“” Wer reitet so spät durch Nacht und Wind ?””
Quando arrivava l’ora d’inglese, noi dovevamo uscire dall’aula.
Come credenti di una religione diversa ,nella quarta ginnasio del “”Michelangelo””, eravamo in nove, su trentacinque, a “” fare tedesco””.
All’epoca (era il 1965) , per scegliere il tedesco, bisognava avere un motivo particolare o una storia di famiglia.
Così era per Sergio, nato a Bolzano per caso da genitori venuti da Fiume ; così era per Andrea e per me, rispettivamente di madre tedesca e svizzera.
Ma anche gli altri o avevano un legame culturale imprevedibile o una ragione bizzarra.
Del resto, di quella lingua difficile , ci portavamo dietro gli spigoli e i concetti profondi, così adatti a raccontare con esattezza le vie e i turbamenti dell’anima, tutte cose , cioè, che oggi sarebbero sconsigliate a chiunque desideri un’adolescenza spensierata.
Quasi per ricordarci che eravamo una piccola minoranza, venivamo costretti a vagare a lungo per i corridoi del liceo, alla ricerca di una stanza libera. E spesso finivamo nell’anfiteatro di chimica, al primo piano, fra provette e alambicchi sporchi da anni.
A guidare quello sparuto drappello, su e giù per le scale, c’era il professor Mario Ciulich, maestro amato e indimenticabile, che non aveva bisogno di essere severo, perché mai nessuno avrebbe voluto sfigurare con lui ( e qualcuno ora dirà che , in nove, tolti gli assenti, si sapeva di essere interrogati ogni giorno).
Per lui, eravamo capaci di imparare a memoria e per intero Cappuccetto Rosso e Cenerentola nella lingua arcaica dei fratelli Grimm, da recitare insieme alle poesie di Novalis , di Schiller e di Goethe ( “” Wer reitet so spät durch Nacht und Wind ? Es ist der Vater mit seinem Kind ; Er hat den Knaben wohl in dem Arm , Er faßt ihn sicher , er hält ihn warm “” ).
Ma , all’inizio dell’ora , c’era una sorta di sfida per chi arrivava a dire venti, trenta, cinquanta paradigmi di verbi irregolari tutti di fila.
Per nostra fortuna, il professor Ciulich capiva subito se avevamo studiato, e allora metteva da parte la grammatica e cominciava una lezione tutta speciale, nella quale , partendo dallo Sturm und Drang, passava a parlare dell’ ultimo concerto del Teatro Comunale , di un film appena uscito, per poi finire invariabilmente alle notizie politiche del giorno ( fra l’altro, i primi fuochi del Vietnam), che lui commentava da autentico liberale ( “” Quando verrà di nuovo il fascismo, farete fatica a riconoscerlo perché non avrà la camicia nera ! “”).
Ed è così che ho conosciuto Sergio Sablich.
A ripensarci adesso, in quel nostro microcosmo di quattordicenni, c’ era già gran parte dei gusti e delle prediliezioni culturali che avrebbero caratterizzato Sergio da adulto e da studioso , insieme alla naturale inclinazione per l’approfondimento e a quella vocazione tutta sua per le sfide difficili, unita alla serena consapevolezza di aver scelto argomenti inadatti a pulsare con le mode e con l’attualità.
Ma , soprattutto,allora già rivelava una sensibilità così intensa, che soltanto nello studio della musica avrebbe potuto esprimersi.
Questo lo capimmo però due o tre anni dopo, quando cominciarono i suoi viaggi a Salisburgo, a Milano ed a Monaco, durante i quali era capace di stare per giorni senza mangiare, perché finiva subito i soldi comprando grandi quantità di dischi e di libri.
A dire la verità , con Sergio, già ci eravamo incrociati per caso sul prato del Quercione, alle Cascine ( lui con la maglia gialla della scuola media “” Rosselli””) , dove poi saremmo tornati mille volte insieme per interminabili partite di calcio, che si concludevano soltanto a buio, quando ormai non si vedevano più le porte, fatte con le borse e i vestiti.
Ma , insieme, frequentammo per anni anche campetti sterrati a Scandicci, Sesto Fiorentino, Le Caldine, l’ Antella , la Consuma , oltre agli storici terreni del Militare, del Padovani e dei Ferrovieri di via Paisiello.
A differenza di quasi tutti noi, Sergio veniva da un’esperienza qualificata, avendo giocato un paio di campionati regolari negli allievi della Rondinella al campo delle Due Strade ( dove lo vidi accanto a qualche compagno di squadra poi destinato alla serie A ; e anche lui , intorno ai quindici anni, per un momento, dovette pensarci ).
E qui, senza far torto a Schubert e a Busoni , bisogna lasciar parlare il cronista sportivo .
Perché Sergio era, naturalmente, una mezzala e un centrocampista elegante. Come pochi, sapeva alzare la testa e guardare il gioco prima che gli arrivasse la palla , e questo gli consentiva il passaggio intelligente e l’apertura spesso geniale.
Non dimenticherò mai il suo dribbling insistito e caparbio – con il quale usciva sempre vincitore contro avversari che fisicamente lo sovrastavamo – e poi i lanci lunghi e perfetti. Ma , soprattutto, era il calcio come allegria e divertimento, che poi ci avrebbe accomunato anche dopo i vent’anni; ma lui vi aggiungeva la condizione di non starci a perdere mai, perché viveva il pallone anche come allegoria della vita, e sacrificio e scommessa.
Caro Sergio, è proprio così che preferisco ricordarti, come in una vecchia foto in bianco e nero che ancora conservo, dove ti si intravede lontano, che hai appena crossato , e ti sporgi a guardare se qualcuno di noi riesce ad arrivarci di testa.