Wagner, Bizet e un superAbbado

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Trionfo all’Oper di Vienna per il direttore italiano nella “Carmen” e nel “Lohengrin”

Vienna – Il Lohengrin e la Carmen che in questi giorni, a sere alterne, hanno infiammato Vienna di  indescrivibile entlistasmo .no erano interamente produzioni nuove, ma riprese di vecchi allestimenti (rispettivamente di Wolfgang Weber e di Franco Zeffirelli: l’uno solidamente funzionale, l’altro genialmente discontinuo); però con cantanti e direttore nuovi. Il principio delle riprese è uno dei cardini che fa la forza del teatro di repertorio, ma può essere anche un’arma a doppio taglio: perché se una o due stelle del canto – e qui erano anche di più – possono entusiasmare il pubblico, non sempre bastano a garantire la qualità dell’insieme. In questi casi ciò che fa la differenza è la scelta del direttore.

Da quando Claudio Abbado è a capo dell’Opera di Vienna anche le riprese – per lo meno quelle che è lui stesso a dirigere – sono diventate, da normale routine, spettacoli di eccezione: dove a contare sono soprattutto la cura e la serietà della preparazione musicale, in funzione dell’interpretazione complessiva. E qui a fare la differenza è prima di tutto l’Orchestra Filarmonica di Vienna, strumento che con Abbado ha raggiunto un affiatamento così alto da dare le vertigini.

Abbado è al culmine di una maturazione artistica e umana che si rispecchia nel riconoscimento sempre più prestigioso del mondo musicale: senza che nulla però, apparentemente, sia cambiato nel suo atteggiamento di fondo. Il cammino di un grande interprete segue una evoluzione lineare e continua anche per chi, come Abbado, vi ha impresso svolte brucianti, mai sbagliando un colpo. Sia Lohengrin sia Carmen li aveva già diretti alla Scala; ma ora, riprendendoli, Abbado ha conquistato naturalezza e abbandono nel raccontare, attraverso la musica, la storia, cogliendone non solo i tratti più intimamente poetici ma anche il grande arco narrativo, con un respiro e una sicurezza che prima non emergevano in tale misura e profondità: ogni battuta è ricondotta alla logica e alla verità dell’espressione più pura e coinvolgente. In questo miracolo di equilibrio e di chiarezza, di tensione e distensione, niente è tralasciato e tutto risulta, alla fine del calcolo, spontaneo, sensibile, emozionante.

Il Lohengrin di Placido Domingo non ha convinto tutti, nel pubblico e nella critica; tanto da fargli anteporre, nelle preferenze, la peraltro stupenda Elsa di Cheryl Studer (rilevata in una replica da Tina Kiberg, voce di sicuro avvenire). La ragione è presto spiegata: Domingo non è un tenore eroico di pretto stampo wagneriano, svettante e squillante come vorrebbe la tradizione. Ma proprio per questo, dall’alto di una classe e di una presenza scenica ancora oggi ineguagliabili, Domingo ha rivelato, del personaggio e dell’opera, aspetti inediti, vibrazioni sottili. Il suo Lohengrin, capace di finezze e sfumature delicatissime (raro sentire in quest’opera mezzevoci così consapevoli e intense), guarda giustamente al belcanto italiano come a un lontano riferimento ideale, facendone un punto di arrivo (e di superamento insieme) nel passaggio dall’opera romantica al dramma musicale. Anche sotto tale riguardo questo Lohengrin si pone come un punto fermo nella storia dell’interpretazione wagneriana.

Nella Carmen folgorante di Abbado si celebrava il ritorno di José Carreras al ruolo che più di ogni altro è stato suo prima della terribile malattia che lo aveva costretto al riposo.

Difficile resistere alla commozione nel vederlo singhiozzare sul petto della Baltsa dopo la romanza del fiore, cantata con impeto di passione disperata, con accenti di verità sgomentante: tanto da non sapere più dove finisse il teatro e cominciasse la vita. Ma quel che ora conta è che Carreras è tornato vocalmente il grande artista di prima: generoso ed esuberante come sempre, con in più, non solo nella voce, una ricchezza interiore. E se giustamente l’eroe della serata è stato lui, non meno esaltanti sono state le prove di Agnes Baltsa, che di Carmen possiede ormai tutti i requisiti vocali e scenici (ecco un’artista che progredisce col tempo) e di Samuel Ramey, un Escamillo irresistibile, finalmente meno trucibaldo del solito.

In quella che doveva essere una gara di star, a vincere è stata invece, in modo incondizionato, la musica. E la gioia di fare musica insieme. Con un epilogo, tra Lohengrin e Carmen, che ha portato davvero tutti alle stelle: allorché, ,in un concerto di gala organizzato dagli artisti dell’Opera a beneficio della Romania, Abbado ha diretto, dopo la parata dei solisti, il brindisi della Traviata per un quartetto formato dalla Cotrubas, la Baltsa, Carreras e Domingo; mentre nel coro facevano eco, fra tutti gli altri, anche la Studer e Ramey. E a quel punto non è stato proprio affare da poco convincere la gente ad abbandonare il teatro.

da “”Il Giornale””

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