Lenz, da Büchner a Rihm
Quella di Jakob Michael Reinhold Lenz è una figura storica realmente esistita. Nato nel 1751 in Livonia, a quel tempo provincia autonoma dell’impero russo, figlio di un pastore luterano, aveva studiato teologia a Königsberg, la città di Kant, ma si era presto dedicato alla letteratura, scrivendo drammi ed entrando a far parte attiva di quei circoli dai quali sarebbe nato, nel corso degli anni Settanta, il movimento dello “”Sturm und Drang””. Fanatico di Shakespeare, di cui tradusse le opere e a cui si ispirò per il saggio programmatico Amnerkungen übers Theater (Note sul teatro, del 1774), fu folgorato dalla personalità di Goethe, che aveva conosciuto nel 1771 a Strasburgo, divenendone amico. L’amicizia con Goethe ebbe termine nel 1776, dopo un soggiorno a Weimar che si concluse con uno scontro con lui e con la conseguente cacciata. Ciò segnò l’inizio di una crisi profonda, esistenziale e creativa, che portò Lenz a vagabondare senza meta tra la Svizzera (per un breve periodo fu ospite dello scienziato Lavater a Zurigo) e l’Alsazia. A Goethe è indirettamente legato anche un episodio importante della sua biografia, forse causa scatenante della follia: l’amore infelice per Friederike Brion, la ragazza che anche Goethe aveva amato ai tempi di Strasburgo, prima di far ritorno a Francoforte.
In una delle sue fughe, dopo aver attraversato a piedi i Vosgi, Lenz soggiornò dal 20 gennaio all’8 febbraio 1778 a Waldbach (oggi Le Ban de la Roche, nel Basso Reno), ospite del pastore e medico Johann Friedrich Oberlin. Costui tenne un diario di quei giorni, annotando con scrupolosa meticolosità i sintomi sempre più acuti della sua schizofrenia, che si manifestavano in eccessi di euforia e depressione, in deliri e vaneggiamenti accompagnati da perdite di coscienza e impulsi di morte. Il tracollo avvenne 1’8 febbraio: Lenz fu ricondotto a Strasburgo. Poi scappò sul Baltico e si trascinò ancora per alcuni anni in preda a un obnubilamento sempre più completo tra Riga, San Pietroburgo e Mosca, dove fu trovato morto il 4 giugno 1792, in una strada, per cause mai appurate. Nessuno ne reclamò la salma, che fu sepolta in un luogo ignoto.
Lenz è autore di tre drammi, tutti del periodo che precede la definitiva crisi del 1778. Il primo, Der Hofmeister (Il precettore, 1774) è una feroce satira della nobiltà e dell’educazione del tempo, che non risparmia neppure i rappresentanti della gente di cultura; il secondo, Der neue Menoza (Il nuovo Menoza, 17761), vagheggia una sorta di palingenesi secondo i dettami più accesi dello “”Sturm und Drang””; il terzo, Die Soldaten (I soldati, 1775-1776), è uno spietato atto di accusa della disumanità dell’ambiente militare e dell’arroganza degli ufficiali: quest’ultimo, concepito in una forma aperta straordinariamente moderna, è il suo capolavoro e fu assai proficuamente attualizzato dal compositore tedesco Bernd-Alois Zimmermann (1918-1970) nella sua opera omonima (prima rappresentazione a Colonia nel 1965).
Nella letteratura tedesca, dove pure occupa un posto di seconda fila, Lenz può essere considerato, fatte le debite proporzioni, come l’anti-Goethe. Partiti da premesse comuni, ossia dalla forte ventata di cambiamento dello “”Sturm und Drang””, Lenz, a differenza di Goethe, non superò mai la fase titanica della rivolta nei suoi aspetti più individualisti e rivoluzionari, verso una nuova concezione umanistica, ma rimase per così dire impigliato nei suoi stessi motivi ideali, offrendo la dimostrazione pratica che una personalità radicale e appassionata, insofferente di ogni costrizione e convenzione, istintiva e geniale, è destinata inevitabilmente a soccombere di fronte non solo a una società corrotta e repressiva ma anche alle proprie capacità di resistenza. Ciò può spiegare non soltanto la scomunica da parte di Goethe, che fu una delle cause principali della sua crisi, ma anche il fatto che l’opera vera e propria di Lenz sia rappresentata dalla sua vita, quasi che il protagonista del suo dramma sia egli stesso e il suo progressivo ma ineluttabile fallimento. Nelle sue opere, accanto a un’aspra critica della nobiltà e della classe militare, a un’angosciosa, lucida consapevolezza dell’inadeguatezza del singolo a mutare i destini dell’umanità si contrappone un oscuro misticismo di stampo irrazionale, volto a riscoprire nelle forze della natura la manifestazione stessa della divinità; secondo un principio che si rifà al pietismo più rigoroso: di cui tutta l’opera di Lenz, cresciuto all’ombra del più severo puritanesimo luterano, è fortemente impregnata. La schizofrenia prima, la follia poi, ne sono l’inevitabile, autodistruttiva conseguenza: rispecchiata sul piano creativo da un’oscillazione continua tra stato di veglia, volontaristico ed esaltato, e rifugio nella prospettiva del sogno, introversa e notturna.
In Lenz l’aspirazione a fondere in una sola dimensione rappresentativa gli elementi della commedia e della tragedia si risolve in una duplice natura: da un lato l’esasperazione del grottesco, del caricaturale, dell’eccessivo spinto fuori di ogni moderazione e verosimiglianza; dall’altro l’evasione in un mondo onirico, visionario e utopico, che amplifica a dismisura i minimi impulsi del sentimento e spazza via ogni contrappeso della ragione. Non stupisce che la struttura estremamente libera dei suoi drammi, basata su un rapido incalzare di scene e di stati d’animo intermittenti, abbia influenzato, cinquant’anni più tardi, un altro scrittore tedesco dal temperamento affine, Georg Büchner. Ma ancor meno stupisce che Büchner potesse vedere in quella vita infelice, annientata da se stessa in mezzo a una società ostile e incapace di offrire a un uomo i mezzi per salvarlo dalla sua rovina, la riprova dell’orribile fatalità della storia, dove “”il singolo è soltanto spuma sull’onda, la grandezza è un puro caso, la supremazia del genio una farsa da marionette…””.
Da questa rovina Büchner si salvò, almeno in parte, grazie ai suoi interessi politici e scientifici. 0 forse a salvarlo dalla follia fu la morte, che lo portò via a soli ventiquattro anni (1813-1837). Appartenente alla generazione postnapoleonica, Büchner si votò alla causa dell’organizzazione di una rivolta che fosse non solo antifeudale ma anche antiborghese; ossia volta a superare, al di là della Restaurazione, le stesse ideologie romantico-liberali propugnate dalla borghesia tedesca. Per questo fondò nel 1834 a Giessen una Società dei diritti dell’uomo e redasse un opuscolo clandestino di agitazione sociale, Il Messaggero Assiano, che per il radicalismo delle sue idee e la forma tagliente in cui venivano espresse gli valse l’ostracismo e l’esilio. Fu in questo periodo di inattività politica forzata che Büchner riprese e compì gli studi scientifici a Strasburgo, ricevendo la laurea e la docenza in anatomia comparata presso l’Università di Zurigo per le sue ricerche sperimentali sui sistemi nervosi nei pesci e nell’uomo.
Nella breve vita di Büchner l’attività letteraria e teatrale – quella per cui oggi è universalmente noto – ebbe paradossalmente un ruolo secondario, o almeno giudicato tale dall’autore stesso, rispetto ai suoi prioritari interessi politici e scientifici. Ad essa giunse relativamente tardi, e per motivi anzitutto pratici. Il primo dramma, Dantons Tod (La morte di Danton), scritto nel marzo 1835 per ricavare denaro onde lasciare la Germania, fu pubblicato a questo scopo nel giugno di quell’anno, dopo che contro di lui era stato spiccato un mandato di cattura: la commedia Leonce und Lena è dell’estate successiva, mentre il frammento tragico Woyzeck, la sua ultima opera incompiuta, precede di poche settimane la morte.
Dell’autunno del 1835 è anche la novella Lenz, l’unico racconto scritto da Büchner, per il quale egli si servì del diario lasciato dal pastore Oberlin durante il periodo in cui aveva ospitato a Waldbach il poeta ormai sul baratro della follia. Nel riferire di Lenz, Büchner si attenne quasi scientificamente alle osservazioni cliniche di Oberlin, sviluppandole in una prosa incalzante, densa e pregnante; ma aggiunse qualcosa di suo personale nella Stimmung, quasi riverberando su Lenz la propria condizione del momento: quando lavorò alla novella, infatti, Büchner si trovava rifugiato proprio a Strasburgo, la città che aveva visto il ricovero di Lenz dopo il tracollo e che ancora serbava la memoria di quella presenza inquietante. Le ultime parole del racconto sono a questo proposito illuminanti, anche in proiezione autobiografica: “”Il mattino seguente, con un tempo fosco e piovoso, arrivò a Strasburgo. Pareva del tutto ragionevole, parlò con la gente: faceva tutto come facevano gli altri, ma c’era un vuoto orribile in lui, non sentiva più alcuna paura, alcun desiderio; la sua esistenza gli era un peso necessario. – – Così continuò a vivere””.
L’opera da camera Jakob Lenz di Wolfgang Rihm, composta tra il 1977 e il 1978 su libretto di Michael Fröhling e rappresentata per la prima volta alla Staatsoper di Amburgo, che l’aveva commissionata, 1’8 marzo 1979 (in Italia al Teatro Comunale di Alessandria il 15 settembre 1988), è liberamente tratta dal racconto di Büchner. In questa riduzione gli autori hanno agito prendendo a esempio il Büchner drammaturgo e sovrapponendolo come modello al Büchner narratore. Non solo il libretto, ma anche la drammaturgia musicale appaiono concepiti tenendo presente soprattutto Woyzeck, e tutta un’illustre tradizione che ha fatto di Büchner un punto di riferimento del teatro musicale novecentesco: dai due Wozzeck pressoché coevi di Alban Berg (1925) e Manfred Gurlitt (1926) al Dantons Tod, poco vivo in Italia ma assai noto in Germania, di Gottfried von Einem (1947).
E inevitabile che nella stesura del libretto, articolato in tredici quadri, l’ultimo dei quali con carattere di epilogo (l’opera è di fatto un atto unico della durata complessiva di un’ora e un quarto), andassero perduti alcuni dei caratteri peculiari della narrazione: dalla descrizione, di penetrante analisi psicologica, del lento sprofondare di Lenz nella follia delle sue ossessioni e delle sue visioni, alle dispute teologiche e filosofiche nelle quali il protagonista, e Büchner con lui, esprimono le proprie teorie estetiche e le proprie convinzioni morali. Già nel primo quadro, per esempio, Fröhling e Rihm condensano il racconto del viaggio di Lenz attraverso la montagna in una scena in cui la natura, rappresentata dalle Voci del coro, dialoga con lui in un’atmosfera musicale livida, di claustrofobia soffocante: Lenz si presenta sulla scena emettendo “”un grido disumano tenuto a lungo””. In Büchner, invece, il racconto è assai più esteso e ha il carattere di un monologo interiore più articolato: “”Lui procedeva indifferente, non gli importava nulla del cammino, ora su, ora giù. Stanchezza non ne sentiva, solo gli rincresceva talvolta di non poter camminare sulla propria testa […] Urgeva in lui qualcosa, cercava qualcosa come sogni perduti, ma nulla trovava. Gli era tutto così piccolo, così vicino, così bagnato, avrebbe voluto mettere la terra dietro la stufa”” (si cita dalla traduzione di Giorgio Dolfini pubblicata da Adelphi).
Nell’opera di Rihm Lenz è visto come la vittima di un mondo ostile e crudele, che non comprendendolo lo condanna alla solitudine e alla follia: e questo è un altro degli elementi che, accentuati dal libretto, si discostano dalla fenomenologia del racconto di Büchner. Gli altri due personaggi che compaiono nel testo, il pastore Oberlin e Kaufmann, nel libretto definito semplicemente “”un amico”” (si tratta in realtà di Christoph Kaufmann, vissuto tra il 1753 e il 1795, un esponente estremo dello “”Sturm und Drang””: termine che fra l’altro fu lui a coniare, suggerendolo a Klinger), sono modellati sulle figure del Dottore e del Capitano del Wozzeck di Berg, perfino nella tipologia vocale: rispettivamente un basso e un tenore (Lenz è invece un baritono, proprio come Wozzeck). Ma è nella mente dissociata di Lenz che si consuma anzitutto il suo dramma: lo scontro tra diurno e notturno, fra realtà e sogno, tra coscienza e subcosciente, e soprattutto la scissione inconciliabile tra mondo degli uomini e natura, che sono i temi che condurranno Lenz alla follia, vengono interpretati sotto il segno di una disgregazione ormai avvenuta, di una coalizione ormai consolidata, di una condanna ormai emessa. Nell’epilogo, Oberlin e Kaufmann abbandonano Lenz al suo destino senza un moto di pietà, lasciandolo morire come se la cosa fosse del tutto inevitabile: e le ultime parole di lui, ripetute come in un delirio, fanno sembrare la cosa, appunto, del tutto “”conseguente””. Non si tratta però qui di una scelta banalmente convenzionale per far finire l’opera (nel racconto, si è detto, Lenz non muore, ma deve continuare a vivere): con queste semplificazioni e questi richiami, Fröhling e Rihm creano una tensione drammatica che si differenzia dal tono del racconto enucleandone, oltre che un’interpretazione, un segno teatrale autonomo, a cui la tagliente incisività della musica conferisce spessore e senso.
Così l’espediente di un piccolo coro madrigalistico che dà voce allo sdoppiamento della personalità di Lenz e riflette come in uno specchio le sue allucinazioni non è un trucco per esteriorizzare l’azione, ma un’invenzione pertinente per renderla più teatrale ed efficace.
A quarantasette anni Wolfgang Rihm è oggi forse il compositore tedesco più di successo della sua generazione, come dimostrano i numerosi riconoscimenti ricevuti e il suo stato ufficiale di Composer in residence a Berlino. Rispetto a molti altri suoi colleghi, in Germania e fuori, Rihm ha saputo conciliare intelligentemente una buona dose di pragmatismo, sorretta da una conoscenza artigianale del mestiere di stampo antico e comprovata a tutto campo, dal pianoforte alla musica da camera, dalla grande orchestra al teatro, con una fertile ricerca di nuove dimensioni del comporre che, senza rinunciare alle problematiche della contemporaneità, non si è mai chiusa nel ghetto di una musica per specialisti. Fin dalle composizioni giovanili dei primi anni Settanta, nelle quali Rihm, dopo averla assimilata, ha contribuito a liquidare l’eredità storica delle avanguardie, si è fatta strada in lui l’esigenza di una musica non condizionata da presupposti ideologici, ma aperta alle esperienze più diverse, dettata da istanze e necessità soggettive e rivolta comunque all’espressività. La definizione di “”neoromantico””, che lo ha accompagnato a lungo, fu l’etichetta, non sempre benevola, con cui si cercò di definire uno stile che prendeva corpo dalla sua stessa continua trasformazione, a poco a poco saldandosi in fenomeno artistico personale e riconoscibile. Rihm è riuscito così ad avvicinarsi a una sorta di incontro di estremi, ribaltando i principi dell’estetica del negativo e del pessimismo ontologico in mezzi di comunicazione di valori, per quanto spesso sofisticati, primariamente espressivi. Tale processo, nel quale la semplicità e la chiarezza sono stati i punti di arrivo di un forte impegno linguistico e strutturale non disgiunto dalla sperimentazione e corredato di autobiografico soggettivismo, è stato accompagnato non soltanto da scelte culturali precise, ma anche da una coraggiosa partecipazione intellettuale alla vita musicale contemporanea: dove la meta costante della estemporaneità, del nuovo inizio, riposa sulla continua elaborazione di dubbi e di contraddizioni, e ne è parte necessariamente integrante.
Jakob Lenz è, sotto questo profilo, una delle opere più rappresentative di Rihm e ha resistito all’impietosa usura del tempo, particolarmente corrosiva verso i prodotti della musica contemporanea: di fatto, è una delle pochissime opere che si possano dire di repertorio nel teatro musicale contemporaneo. A ciò il fascino del soggetto, con la molteplicità dei piani che in esso si sono stratificati mantenendo tuttavia più che mai viva la sua attualità, e la formula della Kammeroper, l’opera da camera di piccole dimensioni ma di grandi ambizioni, concorrono non meno dello spiccato talento drammatico di Rihm e della sua capacità di accostarsi ai modelli del passato senza rinnegare la propria autonomia di linguaggio e l’originalità di invenzione.
Dal lato musicale, due sembrano essere i punti di riferimento da cui parte Rihm: il linguaggio di Schönberg del periodo espressionista e la decantazione lirica di Berg. Alle opere di Berg si riallaccia anche l’articolazione in scene in sé concluse e concentriche, legate fra loro da interludi strumentali e caratterizzate dal recupero di forme classiche come il corale, il Ländler, la Sarabanda, il Lied. I tre personaggi dell’azione, tutti e tre maschili, sfruttano tutti i tipi di emissione, dal parlato allo Sprechgesang, dal declamato al canto aperto, con vasta gamma di sfumature e di infessioni. Al coro madrigalistico di sei voci (2 soprani, 2 contralti, 2 bassi) si aggiungono le voci bianche di due bambini: alle une e alle altre sono affidate, alternatamente, sia le parti delle Voci della natura, personaggi invisibili che riflettono le allucinazioni di Lenz, sia quelle di persone reali, comunità di fedeli e contadini. L’organico, commisurato alle dimensioni cameristiche dell’opera, comprende undici strumenti, o meglio esecutori: due oboi (il secondo anche corno inglese), un clarinetto (anche clarinetto basso), un fagotto (anche controfagotto), una tromba, un trombone, percussioni affidate a un solo esecutore, un clavicembalo (talvolta, come nelle scene decima e undicesima, amplificato) e tre violoncelli. L’assenza di violino e flauto rende evidente l’intenzione di conferire all’opera una tinta scura, appena addolcita dal timbro dell’oboe e dalle fioriture del clavicembalo, come oscuro è il clima in cui si svolge la tragedia di Lenz. Da questi strumenti Rihm ottiene combinazioni di grande varietà, con effetti ora di ripieno, ora di lieve trasparenza, ora di forte drammaticità, dimostrando sicura padronanza e flessibilità di scrittura anche nella complessità dell’elaborazione.
L’accordo che apre l’opera, affidato ai tre violoncelli soli in pianissimo e sul ponticello, può valere da motto dell’arco strutturale che ad essa è sotteso. Le tre note – rispettivamente si, fa e sol bemolle – contengono in sé i due intervalli-chiave di tritono e di quinta giusta separati da un semitono che ciclicamente si ripresentano nell’elaborazione musicale: nella loro semplicità simbolica, essi rappresentano con la massima espressività l’oscillazione di Lenz tra follia e anelito alla pace. Il loro ritorno speculare nelle ultime due battute che chiudono l’epilogo dell’opera sembra avvalorare l’ipotesi che, nell’interpretazione di Rihm, il destino di Lenz sia segnato già dall’inizio e non contempli un divenire, una speranza.
Uno dei tratti compositivi ricorrenti è l’iterazione ritmica con funzione ossessiva non solo di parole, ma anche di figure musicali legate a fasi della discesa di Lenz verso l’abisso. A questi ostinati si contrappongono momenti di estrema mobilità, in cui il fraseggio di canto e strumenti, anche solisticamente attivi, diviene spezzato e nervoso, frantumato e teso, sottolineato spesso da forti contrasti agogici e dinamici; o viceversa quasi solenne, calmo, distesamente cantabile, perfino lirico: così per esempio, nel primo quadro, all’urlo disumano di Lenz (vero Urschrei espressionista) che apre l’opera, si contrappone nelle sue prime parole articolate, “”Spirito, che vivi in me!””, una sospensione di arcaica solennità religiosa. Si ha già qui uno spaccato della varietà dei modi compositivi impiegati da Rihm nella sua opera.
Nel secondo quadro il dialogo tra Oberlin e Lenz è caratterizzato dal timbro scuro di fagotto e clarinetto basso: alle domande amichevoli del pastore, Lenz risponde con brevi frasi sconnesse, con gemiti e sospiri, in un falsetto acuto che sembra quasi rappresentare l’afasia della sua dissociazione mentale, e insieme la sua atroce sofferenza. Un breve interludio dominato da rapide scale ascendenti del clavicembalo sugli accordi sincopati dell’orchestra conduce al terzo quadro. Lenz, solo a letto, non riesce a prender sonno. Ripensa alle esortazioni del pastore a pregare, ma le sue visioni si materializzano nel ricordo di Friederike, la donna amata, che egli crede morta e che invoca con desiderio disperato. Le Voci gli fanno eco con un Lied corale di tono quasi mistico, una specie di spettro bachiano, sulle parole “”In questo mondo non ho gioia, il mio tesoro è lontano””. Gli ostinati e le sincopi dell’orchestra si alternano a fasce sonore tenute e smaterializzate, su cui emergono a tratti le struggenti interiezioni dell’oboe. Significativo è il trattamento musicale nel momento in cui Lenz, nuovamente preda della sua smania ossessiva, vorrebbe alzarsi dal letto e scappar via: le sue parole “”Ich muss laufen”” (“”Devo correre””) sono ripetute più volte in un ostinato sulla stessa nota, contrappuntato dalla grancassa sullo sfondo di un accordo tenuto dei violoncelli. Come un animale in gabbia, egli è prigioniero della sua stessa paralisi.
Nel quarto quadro, Lenz sta facendo nuovamente il bagno per cercare di raffreddare la sua ansia e Oberlin lo invita a godere delle gioie della natura e del creato. Il tema del bagno freddo, deterrente bizzarro di una frenesia chiaramente erotica, è inserito da Rihm in una situazione leggermente comica, quasi surreale, siglata dalle uscite solistiche del trombone. Lenz sembra riprendere forza e coraggio, rasserenarsi e accogliere l’invito alla pace. Le Voci, che qui rappresentano la comunità dei contadini, lo incoraggiano prima a sperare, con un Ländler dalle semplici movenze popolari, poi a “”sognare i vecchi sogni””, nel solenne “”Quasi corale”” che conclude in dissolvenza questa scena, tutta tenuta in equilibrio tra pulsioni terrene e visioni metafisiche. Ora Lenz chiede a Oberlin di poter predicare. “”Sei anche teologo?””, gli domanda sarcasticamente il pastore. La risposta di Lenz è altrettanto sarcastica, un fischio, cui segue la vera risposta: “”L’ho studiata…””; ma le quattro note cromaticamente discendenti, inframezzate da una pausa, su cui sono dette queste parole illuminano tutta l’incertezza e la stanchezza di Lenz, il suo improvviso trasalimento. Questo breve recitativo rivela l’acutezza con cui Rihm sa cogliere gli spunti per definire una situazione drammatica, proiettandola su ciò che segue. Il sermone di Lenz ha inizio con uno Sprechgesang di chiara ascendenza schönberghiana – citazione di un simbolo più che di uno stile – per toccare poi, come in una vertigine, i modi di canto più svariati e concludersi con un dialogo, tra l’allucinato e l’estatico, con le Voci del coro e dei bambini, che ripetono quasi meccanicamente i consueti canti della fede. L’effetto che si produce è di progressivo straniamento: Lenz, solo, predica per se stesso senza riuscire a comunicare con la comunità, che non lo comprende e che da ultimo, dopo un momento di improvvisa fissità, scoppia in una risata beffarda.
Un interludio strumentale, questa volta esteso, quasi a raccogliere le conseguenze della scena precedente, conduce al sesto quadro, intitolato da Rihm “”scena di dialogo””. Formalmente si tratta di una sorta di Scherzo, nel quale l’amico Kaufmann sottopone Lenz a una specie di interrogatorio sulle sue convinzioni artistiche e morali, ironizzando su di esse e richiamandolo da ultimo al suo dovere di far ritorno a casa. La disputa si svolge in un clima sonoro livido e aggressivo, che ricorda, e non solo per le già rilevate analogie di registri vocali, certi passi della ottusa tortura psicologica esercitata dal Capitano su Wozzeck. E tuttavia una stazione necessaria nella via crucis di Lenz, e ne segna in un certo senso la peripezia.
Nel settimo quadro, simmetricamente separato dal precedente da un interludio strumentale di estese proporzioni, che non maschera l’amore sviscerato di Rihm per la musica di Mahler, ritroviamo Lenz sulla montagna, solo e triste. Vorrebbe scrivere, ma non riesce a trovare le parole. Le Voci della natura lo aiutano a ricordare, a dare forma poetica ai suoi barlumi di coscienza, oltre il pianto. Esse gli rivelano in un sussurro che Friederike è perduta e dovrà morire. Lenz, atterrito, per salvarla accetta di tornare nel mondo. Nell’interludio che segue, come in una visione di sogno, due voci di bambini cantano la pietà per Lenz: la citazione, denunciata in partitura, di un passo dalla dodicesima delle Kinderszenen op. 15 di Schumann conferisce a questo episodio un senso di delicata, strana tenerezza.
Siamo ora nella camera di Oberlin, di notte (ottavo quadro). Lenz chiede al pastore notizie della ragazza che ama e per la cui sorte soffre così tanto. Ma Oberlin, ormai, è incapace di rispondergli e replica con frasi mozze, indifferenti. Lenz, ricordando emozioni lontane, intona una melodia ricca di nostalgia e di pathos, dove lo slancio dell’ampiezza degli intervalli è ogni volta vanificato dal vorticare di risucchi cromatici. L’ostinato della percussione dà a questa scena la scansione di un ritmo funebre, fatale. Esso si prolunga nel quadro nono, che si apre con una Sarabanda affidata ai tre violoncelli, in pizzicato. Le Voci della natura riprendono, sul ritmo caratteristico della Sarabanda con la seconda nota puntata, il corale “”In questo mondo non ho gioia””, quasi a fissare un principio immutabile. Il dialogo che segue consegna definitivamente Lenz alla sua follia: ha la visione di una donna che con capricciose fioriture, quasi arabeschi di un canto sensuale, si dichiara sua in eterno e lo implora di non abbandonarla mai più. Lenz si scuote dalla visione e scappa via, mentre il coro ripete in un sussurro “”mai più””. L’accordo dei tre violoncelli che chiude la scena è lo stesso dell’inizio dell’opera: in realtà, per Lenz non c’è mai stato scampo.
Nel fulmineo decimo quadro Lenz, come estraneo a se stesso, sta seguendo il corteo funebre di una bambina, che crede la sua amata. L’oscuramento della sua mente è ormai completo; anche il dialogo con le Voci, sempre più specchio della sua alienazione, si fa frammentario, disarticolato, affidato soltanto a schegge di un parlato ritmico scandito dai battiti ossessivi di un’incudine e squarciato da sprazzi lancinanti di memoria, da cui escono antiche invocazioni e stereotipate formule di preghiera. Nell’undicesimo quadro Lenz vaga per la campagna senza meta, all’alba. La sua decisione di uccidersi si riflette ora nella fredda violenza con cui le Voci della natura, avvinghiandosi a lui, gli ripetono la sua condanna (“”Tu devi morire””), in un delirio di intrecci contrappuntistici agitati da folate di reminiscenze tematiche delle scene precedenti. Al culmine di un impressionante crescendo Lenz prova a suicidarsi, senza riuscirci: la musica mima comicamente, quasi onomatopeicamente, i suoi goffi tentativi di uccidersi sbattendo il capo contro le rocce. L’interludio che segue, virtuosisticamente giocato sul dialogo a incastro tra le percussioni e i violoncelli, sembra commentare, prima beffardamente, poi angosciosamente, anche questa sconfitta.
E siamo al dodicesimo quadro, direttamente sfociante nell’epilogo. Kaufmann, trascinando dietro di sé Lenz ferito, narra a Oberlin con freddo distacco come quel pazzo, dopo aver cercato di riesumare la salma della bambina morta, abbia tentato invano di uccidersi. Lenz si accusa di essere l’omicida della ragazza e chiede di essere punito: Oberlin lo bacia sulla bocca tre volte, così egli sarà consolato. Invano i due uomini cercano per l’ultima volta di ricondurre Lenz alla ragione: il loro buon senso e il loro moralismo filisteo spingono Lenz solo a vaneggiamenti biblici e a nuovi istinti di morte, interrotti da sprazzi di lucidità in cui sembra assumersi la colpa del dolore del mondo. L’ultimo sprazzo di luce è per Friederike, il cui nome, sussurrato dal coro, è come la voce della sua coscienza perduta. La morte di quell’angelo è la sua morte stessa. Come sa che è morta?, gli domandano Oberlin e Kaufmann. “”Geroglifici, geroglifici!””, risponde misteriosamente Lenz.
Nell’opera di Rihm, mentre Oberlin e Kaufmann cercano di spiegare razionalmente l’enigma della sua anima, Lenz muore ripetendo un’unica parola: “”konsequent””. Solo nella sua mente, dove tutto gli era vuoto e vacuo, si era formata l’immagine della perfezione assoluta, della consequenzialità logica, della spiegazione finale: egli era un sogno a se stesso. E la chiusa dell’opera rappresenta senza retorica quest’abisso di una follia irrimediabile, di una follia per l’eternità, al di là della morte.
Arnold Bosman / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Opere Concerti Balletti 1999-2000