncourt abbiamo aperto su queste pagine, come si suol dire, un discorso, e c’interessava verificarlo in un momento alto. Questo è un errore. Nel Fidelio, più che in altre opere che stanno lassù nei cieli, il direttore è un mezzo, non un fine. Ma un mezzo d’importanza speciale. Da lui ci aspettiamo non tanto, o non solo, che faccia bene tecnicamente il suo mestiere, e neppure che interpreti in modo originale, e men che mai che offici un rito già stabilito: qui non si tratta di entrare in un tempio, ma di uscire allo scoperto gridando la propria fede. Nel Fidelio il direttore siamo noi tutti, e lui soltanto il nostro rappresentante davanti a Beethoven. Con tutta la comprensione e il rispetto per il compito terribile che gli è affidato, non ammettiamo che ci rappresenti in modo inadeguato, che tralasci un solo dettaglio della nostra emozione, della nostra gratitudine e della nostra ansia di fronte alla prospettiva di quel che significa ciò che stiamo per riascoltare: ossia che c’è il male in noi e fuori di noi, c’è sempre stato e sempre ci sarà, e forse la colpa non è neppure di chi lo esercita (anche Pizarro è una parte di noi); ma alla fine il bene (la nostra tensione verso il bene) avrà il sopravvento senza trionfare nel convenzionale lieto fine. “”Oh Dio””, ripetono quasi increduli uno dopo l’altro i personaggi e il coro quando Leonore scioglie le catene dei prigionieri e l’oboe leva la sua celestiale melodia, “”un tale momento? Tu ci hai messo alla prova, tu non ci abbandoni. Giusto è il tuo giudizio””. Sì, ci dobbiamo credere, dobbiamo sperare che così sia. Così dev’essere. Beethoven non ce lo chiede, ce lo impone. Lui ha già fatto abbastanza, portandoci fino a quel punto con la musica, con il dramma, con la coscienza: ora tocca a noi.
Ma prima che a noi tocca al direttore ripercorrere la parabola, tenderla e distenderla, e poi sospenderla per riconsegnarla trasfigurata nelle nostre mani (toccherebbe anche al regista: ma a lui solitamente basta assicurarci che gli oppressi sono quelli lì tutti cenciosi e imploranti, i cattivi invece vestono all’ultima moda militare e sbraitano sempre come matti, e il vero problema di Leonore è nascondere le poppe quando si traveste da Fidelio). L’orchestra, il coro, i cantanti sono i battistrada, guai ad allontanarli troppo da noi, perdere le distanze, o invece incalzarli, spronarli: non si deve giungere alla vetta col fiato grosso, con affanno, ma neppure riposati e tranquilli, come dopo una passeggiata ritemprante. Può far bene al corpo, non basta all’anima. E dell’anima si tratta nel Fidelio, così mutevole da incarnarsi in personaggi che non dialogano fra loro, ma con se stessi e con noi, direttamente.
Harnoncourt, il nostro generale, ha una certezza: che occorra oggettivare la partitura dopo averne individuato gli elementi e riannodare i nessi per raggiungere la meta. Per individuare gli elementi s’intende mettere a nudo i suoni, i ritmi, le armonie, i contrappunti, sprigionarne la forza espressiva e l’energia fisiologica, caricarne di valenze dinamiche le cellule che poi si aggregheranno in figure più complesse, organiche; riannodare i nessi significa invece far scaturire i contrasti dall’accostamento degli elementi e reagire metafisicamente sull’onda della tensione che ne nasce, controllandola a distanza. Stabiliti i principi, si forma la cordata e si procede compattamente, con passo spedito, con partecipazione convinta: qualche urto qua e là ci scuote, certe gerarchie le vorremmo pure ridiscutere, si va per cambi repentini di scorci e di piani più che per vasti orizzonti, ma il materiale che abbiamo sotto mano ci avvince e attraverso questo ritroviamo orizzontalmente il senso di un percorso. Ma quando chiediamo al generale dove sia la vertigine, ci accorgiamo che l’abisso è già passato, e l’abbiamo superato indenni sì, ma senza turbamento. Non possiamo fermarci e tornare indietro, perché così ci perderemmo, e bisogna andare avanti, perché a questo siamo spinti. Così arriviamo in cima con animo infuocato, ma senza batticuore: il carico di memorie che si saremmo aspettati non ci accompagna, anche se potremmo raccontare tutto della strada che abbiamo fatto, descrivere le svolte e gli angoli, le aperture e gli strapiombi, le luci e le ombre. Ora lo sguardo può spaziare liberamente. Ma la compagnia del Fidelio è altrove, la guida si è congedata, l’avventura è finita e a noi pare di non averla interamente vissuta. Eppure abbiamo imparato alcune cose, su altre abbiamo riflettuto. Non è stato inutile. Ciascuno ha dato quel che poteva. Ma il miracolo non è avvenuto.
Fuori naturalmente continua a piovere. Fa ancora più freddo. Di corsa in albergo, per uno schnaps. La televisione continua i suoi programmi noiosi, la partitura è sul comodino, chiusa. Non val la pena di riaprirla, stasera. Sarà per la prossima volta. E prima di addormentarsi inquieti un pensiero: provaci ancora, Nikolaus. Proviamoci ancora tutti.
Musica Viva, n.6 – anno XVI