Per quanto potesse essere nell’aria dopo le ultime, continue cancellazioni di concerti (e lui non era tipo da farlo per abitudine o per vezzo), la notizia del ritiro di Leonard Bernstein è di quelle che colpiscono. Non lo vedremo dunque più sul podio con la sua prorompente vitalità, la sua straordinaria comunicativa, la sua mimica inimitabile, che erano poi solo i mezzi per esprimersi e trasmettere al pubblico un talento di musicista geniale, e sempre interessante. Anche quando poteva irritare con il suo strepitoso temperamento, e sembrare discutibile come, interpretazione, Berstein è nato direttore d’orchestra, ma non si è mai considerato esclusivamente tale; suonava splendidamente il pianoforte (e ora dovrà rinunciare anche a questa attività, peraltro assai ridotta negli ultimi anni), e si è affermato anche come brillante conferenziere, scrittore e didatta, oltre che come compositore: autore non solo di un capolavoro come West Side Story e di opere eclettiche, che nel teatro mescolavano tradizione e invenzione con un occhio vigile ai temi dell’attualità, ma anche di numerose, ambiziose composizioni sinfoniche e corali. Perché, ottimisticamente, per Bernstein la musica è uno spazio che non conosce limiti e specializzazioni, qualcosa che dà un senso e realizza la vita stessa: una gioia infinita.
Ma è impossibile pensare a Bernstein dimenticando il direttore d’orchestra. Atipico, imprevedibile, capace come pochi, in virtù di una tecnica a cui niente era precluso, di suscitare l’emozione del suono, la tensione dell’arco formale, la forza espressiva del linguaggio originale. Il suo repertorio, vastissimo, spaziava dai classici ai moderni; ed era su questi due poli che ultimamente si indirizzavano i suoi interessi. Basta ascoltare certi ultimi dischi, tutti ripresi da esecuzioni dal vivo con le maggiori orchestre europee – Vienna, Amsterdam, Monaco, Londra -, per rendersi conto che Bernstein era giunto alle soglie di una nuova purezza, di una essenzialità inconsueta per un interprete di natura così estroversa e sfolgorante: le Sinfonie di Schubert, i pezzi corali di Mozart, le Sinfonie di Haydn, rappresentavano ora quasi il ritorno a una visione della musica luminosa e rarefatta, tutta concentrata sulla bellezza del suono e la profondità dei sentimenti. Da dionisiaco qual era, si avviava a diventare apollineo, come spesso accade nella parabola degli artisti. In una parola, assoluto.
A qualcuno, anche nel suo modo di dirigere, spiacevano l’atteggiamento istrionico, la vulcanica dinamicità, che sul podio si manifestava con smorfie e salti, contorsioni e ammiccamenti continui: era anche quello un segno di vitalità, un bisogno quasi fisico di sentir vivere la musica. Ed è probabile che Bernstein abbia deciso di ritirarsi proprio nel momento in cui si è reso conto che il suo fisico malato non era più in grado di rispondere a queste sollecitazioni. Certo, un americano fin nel midollo, anche se proveniente da un ceppo ebreo-russo e con dentro di sé l’inquietudine e le nevrosi della sua razza. Lavoratore instancabile, gaudente impenitente dei piaceri della vita, di alcuni dei quali – whisky e fumo – era diventato schiavo, all’occorrenza sapeva però distinguere nettamente, come artista, ciò che era marginale, nel suo modo stesso di fare spettacolo, dai valori primari degli autori che affrontava.
Il fascino di Bernstein è stato per anni legato alla sua presenza fisica; ed è difficile, per chi ami la musica anche attraverso ,la mediazione degli interpreti, soprattutto del suo calibro, pensare di rinunciarvi. Non siamo d’accordo con chi sottovaluta le sue musiche, o le considera addirittura inutili. Ma non c’è dubbio che la perdita del direttore impoverisce il panorama di un’arte che oggi sempre più, suo malgrado, è affidato alla personalità degli interpreti.
da “”Il Giornale””