Wolfgang amadeus Mozart – Don Giovanni, dramma giocoso in due atti

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La folle nottata del Don Giovanni

 

Che bella notte! E più chiara del giorno;

sembra fatta per gir a zonzo

a caccia di ragazze.

(Don Giovanni, scena del cimitero, II, XI)

 

Don Giovanni nacque sull’onda dell’entusiasmo suscitato a Praga, nel dicembre del 1786, dalle Nozze di Figaro: entusiasmo del quale Mozart si poté render conto di persona quando nel gennaio seguente fu invitato da Pasquale Bondini, impresario del Teatro Nazionale di Praga, e da Domenico Guardasoni, vicedirettore e regista della compagnia, ad assistere ad alcune repliche dell’opera. Con la consueta eccitazione ne riferì in una lettera del 15 gennaio 1787 al barone Gottfried von Jacquin: “”Qui non si parla che del Figaro, non si suona, non si strombetta, non si fischia, non si canta che Figaro; non si sente altra opera che Figaro. E sempre Figaro! “”. Era il tipo di successo spontaneo e caloroso che a Mozart piaceva e di cui aveva bisogno, e non per vanità, ma semplicemente perché scriveva per la felicità del pubblico, e sotto questo aspetto il pubblico di Praga aveva capito la sua opera più di quello viennese, troppo distaccato e sussiegoso. Ma Bondini e Guardasoni avevano invitato Mozart a Praga anche per un altro fine: proporgli di comporre una nuova opera da rappresentarsi a Praga nella stagione successiva. E fu con questa scrittura che il compositore fece ritorno a Vienna in febbraio, mettendosi subito a pensare al progetto.

Era del tutto naturale che per il libretto egli si rivolgesse all’autore di quello del Figaro, ossia al poeta dei Teatri Imperiali di Vienna, Lorenzo Da Ponte, e che gli affidasse in prima battuta la scelta del soggetto. L’esperto e navigato Da Ponte, che a quel tempo era oberato di lavoro, pensò di appoggiarsi su un soggetto di lunga tradizione e di sicuro effetto, che era appena riapparso a Venezia (per la stagione di carnevale, il 5 febbraio 1787) sotto forma di opera in un atto composta da Giuseppe Gazzaniga su libretto di Giovanni Bertati: Don Giovanni o sia il Convitato di pietra. Seguendone la traccia (fatto del tutto normale nella prassi teatrale, e di cui si poteva in certa misura mantenere il segreto, addirittura tacendo) si mise all’opera, sdoppiandosi nientemeno che in tre. Le Memorie del poeta ci informano infatti su come Da Ponte lavorasse contemporaneamente a ben tre libretti, che si era impegnato a consegnare nella primavera del 1787: una riduzione in italiano dell’opera francese Tarare con il nuovo titolo Assur Re d’Ormus per Antonio Salieri, il libretto appunto del Don Giovanni, che a Mozart “”piacque infinitamente””, e un altro ancora, L’arbore di Diana, per il compositore di origine spagnola Vicente Martin y Soler. “”Trovati questi tre soggetti”” – ricorda Da Ponte – “”andai dall’imperatore [Giuseppe II], gli esposi il mio pensiero e l’informai che mia intenzione era di far queste tre opere contemporaneamente. ‘Non ci riuscirete!’ mi rispose egli. ‘Forse che no’, replicai, ‘ma mi proverò. Scriverò la notte per Mozzart [sic] e farò conto di legger l’Inferno di Dante. Scriverò la mattina per Martini e mi parrà di studiar il Petrarca. La sera per Salieri e sarà il mio Tasso’. Trovò assai bel-lo il mio parallelo; e, appena tornato a casa, mi posi a scrive-re””. In sessantatré giorni le due prime opere erano finite del tutto, e dell’ultima quasi due terzi.

Stando a questa ricostruzione, il libretto del Don Giovanni sarebbe stato dunque ultimato al più tardi alla fine di aprile. Probabilmente Mozart cominciò la composizione già in marzo, via via che da Ponte gli passava le scene, e la mandò avanti nei mesi successivi, anch’egli parallelamente a innumerevoli altri lavori, per terminarla poi a Praga, dove giunse il 4 ottobre, raggiunto quattro giorni dopo dal Da Ponte. Prevista in un primo momento per il 14 ottobre per una serata di gala in onore dell’arciduchessa Maria Teresa, sorella di Giuseppe II, di passaggio a Praga (in sua vece venne data una ripresa delle Nozze di Figaro), V opera andò in scena per la prima volta il 29 ottobre 1787 con una compagnia interamente italiana (quasi la stessa dell’edizione praghese del Figaro) e con enorme successo, ribadito alle repliche e tale da farla resistere in cartellone per anni: sicché quest’opera rimase per sempre legata con orgoglio, come un vanto, alla città boema. Anche perché quando giunse a Vienna, al Burgtheater il 7 maggio 1788, il Don Giovanni fu accolto con entusiasmo limitato (“”troppo forte per i nostri viennesi””, avrebbe sentenziato l’imperatore) o, secondo Da Ponte, addirittura “”non piacque””: di fatto ebbe soltanto quindici recite (l’ultima il 15 dicembre) e non riapparve più a Vienna che dopo la morte del suo autore (precisamente nel 1792, ma in tedesco e in un teatro minore) e all’Opera di corte non prima del 1798.

L’edizione viennese si segnala nella storia dell’opera per una serie di modifiche apportate per venire incontro alle diverse personalità dei cantanti, fattori a cui Mozart era attentissimo, e forse al gusto del pubblico di corte. La parte più toccata da queste modifiche fu il secondo atto, con l’espunzione dalla scena X dell’aria di Don Ottavio Il mio tesoro intanto, ingrata all’interprete viennese, che venne sostituita con quella, di carattere simile ma vocalmente meno esposta, Dalla sua pace, collocata però nella scena XIV del primo atto. L’intervento successivo riguardò Donna Elvira. Sollecitato anche qui, pare, da una richiesta della cantante, che era la celebre Caterina Cavalieri, Mozart compose l’aria di bravura Mi tradì quell’alma ingrata, facendola introdurre dal recitativo accompagnato “”In quali eccessi, o Numi”” e situandola nel secondo atto subito prima della scena del cimitero (scena Xe). Essa è preceduta da una serie di nuove scene, più che comiche, smaccatamente farsesche (Xb-d), che vedono impegnati in lazzi funambolici Leporello, Zerlina e un contadino. Di queste scene non è rimasta pressoché traccia nella tradizione esecutiva, mentre è ormai consuetudine accettata conservare entrambe le arie di Don Ottavio e quella aggiunta di Donna Elvira.

La versione viennese è importante anche perché pone indirettamente una questione nodale, che tanti dibattiti avrebbe innescato, relativa al finale dell’opera: il taglio di ciò che segue allo sprofondamento di Don Giovanni nell’inferno. Sembra che Mozart pensasse, e forse in alcune recite anche praticasse, di sopprimere la “”scena ultima””, nella quale tutti i personaggi, salvo Don Giovanni e il Commendatore, ritornano in scena per commentare l’accaduto e trarre la morale dell’””antichissima canzon”” Questo è il fin di chi fa mal; e in questo senso parla anche il secondo libretto viennese pubblicato nel maggio del 1788, dove l’opera si conclude con “”il foto che cresce”” e Don Giovanni che “”si sprofonda nel momento stesso in cui escon tutti gli altri, guardano, metton un alto grido, fuggono, e cala il sipario””. Fatto sta che nella partitura questo taglio fu prima apportato e poi riaperto, con il ripristino del sestetto conclusivo; che dunque – sia musicalmente sia architettonicamente – corrisponde tanto alle prime quanto alle ultime intenzioni dell’autore. La questione, come si è detto, non è senza importanza: giacché, a tacer del fatto che nella prassi esecutiva soprattutto viennese e tedesca dell’Ottocento e del primo Novecento questo taglio fu mantenuto, mentre oggi lo si ritiene impraticabile al punto da portare al fraintendimento radicale dell’opera tutta, essa riguarda da vicino un problema sostanziale legato al significato del Don Giovanni: ossia il suo essere un’opera inafferrabilmente sospesa fra tragedia e commedia, o più precisamente un ripensamento globale, a tutto tondo, dell’opera buffa, alla cui tradizione si riferisce, e dell’opera seria, di cui proprio il finale, anche esteriormente, è lo specchio sommamente ma necessariamente ambiguo.

 

Il mito di Don Giovanni, prima che Mozart e Da Ponte lo rivisitassero, aveva attraversato quasi due secoli di letteratura, parlando lingue diverse (spagnolo, francese, inglese e naturalmente italiano, dell’italiano comprendendo anche i dialetti, dal veneziano al napoletano) e calandosi in molti stili differenti (dall’aulico al triviale, con infinite gradazioni intermedie). In teatro, che era il luogo deputato a ospitarlo, per i quale anzi era nato, aveva dato vita alle forme più opposte d drammi: tragedie, ma anche commedie, e commedie dell’arte farse, operine di edificazione morale, balletti, pantomime melodrammi. Il motivo che lo caratterizzava era quello de beffardo invito a cena rivolto da un libertino alle spoglie o a simulacro di un trapassato; il quale trapassato, con stupore d lui, accetta l’invito, chiede di essere ricambiato e alla sua venuta lo trascina all’inferno, punendolo per la sua empietà. E appunto i titoli di questi drammi ne rendevano a usura la sostanza: Il Convitato di pietra, L’Ateista fulminato, L’Empio punito, La Pravità castigata o, per dirla con Mozart e Da Ponte Il Dissoluto punito. In molti casi restava però aperta per così dire la qualità di Don Giovanni: Don in quanto gentiluomo, perciò sempre accompagnato da un servitore (che peraltro porta i nomi più diversi), Giovanni o meglio Juan in quanto spagnolo (l’azione si finge in una città della Spagna, per lo più Siviglia), ma libertino in che senso? Nel significato originale del termine, libertino è il libero pensatore che non accetta dogmi di sorta e proclama la sua assoluta indipendenza religiosa, filosofica e intellettuale, e dunque anche, ma solo secondariamente, morale. Come tale lo ritroviamo nel primo dramma “”letterario”” di una certa importanza, El burlador de Sevilla y convidado de piedra di Tirso de Molina (1630), dove il protagonista (l’altro è pur sempre il Convitato di pietra) appare come il tipo dell’ingannatore, del beffatore (“”burlador”” appunto), più che del seduttore erotico. Egli prova un piacere indescrivibile nel mascherarsi, nel fingere, nel sostituirsi a un altro, e questo gusto perverso della metamorfosi, teatrale per eccellenza, lo appaga più della stessa conquista e del possesso. Nell’altra pietra miliare del modello “”alto”” di Don Giovanni, la commedia in prosa Dom Juan ou le festin de pierre di Molière (1665), il libertinismo è inteso come sfida alla morale e all’ipocrisia, gioco dell’intelletto ancor prima che dei sensi, portato all’eccesso sia nella blasfema irrisione dei valori della religione e della famiglia, sia nel fiero rifiuto di pentirsi giunto al passo estremo, quando Don Juan non smentisce tutto il suo modo di essere e per coerenza si consegna alla punizione. Resta semmai da notare, in questa grande pièce già in bilico tra realismo e metafisica, come almeno una delle donne gravitanti attorno a Don Giovanni, Elvira, la sposa tradita e tuttavia di lui perdutamente innamorata, assurga a contraltare di statura morale, inaugurando la galleria di figure femminili non solo oggetti di concupiscenza fisica ma anche portatrici di un messaggio umano, alternativo alla drastica contrapposizione tra sfera terrena e ultraterrena.

Prima del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte, l’opera in musica non aveva offerto al tema grandi capolavori, neppure in presenza di letterati di vaglia, come per esempio Carlo Goldoni, autore di un Don Giovanni Tenorio o sia Il dissoluto (1736) da lui stesso giudicato poco riuscito. Il tema era rimasto per così dire in apnea, in equilibrio incerto tra un’interpretazione marcatamente comica, dove semmai a contare era l’effervescenza teatrale allo stato puro, e una indirizzata verso la commedia moraleggiante a sfondo allegorico, con toni edificanti. Tutti questi prodotti di sicuro successo popolare servivano però a tenere desta la fiamma della leggenda, alimentandola ogni volta con le inesauribili invenzioni della fantasia sbizzarrita. Sicché essi formarono il terreno fertile sul quale fiorì l’operazione dapontiana, che mise le ali alla musica di Mozart. Ne è riprova il già citato atto unico di Bertati e Gazzaniga, da cui Da Ponte prese lo spunto per seguirne la prima e la seconda metà, rispettivamente all’inizio e alla fine del suo libretto, e sviluppare liberamente la trama, sfruttando motivi tradizionali e altri inventandoli di sana pianta, nella seconda metà del primo atto e nella prima del secondo. Così facendo da un lato si riallacciò a una tradizione consolidata, dall’altro la arricchì di un significato nuovo, creando un’opera che nel momento stesso in cui si agganciava a un genere se ne distaccava verso altre ambizioni e mete.

La prima differenza sta nel personaggio del protagonista. Il quale in Da Ponte e Mozart non è più un libertino maturo in senso rinascimentale o illuminista, bensì un vero e proprio seduttore: un “”giovane cavaliere estremamente licenzioso””, come lo definisce l’indice, lanciato in continue avventure erotiche (non necessariamente amorose e men che mai affettive) e conquistatore, per il puro “”piacer di porle in lista””, di donne “”d’ogni grado, d’ogni forma, d’ogni età””. Di questo Don Giovanni (che si potrebbe anche scrivere “”dongiovanni”” in minuscolo e tra virgolette, proprio nel senso comune di tipo) noi non sappiamo che cosa pensi, in che cosa creda, a che cosa aspiri: semplicemente lo vediamo in azione, e sempre dominato da una incontrollabile pulsione sessuale. E’ vero che a un certo punto egli inneggia alla libertà (“”E aperto a tutti quanti, / viva la libertà!””, finale primo), ma questa libertà va intesa come incitamento a una festa nella quale, fatte salve le apparenze delle buone maniere, non vi sono divieti né barriere sociali: tutti vi possono partecipare a loro piacimento, basta che sia assicurata la cupidigia di “”gonnelle”” del padron di casa, al quale spetta comunque la regia e la prima mossa.

All’inizio, spinto dalla sua audacia erotica, Don Giovanni penetra furtivamente (è il suo costume preferito), di notte (è la sua ora), dopo aver studiatamente organizzato la spedizione (difatti ha lasciato fuori Leporello a far da “”palo””: così inizia l’opera, con l’aria della sentinella stufa di aspettare), in casa di Donna Anna, per “”possederla carnalmente”” (ogni altro termine sarebbe eufemismo). Respinto (ma qui le cose già si complicano: a missione compiuta o prima? Donna Anna lo respinge prima di aver subito l’affondo vincente o dopo, quando vuol sapere chi sia quello che l’ha attaccata e che non vuol farsi riconoscere?), viene affrontato dal padre di lei accorso allo strepito, il Commendatore; e benché il duello con un vecchio quasi inerme sia chiaramente impari, lo uccide (non basterebbe disarmarlo? O tutt’al più ferirlo?). Certo, anche se Don Giovanni ancora non lo sa (mentre noi ascoltatori, come vedremo, già lo sappiamo), quel gesto vile mette in moto il corso del destino che gli si ritorcerà contro; ma tutto, fin dall’inizio, contribuisce a definire un personaggio impulsivo e sfrenato, se non odioso, come perfino il servo Leporello è costretto a riconoscere con sarcasmo: “”Bravo: due imprese leggiadre! Sforzar la figlia ed ammazzar il padre””. E non è che dopo le cose cambino. Con Donna Elvira egli si comporta con feroce crudeltà (ripetutamente, fra l’altro: e senza apparenti giustificazioni); con la giovane contadina Zerlina punta cinicamente al sodo, anche in presenza del suo fidanzato Masetto (“”ma passion predominante / è la giovin principiante “”; e allora “”voi sapete quel che fa””: è ancora Leporello a ricordarcelo); perfino con Donna Anna, quando la incontra di nuovo dopo il misfatto, finge ipocritamente interesse e comprensione, con suprema affettazione e arte del trasformismo (ecco un altro tratto che lo contraddistingue: la natura camaleontica). E non è ancor tutto. Benché nel finale del primo atto si sia sfiorata la catastrofe, all’inizio del secondo lo troviamo di nuovo pronto all’azione, donnesca s’intende. Per sedurre la cameriera di Donna Elvira (altro spregio alla donna che l’ama), vuol presentarsi a lei con il vestito del servo e impone a Leporello lo scambio di persona: ingiungendogli di distrarre intanto la stessa Elvira, facendo le sue veci dopo averla illusa. l’impresa, nonostante l’avvio promettente, non va a buon fine per l’improvviso arrivo di Masetto e del suo seguito; circostanza che offre a Don Giovanni la possibilità di convertire la sua libidine in violenza e di sfogarla sul povero malcapitato, ancora una volta con assoluta indifferenza. Come rinfrancato, egli incontra poi una spasimante di Leporello e, approfittando dell’inganno degli abiti, la seduce (termine che implica sempre un’unica cosa: l’atto sessuale istantaneo) e, non contento di ciò, racconta a Leporello il caso fortunato. Sarà però l’ultima volta che potrà farlo.

A questo punto si situa infatti la peripezia del dramma, che avviene nella scena del cimitero. Ma anche qui osserviamo attentamente la condotta di Don Giovanni. Nessun presentimento o timore, nessuno scrupolo morale, ma soltanto incredulità e fastidio, anzi divertimento e semmai sfida al terribile monito scolpito nell’iscrizione: “”Dell’empio che mi trasse al passo estremo qui attendo la vendetta””. Con totale noncuranza e sprezzo del pericolo, Don Giovanni partecipa l’invito a cena alla statua del Commendatore, limitandosi poi a giudicare la risposta affermativa, come tutta la scena, “”bizzarra inver””. Si potrebbe arguire che la curiosità inesausta ch’egli mostra per le donne si estende anche a ogni altra reazione di fronte all’ignoto. Solo nella scena finale Don Giovanni assurge potentemente, quasi suo malgrado, a un rango quasi eroico; non prima di aver però dichiarato per l’ennesima volta il suo unico e vero credo filosofico tutto mondano: “”Vivan le femmine, / viva il buon vino, / sostegno e gloria / d’umanità! “”. Pur irrigidendosi un poco all’evento imperscrutabile dell’arrivo della statua del Commendatore, si dispone immediatamente a far fronte all’inattesa situazione (“”Leporello! Un’altra cena / fa’ che subito si porti””) ed è oltremodo sorpreso che non di questo si tratti. Ma anche qui: il suo diniego a pentirsi non è dettato dalla saldezza ideologica di un intellettuale libertino ma dall’ostinazione di colui che non vuol piegarsi e cedere, per orgoglio e superbia. La durezza dello scontro, con quei “”No, Sì”” ossessivamente rimbalzati, è estrema, ma Don Giovanni non fa in tempo a rendersi conto che le fiamme dell’inferno lo stanno inghiottendo: semplicemente sprofonda con un “”Ah!”” che suona prima di tutto di meraviglia.

Per questo Don Giovanni non è un eroe dell’ideale, né uno spirito libero, bensì un emblema. La frenesia che lo pervade – il demonismo dei sensi, o per citare Kierkegaard la “”genialità erotico-sensuale”” che è tutt’uno con la musica, e con la musica di Mozart in particolare – non gli consente di vedere le cose del mondo con altra ottica, né di interessarsi a misure spirituali. Ma anche il giudizio morale che alla fine sembra inchiodarlo alle sue responsabilità (“”Questo è il fin di chi fa mal: / e de’ perfidi la morte / alla vita è sempre ugual””) lo riguarda solo in parte, rappresentando invece il punto di vista di coloro che sono stati testimoni delle sue “”nere imprese”” e che possono dirsi, ma a cuore non leggero, “”vendicati dal cielo””. E la parte che semmai lo riguarda è quella imperitura oltre la morte, che farà rinascere, se non opere simili, altri uomini con il suo carattere; insieme con la consapevolezza che anche gli altri personaggi apertamente avranno, al di là del “”lieto fine””, di essere esistiti soltanto come creature del “”mostro””, e di non poter forse più esistere senza di lui. Si spiega così come questa “”scena ultima””, che protrae oltre la catastrofe l’eco incancellabile della tragedia, sia necessaria all’economia globale per ragioni assai più profonde di quelle di una semplice convenzione di genere. Essa è lo specchio post mortem dell’eroismo di Don Giovanni: sopravvivere alla sua stessa punizione, così com’era vissuto senza temere punizioni. Una scelta dunque tutt’altro che convenzionale, ma anzi audace e sofisticata, degna di un grande psicologo. Se per qualche attimo Mozart pensò di sopprimere il sestetto conclusivo, lo fece soltanto perché posto fuori strada dalle attese del pubblico viennese, ritenendo, non a torto, che il finale tragico nudo e crudo avrebbe sortito un effetto più immediato e clamoroso. Ossia per ragioni esattamente opposte a quelle che la “”cultura””, con i suoi sottili distinguo, ha creduto per anni di sostenere in favore della sua espunzione. Infine si ricredette, e lo risistemò al suo posto.

Resta comunque il mistero di un’opera il cui protagonista è un personaggio “”negativo””, che da capo a fondo compie azioni che non soltanto appaiono ma ci vengono anche presentate come riprovevoli, e al quale tuttavia la musica conferisce un’aura irresistibile, come d’un “”eroe positivo””. Questa duplicità, o forse addirittura molteplicità, si riflette anche nella problematica definizione del genere al quale far appartenere l’opera. Don Giovanni non s’intitola così, bensì Il dissoluto punito o sia il Don Giovanni, e ufficialmente è un “”dramma giocoso”” in due atti, ossia un’opera buffa. Da un punto di vista meramente tecnico questa definizione indica l’appartenenza a un genere nel quale la musica, accortamente sostenuta dal testo sia nelle arie sia nei pezzi d’insieme, porta continuamente avanti l’azione, facendosi essa stessa azione, senza arrestarsi in pose statuarie nelle espressioni liriche: seguendo quindi una dinamica realistica e non epica, nel tono della commedia più che della tragedia. Ma posto che il Don Giovanni sia, come in parte è, un’opera di carattere buffo, come intendere l’evidente salto di livello dell’apparizione soprannaturale della statua e ciò che ne consegue, ovvero la dannazione eterna di Don Giovanni? Si potrebbe rispondere che, giusta la prima parte del titolo, l’assunto principale sia Il dissoluto punito e che tutta la sequenza degli eventi che vedono il protagonista commettere azioni indegne agli occhi altrui (ma non ai nostri di spettatori e ascoltatori) sia una esasperazione comica tendente progressivamente al punto nel quale, colmato ogni limite, la giusta punizione si abbatte specularmente su di lui. Questa sorta di caricatura degli “”eccessi sì enormi”” di Don Giovanni non renderebbe però conto del “”come”” si compia la catastrofe, ossia lo sconfinamento in un evento quanto mai “”serio””, che istintivamente ci porta a stare più che mai dalla parte del “”dissoluto punito”” e a riconoscergli appunto di conseguenza un rango eroico. La tesi che ribalta questa prospettiva presenta falle ancora più evidenti. Prendere tutto sul “”serio”” il comportamento di Don Giovanni nelle sue avventure erotiche (che sono, non dimentichiamolo, la violenza su una nobile fidanzata con un nobile, una reiterata crudeltà verso la donna che l’ama, la seduzione di una contadina sprovveduta, oltre a numerose scappatelle con chi capiti a tiro) e vederne una vittima innocente delle sue stesse inclinazioni significherebbe non solo imbattersi negli ostacoli degli episodi comici ma anche dover render conto della sprezzante violazione di un codice morale, stridente con la stessa convenzione etica del genere serio.

Il paradosso di un’opera buffa che sconfina nel tragico e di un tragico (anche nell’accezione più moderna di ironia tragica) che continuamente assorbe e rilancia gli elementi buffi, cessa di essere un paradosso qualora si accetti come data non soltanto la coesistenza dei generi serio e comico ma anche la loro fusione in un’entità superiore in dinamica trasformazione: come se i due aspetti svelassero i volti di una medesima realtà, e l’uno fosse lo specchio dell’altro, senza reciprocamente confondersi o annullarsi. Questa coesistenza di livelli che ora diviene fusione, ora si mantiene distinta, è la vera natura dell’opera e trova in essa molteplici rispondenze immanenti e trasversali. Se ne potrebbero citare innumerevoli esempi, quasi a ogni numero. L’aria di Leporello “”Madamina, il catalogo è questo”” è senza dubbio una pagina comica, che contrasta singolarmente, già nell’epiteto iniziale riservato alla interlocutrice, con la situazione di estrema drammaticità in cui si trova Donna Elvira, abbandonata e disperata. Il sadismo con cui Leporello espone la lista delle donne conquistate dal padrone (duemila e sessantacinque, se la lista è esatta), di ognuna fornendo le caratteristiche, non distrugge però ma anzi accentua questa drammaticità, ammantandola di una crudele ironia di tipo appunto buffo e tragico insieme. Il sublime incanto del duetto con Zerlina “”Là ci darem la mano”” è finalizzato a un bieco tentativo di stupro (come poi si apprenderà), ma ciò non toglie che l’estasi da esso creata innalzi davvero la contadinotta a un olimpo a lei sconosciuto, e per un attimo la consegni a una beatitudine immortale, del suo alone circonfondendo anche lo stesso Don Giovanni. E ancora. Il buffonesco tremare di Leporello nella scena finale della statua non squilibra l’asse verso il farsesco, per quanto l’interprete possa esagerare nella mimica, ma innalza ancor più la temperatura già incandescente del momento tragico, facendocelo vedere contemporaneamente con occhi diversi.

Tutti i personaggi si dispongono in questa dimensione trasversale, giungendo però ad accostarsi e interagire. Le due figure nobili di Donna Anna e Don Ottavio, retaggio, almeno nelle loro arie, del clima aulico dell’opera seria, sono costruiti in antitesi a Don Giovanni. Isolate in un proprio mondo di affetti e di ideali gentili, sono depositari di squisiti sentimenti ma non certo di sensualità, di vitalità, di risoluzioni energiche: difatti sono indecisi, trasognati, teneramente appassionati sì, ma riservati e frenati da un concetto rigido del dovere. Ferita dalle esperienze della vita è invece Donna Elvira, che non sa darsi pace del tradimento di Don Giovanni e vaga senza identità tra amore, volontà di vendetta, gelosia, desiderio di riscatto, illusione, supplica, da ultimo rassegnandosi, dopo l’ennesimo insulto, a disperare della sua conversione e della sua salvezza. Anch’ella proviene dai piedistalli dell’opera seria, ma con un linguaggio reso dalle sue stesse esperienze più sfaccettato, più acuminato, più incisivo nell’espressione di accenti capaci di guardare in faccia la sfinge e di reggere coraggiosamente al fallimento.

Al mondo del genere buffo appartengono invece Zerlina e Masetto, oltre chiaramente a Leporello, la controfigura in piccolo di Don Giovanni. Sono personaggi anch’essi in grado di sostenere forti oscillazioni dialettiche, nonché accesi dal faro del protagonista. Zerlina ne è talmente investita da assorbire all’istante da lui, per una specie di involontario transfert, le arti sottili della seduzione, e usarle poi, aggiungendoci di suo la civetteria femminile, per ammansire il furibondo Masetto. Il

quale, a sua volta, subisce il fascino di quel gentiluomo che non sarà mai in uno scontro impari, ma a suo modo fieramente intrepido. Ancora più stretto, naturalmente, il legame con Leporello, dominato da un rapporto conflittuale nel quale l’apparente critica continuamente cede all’ammirazione, se non all’imitazione. Leporello perde del tutto quei tratti da buffone che ristagnavano nella tradizione del personaggio del servo rinfocolata soprattutto dagli scenari della commedia dell’arte e diviene molti caratteri in uno: spettatore e attore al tempo stesso di avvenimenti che lo coinvolgono suo malgrado, ma nei quali finisce quasi per identificarsi. Se nei confronti del suo padrone osa qualche volta ribellarsi, lo fa solo per riconoscere poi la sua superiorità e uniformarsi al suo volere: provando una specie di ebbrezza quando gli viene chiesto di assumerne l’identità. Si direbbe che nell’arte del travestimento egli sia un allievo quanto mai ricettivo. Anche quando gli eventi precipitano e vorrebbe tirarsene fuori, non può fare a meno di commentarli in una sorta di stralunato a parte.

L’unico personaggio a ergersi di fronte a Don Giovanni con una sua inflessibile fisionomia anche musicale è quello del Commendatore. Ma il Commendatore non è, fatta eccezione per la breve scena iniziale, una figura umana in carne ed ossa, bensì un simbolo: lo statuario messaggero d’una giustizia divina che si abbatte sul protagonista con forza inappellabile.

Don Giovanni è condannato nell’istante stesso in cui uccide il Commendatore. Ma benché il cerchio si stringa sempre più attorno a lui, predatore e preda al tempo stesso, egli resiste fino in fondo, non riconoscendo la voce della coscienza.

 

Se è dunque vero che, salvo il Commendatore, tutti gli altri personaggi sono per così dire creati da Don Giovanni e si definiscono nel loro misurarsi con lui (perfino musicalmente, assimilandone o contrastandone i diversi stilemi), è altrettanto vero che ciascuno di essi è proiettato in una propria sfera, e in essa vive di un riflesso di abbagliante autonomia. Ribaltando la prospettiva, si potrebbe leggere tutta l’opera nelle reazioni chimiche prodotte dal contatto con Don Giovanni e vederne gli effetti nella loro progressiva espansione temporale. All’inizio del primo atto, che si svolge con ritmo serrato nell’oscurità della notte, è esposta la vicenda di Donna Anna (scene I-III), culminante nel duetto del giuramento di vendetta di Donna Anna e Don Ottavio. Segue poi la presentazione di Donna Elvira (scene IV-VI), ambientata al sorgere del sole (“”alba chiara”” nella didascalia scenica) e disposta in una forma simmetrica: aria di sortita Ah chi mi dice mai inframmezzata dagli interventi di Don Giovanni e Leporello, aria del catalogo di Leporello, recitativo di Elvira sola. Un cambiamento di scena (nel frattempo si è fatto giorno) ci introduce in una nuova atmosfera, quella del mondo contadino di Zerlina, che ora diviene il centro dell’intreccio (scene VII-IX): coro di contadini e contadine che suonano, ballano e cantano, fulminea entrata in azione di Don Giovanni finalizzata a restar solo con Zerlina e, quando ciò avviene, seduzione. A questo punto, con l’irruzione di Donna Elvira, che come una furia “”ferma con atti disperatissimi Don Giovanni””, le tre vicende fin qui tenute distinte si intersecano in un rapido alternarsi di accelerazioni e distensioni (scene X-XIV). Tornano in scena Donna Anna e Don Ottavio, prima per dar vita con Donna Elvira e Don Giovanni al quartetto Non ti fidar, o misera, nel quale Don Giovanni viene smascherato, poi per trarre dall’accaduto la rivelazione del suo misfatto (con la versione di parte dell’””infame attentato”” fornita da Donna Anna nel recitativo e aria Or sai chi l’onore) e un nuovo giuramento di vendetta. Si può dire che un primo ciclo sia terminato. Il giorno volge al termine. La nuova fase dell’azione (scene XV-XVI) ha inizio alla luce del tramonto e si conclude in piena notte con il finale: Don Giovanni torna padrone del segmento temporale che più gli si confà. E lui ora a prendere in mano le fila dell’intreccio, non prima però di aver annunciato gli eventi con l’aria Fin ch’han dal vino, nella quale per la prima volta il seduttore balza in primo piano con un pezzo solistico, dopo esser stato a lungo vigile sullo sfondo dell’azione. Quest’aria spumeggiante, oltre che espressione d’intenti inequivocabili (“”Ah la mia lista / doman mattina / d’una decina / devi aumentar””), è anche una dichiarazione di poetica: l’eros si scatena nel puro impulso vitalistico di una “”gran festa”” nella quale la danza sia non solo “”senza alcun ordine”” ma anche aperta alle maschere, e dunque improntata allo spirito carnevalesco del travestimento e alla più completa libertà. L’entrata delle maschere, sotto le quali si celano Don Ottavio, Donna Anna e Donna Elvira (scena XIX), crea un’atmosfera arcana, un brivido musicalmente sospeso su una assorta astrazione lirica, forse già un presagio inquietante, del quale tuttavia Don Giovanni non si cura.

Questo finale, nel quale per la prima volta tutti i personaggi sono riuniti in un unico spazio scenico, richiede un discorso sé stante. Lo si potrebbe definire un caos organizzato, che poco a poco monta ed esplode. E lecito presumere che Da Ponte, ormai abbandonato del tutto il modello di Bertati predisponesse un piano che solo la musica di Mozart avrebbe potuto realizzare (e lo sapeva per esperienza: non siamo i fondo troppo distanti dai precipizi dei finali d’atto delle Nozze di Figaro). Mozart tuttavia superò se stesso, creando un vortice ininterrotto di sorprese e di colpi di scena. La riconciliazione tra Zerlina e Masetto, che lo precede (scena XVI, Batti batti; o bel Masetto), serve a creare una parentesi di apparente serenità, che verrà poi fagocitata dal ritmo turbinoso della follia più completa. E’ però, come si è detto, una follia organizzata, quasi pianificata, che dal libretto trasmigra direttamente in partitura. Tre orchestre sopra il Teatro (cioè in pa coscenico) attaccano una dopo l’altra tre danze distinte, secondo il costume e le convenzioni del Settecento. La prima, il Minuetto, è riservata a Don Ottavio, Donna Anna e Donn Elvira mascherati e corrisponde al loro ceto aristocratico: è in 3/4 e viene suonata da un’orchestra più ricca (2 oboi, 2 corni, violini I e II, viola e bassi). La seconda (in 2/4, violini e bassi) è una contraddanza (danza originariamente contadina) e viene ballata da Don Giovanni e Zerlina (Don Giovanni si abbassa galantemente, pur di raggiungere il suo scopo, al livello della popolana). La terza, un valzer in 3/8 assegnato sempre ai soli archi (Mozart lo definisce “”Teitsch””: è il nome dialettale del Ländler, ossia del valzer campagnolo tedesco), serve per la accorta diversione con la quale Leporello cerca di distrarre Masetto, ballando con lui la villica danza. La poliritmia che si viene a creare quando le tre danze risuonano insieme sortisce appunto l’effetto di una strana concitazione, tuttavia inquadrata in un preciso ordine sociale. L’improvviso scoppio delle invocazioni di aiuto di Zerlina “”di dentro”” (approfittando della confusione Don Giovanni è infatti riuscito ad appartarsi con lei) trancia di netto questa atmosfera quasi surreale e riporta bruscamente alla realtà con una violenta esplosione dell’intera orchestra, che lascia a mezzo, come per aria, le danze. Non si potrebbe immaginare ora un contrasto più drastico: la convulsione raggiunge l’acme quando Don Ottavio, Donna Anna e Donna Elvira, soccorrendo Zerlina, si tolgono le maschere e svelandosi accusano Don Giovanni. Il quale, con un ultimo colpo d’ala, riesce a mettersi in salvo grazie a un espediente di cui è maestro, la fuga precipitosa e repentina.

Non stupisce, anche se è stato stigmatizzato come una debolezza strutturale, che dopo gli incroci di questo finale la prima parte del secondo atto sia concepito come un diversivo burlesco che allenta la tensione del dramma in attesa che esso raggiunga un nuovo culmine a partire dalla scena del cimitero: al contrario, un intreccio che avesse puntato risolutamente verso l’esito finale sarebbe stato un errore drammaturgico. Lo scatenato gioco di travestimenti, di inganni, di casi sorprendenti che vi si dipana appartiene in tutto e per tutto agli schemi tipici della commedia, ma serve anche ad allungare la serie dei capricci e delle intemperanze di Don Giovanni, motivando così la peripezia. L’idea portante dell’episodio iniziale (scena I) è lo scambio delle parti tra Don Giovanni e Leporello, con il conseguente travestimento. Ne è vittima inconsapevole Donna Elvira, verso cui il nodo dell’azione (dal terzetto Ah taci ingiusto cuore) sembra convergere con speciale accanimento (scene II-III). Intanto si è fatta notte un’altra volta. Don Giovanni intona la sua languida serenata Deh vieni alla finestra, o mio tesoro, tutto preso dalla nuova infatuazione per la cameriera di Donna Elvira. Ciò che segue è un incalzante susseguirsi di mascherate, qui pro quo, stravaganze, tiri mancini e schermaglie amorose (scene IV-IX), che sfociano nel grande sestetto aperto da Donna Elvira (“”Sola sola in buio loco””) e a cui partecipano, oltre a Leporello, Zerlina e Masetto, anche Donna Anna e Don Ottavio “”vestiti a lutto””: richiamati sul posto, giusto in tempo per essere inglobati nell’imbroglio, da una trepidazione inconsolabile o forse da una premonizione. Questa pagina, che ha quasi lo spessore di un finale d’atto, segna il punto di massima espansione dell’intreccio in assenza di Don Giovanni, che tuttavia ne è quasi l’artefice occulto: egli si riverbera come un’ombra invisibile sugli atti e perfino sui motivi degli altri personaggi vaganti nell’oscurità. La cristallizzazione di questa scena assai movimentata avviene nel recitativo e aria di Don Ottavio Il mio tesoro intanto (scena X), pervasa di accenti eroici e cavallereschi un tantino compunti, ma riscattata da un’idea melodica non meno che sublime nella sua astrazione. La decisione di eliminare quest’aria nelle rappresentazioni viennesi e di sostituirla con una serie di brani farseschi tra Zerlina e Leporello suona stonata e del tutto pleonastica: essa fa precipitare il tono dall’alto della più nobile compostezza al basso di una corda quasi triviale, che non trova riscontro in nessun altro passo dell’opera. L’introduzione del recitativo e aria di Donna Elvira Mi tradì quell’alma ingrata è invece anche psicologicamente efficace: essa permette al personaggio letteralmente massacrato nel suo amor proprio di ritrovare il suo grado di umanità e la sua dignità.

Con la scena del cimitero (XI), di cui sappiamo anche l’esatta collocazione oraria – poco prima delle due della notte -, entra in azione l’elemento soprannaturale, sotto la forma del demoniaco luciferino: ed è del tutto ovvio che l’ambientazione cambi rispetto a quanto finora accaduto. E’ un cambiamento improvviso, inopinato, prima di tutto di timbri e di atmosfere: la lugubre voce sepolcrale scandisce le parole fatali “”Di rider finirai pria dell’aurora”” accompagnata da due oboi, due clarinetti, due fagotti e tre tromboni. E un po’ come se una sequenza di immagini a colori vivaci si mutasse repentinamente in un livido bianco e nero. La rigida fissità della statua del Commendatore dà alla scena movenze spettrali, quasi bloccate in una misteriosa attesa: per la prima volta la vitalità di Don Giovanni sembra arrestarsi e tacere. Si percepisce in lui una dose di insofferenza, di sorpresa stupefatta mista a curiosità, quando affida a Leporello il compito di comunicare con il morto. L’invito a cena è una reazione quasi istintiva (“”Parlate, se potete…””), un modo per uscire da una situazione non solo bizzarra ma anche grottesca.

L’atmosfera oppressiva si protrae nella “”camera tetra”” in cui Donna Anna e Don Ottavio, ormai essi stessi quasi simulacri di morte, meditano ancora sulla vendetta e sull’illusione del loro triste amore (scena XII): la grande aria di Donna Anna Non mi dir, bell’idol mio, preceduta da un recitativo accompagnato non meno che scultoreo, ha il sapore di un definitivo congedo dalle speranze di questo mondo. Nient’affatto esiziale per la costruzione architettonica complessiva, essa ha la funzione di separare la scena del cimitero dalla scena ultima non solo per motivi di banale verosimiglianza drammatica (permettere a Don Giovanni di rincasare) ma anche per accrescere l’attesa della inevitabile resa dei conti, incrementando la tensione con un episodio apparentemente estraneo, se non straniante: curioso che molti commentatori illustri, a cominciare da Hector Berlioz, l’abbiano giudicata addirittura con indignazione. E siamo così all’epilogo (finale secondo, scena XIII). Qui si pone subito un problema non secondario: in che rapporto di tempo sta questa scena con quella del cimitero? L’invito a cena fatto alle due della notte è per quella notte stessa, se Don Giovanni dovrà finir di ridere “”pria dell’aurora””? Il libretto non ce lo dice. Ma la risposta è semplice: con l’atto sacrilego commesso da Don Giovanni il tempo, il suo tempo, si è fermato, e la scena finale, che può essere anche vista come un’allucinazione, si svolge in un tempo non più reale, ma mitico, il tempo eterno del giudizio universale. Nella sala preparata per mangiare (“”Già la mensa è preparata””), Don Giovanni crede di vivere ancora nel presente (infatti i musici suonano alla sua tavola, per allietare la sua ultima cena, tre estratti di opere contemporanee, la terza delle quali è una citazione dell’ultimo successo di Mozart stesso), ma in realtà è già catapultato, senza ch’egli lo sappia, in una dimensione sovratemporale, o meglio atemporale. Ed è proprio questa proiezione a conferire alla scena, dopo l’estremo, vano appello di Donna Elvira – “”cangiar vita””! – un carattere insieme irreale, eroico e mitico, avvolgendo il cavaliere in un’aura metafisica che lo estranea dalla sua più propria facoltà: quella di bruciare il tempo senza farlo mai arrestare.

Testo e musica sono eloquenti su questo punto. La parola chiave è scandita come in una liturgia: “”Parlo, ascolta, più tempo non ho”” (il Commendatore); “”Tempo non ha, scusate”” (Leporello); “”Ah tempo più non v’è”” (il Commendatore). L’arresto del tempo equivale alla condanna di Don Giovanni. Non solo. L’arrivo della statua del Commendatore, che giunge inatteso e a cui tuttavia Don Giovanni reagisce prontamente (“”Non l’avrei giammai creduto, ma farò quel che potrò!””), blocca definitivamente il tempo (“”Ferma un po””‘) e segna, musicalmente, la disgregazione del linguaggio tonale, ossia del linguaggio del presente di Don Giovanni, in una ruvida catena di accordi dissonanti sorretta da un ritmo inesorabile, martellante di marcia: la celebre sequenza di scrittura espressionista sulle parole “”Non si pasce di cibo mortale / chi si pasce di cibo celeste””, nella quale si è soliti ravvisare il primo esempio di serie dodecafonica della storia, sottrae a Don

Giovanni ogni possibilità sia di opposizione sia di fuga e lo inchioda alle sue colpe. Egli tuttavia in un moto d’orgoglio risponde (“”A torto di viltate / tacciato mai sarò””) e risolve: “”Ho fermo il core in petto: / non ho timor, verrò!””. Sembra quasi che Don Giovanni, in quel turbinio di pensieri e di sentimenti che lo assalgono in quel momento, vacilli e se ne vergogni, ma non sia disposto ad ammettere neppure in punto di morte la propria scelleratezza. Scellerato, vile con le donne? A Leporello, che una volta gli aveva fatto notare i suoi presunti inganni (II, scena I), egli aveva replicato, senza ironia: “”E’ tutto amore. Chi a una sola è fedele, verso l’altre è crudele; e io che in me sento sì esteso sentimento vo’ bene a tutte quante””. Ma quelli in fondo erano affari suoi, se non della sua coscienza.Vile per imposizione o per paura, però, giammai, men che mai nella decisione suprema.

Le scorribande di Don Giovanni, disseminate in tante folli nottate della sua carriera di libertino, trovano dunque compimento nella nottata più folle di tutte (lucifugo pendant della folle journée delle Nozze di Figaro), quando l’apparizione di un morto risorto gli toglie l’elemento di vita essenziale, il tempo, e con esso il linguaggio della seduzione, altrettanto fondamentale per il suo sentirsi un dominatore onnipotente ed eterno. Fuori di quegli egli, uomo impastato di terra, estraneo alla voce dello spirito, cessa di esistere. E non v’è altra eternità in cui credere, o che lo riguardi al di là della morte.

 

L’impressione di capolavoro perfetto che il Don Giovanni ci fa (secondo Goethe nessun’altra opera in musica avrebbe mai più raggiunto l’altezza di questa) riposa anzitutto sull’inventiva traboccante della musica, capace di tessere in unità un sistema quanto mai complesso di tradizioni, stili, piani, ambivalenze, ma è anche il risultato di una visione d’insieme e di un calcolo. In quest’opera nella quale sembra che tutto possa accadere, che qualsiasi evento possa entrare in gioco da un momento all’altro per smentire il precedente (da cui il miracolo di una discontinuità che non distrugge però la continuità), si ricava la sensazione che tutto sia già accaduto, stabilito per sempre. A dare questa sensazione contribuisce sommamente l’Ouverture, che Mozart compose a opera ultimata, secondo una leggenda addirittura solo nella notte precedente la prima praghese (fosse quella notte, o all’antivigilia della prima esecuzione, importa poco). Anziché assegnarle, com’era nella prassi comune dell’epoca e come anche Mozart aveva fatto per esempio nelle Nozze di Figaro, una mera funzione introduttiva, ossia di preparazione al clima generale dell’opera, egli l’investì di un compito più specifico, quello di riassumere anticipatamente lo svolgimento drammatico. Ma in che modo? Fissando distintamente e invertendo i cardini di questo stesso svolgimento. Nell’opera esso si articola in due fasi principali. La prima è interamente percorsa dallo scatenamento dello slancio vitale virtualmente inarrestabile del protagonista, alieno a qualunque forza e legge umana o divina che non sia quella dell’eros; la seconda è caratterizzata dall’intervento di un’entità soprannaturale che, arrestando il tempo, interrompe il corso delle avventure di Don Giovanni e ne demarca il confine oltre il quale si affaccia l’abisso. Nell’Ouverture queste due fasi sono non solo annunciate bensì a loro volta svolte, ma a termini, come si è detto, invertiti: prima viene presentata la densa “”tematica””, costituzionalmente statica, del Commendatore (Andante in re minore: imperiosi accordi a piena orchestra sincopati nel forte, implacabile ritmo di marcia, fatidici inerpicamenti cromatici degli archi ancora in sincope, fredde ottave di corni e trombe, gelide sventagliate di scale ascendenti e discendenti), poi quella dinamica, spigliata di Don Giovanni (Allegro molto in re maggiore: un tempo di sonata così incisivamente profilato da rappresentare l’esaltazione sfrenata di Don Giovanni nelle sue diverse manifestazioni: la sensualità demoniaca, l’energia nell’agire, la leggerezza frizzante, la nobile natura cavalleresca). Non si tratta di semplici allusioni ma di vere e proprie proposizioni. Se la raffigurazione di Don Giovanni già contiene gli incisi e i motivi tematici che concorrono idealmente alla costituzione dei diversi personaggi scenici che nell’opera formeranno la sua individualità, la musica dell’Andante iniziale ritorna con tutta la sua forza rappresentativa nel finale, per accompagnare il terrificante ingresso della statua del Commendatore nella sala da pranzo di Don Giovanni e dettarne gli accenti perentori su ritmi ormai simbolicamente fatali. Ma ciò che qui ora avviene scenicamente, là era già avvenuto in sintesi: ed è come se l’azione venisse contemplata a posteriori, e ritornasse vivida nel ricordo per ribadire le fasi del suo svolgimento. L’effetto complessivo assomiglia alla differenza che intercorre tra sogno e realtà: la visione intuitiva, istantanea, sommaria del sogno (Ouverture) diviene, nella realtà concreta dell’azione, concatenazione logica di eventi teatrali.

Luigi Dallapiccola, nel saggio Considerazioni in margine alla scena della statua nel “”Don Giovanni””, ha osservato come il Commendatore, che rappresenta non un semplice individuo ma lo spirito, la coscienza, cada ferito a morte “”sullo stesso accordo di settima diminuita”” che riudiremo nell’istante in cui la statua entra in scena nel finale. E precisa: “”Da un punto di vista musicale [il Commendatore] è il protagonista perché – apparendo nell’Introduzione e nel Finale – fissa i punti sui quali potrà essere rizzato quel grande arco che è la costruzione del Don Giovanni […] Ciò che avviene nel grande arco sostenuto dalle due colonne, cioè l’azione principale, è condizionato dalla invisibile presenza del Commendatore””. Si potrebbe anche rovesciare quest’osservazione e notare come Don Giovanni permei talmente di sé l’azione, perfino di fronte all’epifania dello spirito, da esserne non soltanto il protagonista, ma il protagonista assoluto. Nella disputa ormai bisecolare sulle interpretazioni del Don Giovanni, costellata di voci assai autorevoli, assistiamo a una continua oscillazione di punti di vista anche opposti che cercano di venire a capo dell’enigma di un’opera insieme limpida e sfuggente. Accettarne con animo grato l’ambiguità è forse l’unico modo di scioglierne i nodi altrimenti irresolubili. Come ha scritto Fedele d’Amico, “”lo scontro non dà vincitori né vinti: Don Giovanni viene veramente dannato, ma il suo fascino ‘positivo’ rimane intatto: privilegiare la sua condanna rispetto alla sua apoteosi o viceversa non è possibile, la musica di Mozart contempla dall’alto così l’indeterminazione come la determinazione etica imparzialmente, nell’atto stesso in cui, con pari lealtà, le fa vivere””. Per questo ci gettiamo ogni volta con immutata passione, fors’anche la milionesima, nella folle nottata del Don Giovanni.

Gianluigi Gelmetti / Orchestra e Coro dell’Opera di Roma
Teatro dell’Opera di Roma, Stagione Lirica 2002

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