Tra i compositori inglesi del nostro secolo William Walton è da considerarsi, dopo Benjamin Britten, il più eclettico e originale, rinomato nient’affatto limitatamente all’area geografica e culturale della sua patria, di cui fu per molti anni una bandiera. Dopo una formazione accademica interrotta a Oxford e una fase di rivolta culminata nel fulminante melologo satirico in 21 episodi Façade (1923), sorta di Pierrot lunaire alla luce del giorno e all’aria aperta, non immemore di certo neoclassicismo francese al vetriolo (Cocteau più Satie), la carriera di Walton ha preso strade più compassate e tranquille, estendendosi internazionalmente senza disdegnare di rafforzare la solida posizione acquisita negli ambienti ufficiali del suo Paese: sia accettando nel 1937 di comporre la marcia per l’incoronazione di Giorgio VI sia partecipando, su richiesta del governo Churchill, alle parti musicali di spettacoli e film di pubblico interesse durante la seconda guerra mondiale. Insignito nel 1951 del titolo di Sir, Walton si era però già allontanato nel dopo-guerra dall’Inghilterra per stabilirsi e fermarsi fino alla morte da noi a Ischia; continuando solo saltuariamente a viaggiare in qualità di direttore d’orchestra per l’esecuzione delle sue opere, cresciute nel frattempo sul piano della quantità, non sempre della qualità: il meglio della produzione essendo racchiuso nel periodo che va dagli anni Trenta (Concerti per viola e per violino) ai tardi Cinquanta, con l’appendice di quella Seconda Sinfonia (1960) che può essere indicata come la somma della sua maturità artistica.
La Prima Sinfonia risale appunto ai primi anni Trenta e costituì all’inizio un caso abbastanza singolare, tipico però della amabile, ironica signorilità con cui Walton sapeva catalizzare su di sé l’attenzione del mondo musicale. Iniziata nel 1932, fu presentata al pubblico londinese il 3 dicembre in forma incompleta, senza Finale: per l’occasione Walton fece annunciare dalla stampa di aver già di-strutto, anzi bruciato (nel caminetto, s’intende) ben tre Finali, ritenendo che non portassero a niente e che fossero insignificanti. Ciononostante il successo fu grandioso, e Walton fu letteralmente implorato di por termine all’opera così promettentemente avviata, e che tanta gloria avrebbe dato alla musica inglese. Cosa che egli puntualmente fece, comunicando la lieta novella nei giornali del 4 novembre 1935 con una inserzione a pagamento che recitava a caratteri distinti: «LA NUOVA SINFONIA DELL’INGHILTERRA È FINITA – Prima esecuzione in novembre – NON “”MODERNA””». Inutile dire che tutto il bel mondo londinese era presente la sera di quel 6 novembre 1935 al Queen’s Hall quando Hamilton Harty a capo della BBC Symphony Orchestra levò la sua bacchetta per rivelare alfine il capolavoro compiuto; e nessuno osò dubitare che di un capolavoro appunto si trattasse: il trionfo era non solo annunciato ma anche scontato. Toni enfatici accompagnarono le ripetute acclamazioni: «L’uomo che ha atteso pazientemente per otto mesi l’ispirazione – sentenziò l’autorevole “”Evening News”” – ieri sera si è conquistato la fama». «Un evento per la musica inglese», ribadì lo “”Yorkshire Post””; e la Decca fece uscire a tambur battente la registrazione in un album di sei dischi a 78 giri su doppia facciata, corredato di minuziose analisi e informazioni celebrative.
Molta acqua è passata da allora sotto i ponti del Tamigi e la partitura ha perso molto dell’aura un po’ dubbia che la circondò quand’era ancora leggenda. «Non ‘moderna’», aveva scritto astutamente l’autore tra virgolette; intendendo con ciò, sapendo in parte di mentire, Sinfonia tradizionale nei classici quattro tempi, adatta per il pubblico borghese e abitudinario dei concerti sinfonici, ossia lontana dalle astruserie dei novissimi. Oggi questa musica merita di essere ascoltata con curiosità e rispetto, non solo perché è raramente eseguita, essendo fatalmente uscita dai repertori sinfonici vecchi e nuovi, ma anche perché illustra assai bene le qualità contraddittorie dell’invenzione e del mestiere di Walton: una compostezza formale di equilibrata misura nonostante le proporzioni talvolta debordanti, una sincera disponibilità al lirismo immediato, emotivamente effuso e cantabile, una timbrica ora asprigna ora turgida, una certa insistita ambiguità armonica, una forte tensione costruttiva a blocchi contrapposti non immemore del retaggio classico e barocco, concretata in un contrappunto asciutto, lineare e dinamico, ben distribuito nei pesi.
Resta da chiarire il mistero di quel Finale a lungo rimandato, per ragioni non imputabili solo a intenti promozionali. In effetti Walton sembra qui scontrarsi con un problema che, almeno da Mahler in poi, si pose in modo particolarmente drammatico ai compositori di Sinfonie: il problema dell’organicità della grande forma in rapporto a una conclusione coerente di segno affermativo. L’articolazione della Prima Sinfonia presenta un primo movimento spinto verso un titanismo inquieto (di mezzi non meno che di intenzioni) e carico di tensioni esibite, non però necessariamente abbandonate alla retorica: vi si avverte anzi uno sforzo di controllare il corso straripante dell’ispirazione. Ad esso segue uno Scherzo sanguigno cd esacerbato, nella cui intitolazione ( con malizia) par di vedere un segnale di vendetta verso qualcosa o qualcuno: sarcasmo assai poco inglese e ambiguità umoristica sono i tratti più caratteristici di questa cattiveria in musica. Il terzo movimento (Andante con malinconia) sembra spalancare le porte a una visione di disperazione cosmica, che finisce nel vicolo cieco di una notte oscura, gelida, sinistra e afasica. Non è fuori luogo vedervi la traccia di una confessione personale, una sorta di desolata autobiografia del fallimento e della rinuncia.
Risalire da quell’abisso verso cime non solo tempestose ma anche luminose doveva comunque costituire un bel problema. Walton lo risolse con una drastica contrapposizione drammatica, slanciandosi in un’improvvisa impennata: il Finale rinasce trionfalmente alla luce, al calore e al colore, con una serie di gesti estremi, fragorosi, forse velleitari ma non volgari. La cascata fremente e tumultuosa del Maestoso si tramuta in piena inarrestabile su un tema di fuga, a poco a poco distendendosi in fluida corrente: brioso ed ardentemente, scrive Walton per significare uno stato d’animo oscillante tra desiderio e coscienza, che fa la voce grossa senz’essere sicuro dell’esistenza o dell’utilità di una meta.
Nata nella spensierata libertà dei trent’anni, la Sinfonia conosce una crisi acuta prodotta all’interno stesso della forma: non volendolo, Walton si avventura così nei labirinti della modernità, e ne esce scottato e spaventato. Per molti anni non avrebbe più tentato il demone della Sinfonia: e quando ci riprovò, ebbe l’accortezza di stabilire fin dall’inizio che la Seconda Sinfonia si sarebbe conclusa con una Passacaglia, garanzia di saldo orientamento e di onorevole uscita. Il periplo nei meandri della modernità lo aveva ricondotto a un punto di non ritorno: a Brahms, per sognare non più di improbabili aurore ma del dolce crepuscolo prima della crisi. Al resto, bastavano certo il sole e il mare di Ischia.
Jeffrey Tate / Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1994-95