Wagner nel grande rito di Knappertsbusch

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Un direttore insigne nato 100 anni fa: ieri sera a Monaco Sawallisch gli ha dedicato «I Maestri Cantori»

Monaco – Con una esecuzione dei Maestri cantori di Norimberga, l’opera che più ne racchiudeva i lati nodosi e contrapposti del carattere, e di cui fu interprete insigne, l’Opera di Stato di Monaco ha ricordato ieri sera il centenario della nascita di Hans Knappertsbusch, uno dei maggiori direttori d’orchestra del nostro secolo. Dei massimi, si dovrebbe dire, se una concorrenza spietata, negli anni che videro nascere il mito dell’interprete «moderno», non gli avesse impedito di divulgare quella fama che al suo rango eccelso, aristocratico, legittimamente competeva. Era riconosciuto, soprattutto in Germania e in Austria, come l’erede della tradizione e il depositario della scuola storica dell’interpretazione; ma appunto la sua fedeltà al vecchio mondo, unita a una scontrosità che si fondava sull’intransigenza, lo escludeva dalla competizione coi puledri delle giovani generazioni, più pronte a capire i vantaggi di una situazione in movimento, e a trarne beneficio.

Non lui, Knappertsbusch. Il suo nome rimane legato in modo indissolubile al repertorio classico-romantico tedesco, da Mozart a Bruckner, e al teatro di Wagner, esclusivamente; con un conto aperto verso Strauss, peraltro mai accreditato ufficialmente dal compositore. Giacché collocandolo sul piedistallo dei grandi, di quei pochi che egli considerava tali, Knappertsbusch non si adattò mai a recitare la parte del ligio servitore, senza avanzare riserve. Perfino di Wagner distingueva l’accessorio dall’essenziale; che per lui equivaleva ai risultati massimi e definitivi, dalla Tetralogia al Parsifal, l’opera che chiudeva un’epoca, la sua.

Era nato «Kapelmeister», e lo restò per tutta la vita: responsabile in toto dell’orchestra e del teatro in cui lavorava. Solo gli sciocchi non capiscono che quella figura costituiva il presupposto di una riuscita globale, la garanzia di una identità interpretativa estesa a ogni componente: di più, uno degli ultimi baluardi in difesa dei valori vitali di una organica civiltà musicale. Ce ne accorgiamo oggi, che quella figura quasi non esiste più, neppure in Germania.

Knappertsbusch aveva cominciato nei teatri di provincia, per approdare all’Opera di Monaco nel 1922, e di lì a Vienna dal ’36 al ’50, e poi di nuovo a Monaco, sino alla morte che lo colse nel 1965. Due città, due simboli di una ininterrotta fedeltà a princìpi assoluti di dedizione artistica, ma alle sue condizioni e senza scendere a patti. A Monaco, 1’«era Knappertsbusch» denota ancora oggi qualcosa di grandioso, di austero, e insieme di indicibilmente lieto.

Fu però negli anni della ricostruzione di Bayreuth dopo la guerra che la personalità di Knappertsbusch si definì in tutta la sua grandezza. Le testimonianze discografiche di quel periodo ne rivelano i tratti in modo preciso, inequivocabile. I tempi di Knappertsbusch, anzitutto: infinitamente lenti, augusti, solenni, eppure internamente mossi, sfuggenti, carichi di tensione e di accenti; il suono pastoso, sensuale, corposo; il senso del respiro, la grande arcata che abbraccia eventi smisurati, e li riconduce all’unità di un’unica intuizione, individuando i culmini e gli scioglimenti della frase. Quando dirigeva Wagner, Knappertsbusch officiava un rito, che era anche un sacrificio. Ogni nota aveva il senso di un atto definitivo, ogni gesto decideva del tutto: fosse stato per lui, la musica non avrebbe mai dovuto estinguersi. I tempi dilatati di Knappertsbusch sospendono la nozione stessa di tempo e introducono in un mistero che sconfina nell’inesplicabile, nell’estasi mistica. Per questo il suo Parsifal è rimasto inarrivabile, sottratto alla storia dell’interpretazione che muta.

Come tutti i grandi tragici, Knappertsbusch aveva un senso dell’umorismo profondo, e lo usava con tagliente acutezza. Non solo nella vita. I suoi Maestri cantori accrescono con l’ironia la terribile serietà della posta in gioco: ma non dubitano che a vincere, alla fine, sia Hans Sachs. La figura stessa aveva qualcosa di tragico e di umoristico insieme, con quel volto incavato come un teschio su una corporatura massiccia, e smisuratamente alta. Non aveva bisogno del podio per dirigere: la sua presenza si imponeva per il solo fatto di esserci, così com’era.

Con Wieland Wagner, accanto al quale egli resse le sorti del Festival di Bayreuth dal ’51 al ’58, non corse mai buon sangue. Non si amavano, anche se si rispettavano e capivano ciascuno la grandezza dell’altro. Di fronte alle idee riformatrici di Wieland, Knappertsbusch divenne l’inattuale. Per lui Wagner non era materia di rinnovamento, ma possesso stabile, eterno, immutabile. Ci furono scontri epici, poi la separazione. Forse Knappertsbusch avrà pensato che per esistere i figli dovevano uccidere i padri, come nelle antiche tragedie. Ma la cosa non lo riguardava. Egli apparteneva alla generazione dei padri.

A Bayreuth aveva spostato il suo camerino in fondo alla scala che dava accesso alla scena. Tutti dovevano passare di lì, ogni volta; e ad attenderli c’era Knappertsbusch, con il suo ghigno sardonico. Wolfgang Sawallisch, che questa sera dirigerà i Maestri cantori in suo onore, ricorda che varcare quella soglia equivaleva a una prova dell’acqua e del fuoco. La severità di Knappertsbusch. Chissà che cosa doveva costare a lui essere ogni giorno all’altezza della sua missione, e non dare confidenza che ai suoi autori.

da “”Il Giornale””

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