Violino senza frontiere

V

Uomo senza patria, o forse con più patrie; violinista imprevedibile e travolgente; interprete che teme la neutralizzazione dell’espressione. Gidon Kremer cerca attraverso la musica un luogo ove finalmente mettere radici stabili.

A parlarci insieme, Gidon Kremer sembrerebbe un personaggio suo malgrado. Calmo, posato, sorridente, ma anche distaccato e formale, pare all’inizio poco propenso a scoprirsi e a raccontarsi. Sempre gentile, però. Ha un brutto raffreddore fuori stagione, e vorrebbe vedere qualcosa di Firenze nel paio d’ore che gli restano fra un concerto e l’altro della tournée italiana con l’Orpheus Chamber Orchestra. Un giro già lungo, ed estenuante.

Che Kremer sia un personaggio quando suona, è fuori di dubbio. Intenso, concentrato, ispirato e qualche volta quasi spiritato, possiede una personalità e un carisma che, uniti a eccezionali qualità strumentali, ne fanno oggi uno dei violinisti più imprevedibili e interessanti che sia dato ascoltare. Il senso dominante di estroversione e di eclettismo che lo contraddistingue, l’immediatezza e la naturalezza del suo modo di porgere la musica, hanno un che di affascinante e di diabolico insieme: una mescolanza di freddezza e di calore, di natura e di cultura, che si trasmette in modo diretto e rapido tanto quanto appare invece calcolata e premeditata. Si ha l’impressione che Kremer sia alla radice un’indole cupa, inquieta, oscuramente introversa, e che sublimi questi tratti negli scatti perentori e luccicanti della sua arte violinistica. Ne avremo presto la conferma. Il rito sempre un po’ penoso dell’intervista, soprattutto quando avviene nella hall di un grande albergo, fra gente che va e gente che viene, sotto lo sguardo “”rassicurante”” del maître, che alla fine non mancherà di farsi avanti per dire con immonda complicità: “”lo scriverà, eh, che il maestro è sceso qui; sa, abbiamo appena rinnovato…”” (no, mi dispiace, non lo scriverò); questo rito, dunque, è nonostante tutto attraente quando del personaggio dietro le quinte svela aspetti densi e inattesi: utili, forse, a capirlo (e a capirci) di più, come nel caso di Kremer. Dopo alcuni goffi approcci in inglese, gli chiedo se sia possibile parlare in tedesco; Kremer acconsente di buon grado. Di origine tedesca è suo padre (svedese la madre); e per quanto lui sia nato e cresciuto a Riga dopo l’annessione della capitale lettone da parte dell’Unione Sovietica, quella è stata la sua prima lingua. Uomo senza patria, o forse con più patrie, come tanti, Kremer ha abbandonato il suo paese di nascita per stabilirsi in Occidente. Una curiosa clausola gli consente di tornare periodicamente in Unione Sovietica per visitare i parenti; ma non di suonare. E inevitabile, anche se indiscreto, partire di qui.

Quali sono i motivi che l’hanno spinta ad abbandonare la Russia?

Per molti anni ho suonato nel mio paese e fuori di esso senza difficoltà. Poi hanno cominciato a impormi dei limiti, che da un certo punto di vista io comprendevo benissimo ma che non corrispondevano più alle mie esigenze di uomo e di artista. Credo che per tutti e due sia importantissimo poter girare il mondo e fare esperienze, soprattutto costruirsi la propria vita in base alle proprie idee e al proprio senso di responsabilità. Così, dopo molte incertezze, nel 1980 me ne sono andato definitivamente. Sarei felice di poter tornare a suonare in Russia, se mi invitassero a farlo. Sono sicuro che un giorno accadrà.

Come spiega che molti artisti sono giunti alle sue stesse conclusioni?

Credo che i motivi siano diversi, individuali. Ognuno sceglie il proprio destino e ne deve accettare le responsabilità.

Come è avvenuta la scelta di diventare un violinista?

Mio padre, mia madre, mio nonno erano tutti violinisti. Il violino era lo strumento della nostra famiglia. Ho cominciato prestissimo sotto la guida di mio padre, poi sono entrato al conservatorio di Riga, e infine mi hanno mandato a Mosca a perfezionarmi con David Oistrakh. Questa è stata senz’altro l’esperienza decisiva: ho cominciato a fare concorsi, e a vincerli, così che la mia carriera si è spalancata. Direi però che fino a un certo punto si è trattato di un curriculum normale, quasi inevitabile.

Di lei si dice che sia stato un fanciullo prodigio…

Forse lo sono anche stato, avevo un talento precoce e una certa facilità; ma, ripeto, nelle condizioni in cui sono cresciuto per me era una cosa normale. Non mi piace pensare di esserlo stato, né che lo si dica.

I suoi primi successi internazionali sono stati legati al repertorio romantico, poi a poco a poco questo repertorio si è ampliato fino a raggiungere Vivaldi, che ha inciso e porta ora in tournée con I’Orpheus.

Per un violinista di scuola russa la formazione avviene su quel repertorio, e anche il modo di suonare ne risente. Aggiungerei però che mi sono sempre interessato alla musica contemporanea: anche in questa tournée, accanto alle Quattro Stagioni, ho voluto portare un Concerto-Sonata che Alfred Schnittke ha rielaborato apposta per me. La conquista di Mozart e di Vivaldi è la logica conseguenza di una maturazione che riguarda non solo il repertorio ma anche l’interpretazione. Ogni anno cerco di studiare pezzi nuovi e di crearmi le condizioni giuste per presentarli. Questo del resto vale anche per i pezzi che ho già eseguito molte volte.

Qual è il suo rapporto con i direttori d’orchestra?

Nella mia carriera ho suonato con circa quattrocento direttori. Ottimi, buoni e meno buoni. Ho avuto la fortuna di lavorare prestissimo con Karajan e di imparare molto non soltanto dal punto di vista musicale ma anche del metodo di lavoro. La mia predilezione va a quei direttori che hanno una concezione estrema, totale, dell’interpretazione, anche in direzioni opposte: come Bernstein e Harnoncourt, per esempio. Ma anche con Muti mi sono trovato sempre benissimo.

E’ possibile nelle odierne condizioni di produzione musicale trovare il tempo per approfondire un’interpretazione?

Solo i direttori mediocri non si lasciano il tempo per farlo. Con questi che ho nominato non accade. Non è solo un rapporto di lavoro ma anche umano, di sintonia artistica, che incide anche sull’interpretazione.

Nella musica da camera è più facile.

Forse è solo ancora più diretto. Ma anche qui bisogna saper scegliere i collaboratori. Questi giovani dell’Orpheus, come quelli della Chamber Orchestra of Europe, hanno una carica e una sensibilità straordinaria, sono abituati a pensare oltre che a suonare bene. L’esperienza della musica da camera è senz’altro la più importante per un musicista: necessaria, vitale. Anche per questo ho voluto creare a Lockenhaus, in Germania, una associazione privata di musicisti che si riuniscono ogni anno per eseguire concerti e studiare insieme pezzi che poi portiamo anche in tournée: un piccolo festival stabile e itinerante nello stesso tempo. E’ la cosa a cui tengo di più, un punto fermo nella mia attività.

Come avviene allora la scelta dei collaboratori?

Come nella vita, delle migliaia di incontri che si fanno alcuni sono destinati a trasformarsi in amicizia, in solidarietà, in conoscenza, in amore. Legami, insomma, voglia di ritrovarsi e di stare insieme. Nel nostro caso, anche di esprimerci attraverso la musica. Questo aiuta a vivere, a realizzarsi. Quest’anno ci ritroveremo per la settima volta, poi verremo anche in Italia con un programma che comprende gli ultimi Quartetti di Shostakovic, lavori che possiedono una grande intensità.

Intensità sembra una parola-chiave nel suo modo di intendere la musica. In che rapporto sta con lo stile e con la tradizione interpretativa?

Intensità significa anzitutto capacità di comunicare qualcosa che esiste, nel caso di un interprete portare alla luce ed esprimere il pensiero e lo spirito che stanno dietro le note. In altri termini, non nascondersi dietro le note, ma compiere un atto di liberazione totale. Mi sembra che talvolta sotto stile e tradizione si intenda qualcosa di estraneo, che impedisce questa rivelazione. Essa deve avvenire nel momento in cui si suona, dimenticando tutto ciò che si è assimilato e accumulato in precedenza.

Che cosa pensa della prassi esecutiva con gli strumenti originali?

Non sono contrario, basta che non diventi fine a se stessa. E’ semplicistico credere di ridare alla musica la sua integrità e autenticità soltanto eseguendola su strumenti d’epoca. Semplicistico e pericoloso. Vale un po’ quello che ho detto prima per la tradizione: è importante conoscerla, rifletterci su, ma senza pregiudizi e limitazioni. Ogni esecuzione è contemporanea per definizione, e l’interpretazione deve tenerne conto. Anche quella con gli strumenti originali può essere intensa e viva, migliore o peggiore, e questo decide della sua validità. La musica non è un museo ma un linguaggio che serve a comunicare e a esprimersi.

Fra tecnica e interpretazione, quale relazione intercorre?

A me interessa l’interpretazione, che è il punto di arrivo; ma è chiaro che per arrivarci occorre studiare ed esercitarsi sullo strumento. Nel mio caso ho avuto la fortuna di risolvere molti problemi tecnici prestissimo, costruendomi una base che mi ha permesso poi di affrontare la musica sotto l’aspetto per così dire interpretativo. E molto importante risolvere questi problemi fin dall’inizio, da bambini. E cominciare perciò presto, prima che la maturità ponga altri punti di vista. Per molti anni ho studiato il violino per sei-sette ore al giorno; diciamo che oggi me ne bastano due per tenermi in esercizio.

E’ importante essere un virtuoso?

E importante conoscere a fondo la propria professione. E questo vale per ogni professione. Esserne completamente padrone.

E quanto conta il successo?

Non conta quando lo si è raggiunto. Prima, forse, è un incentivo in più a migliorarsi, a raggiungere la possibilità di esercitare la propria professione in condizioni migliori, di più alta qualità. Conoscere gente interessante, vedere posti nuovi, suonare con artisti e per pubblici diversi, di ogni parte del mondo. In cambio, si finisce per non avere più una casa fissa (o averne due o tre), per viaggiare continuamente, per non essere più completamente padroni di se stessi. E un rischio da non sottovalutare. Perciò è importante chiedersi sempre come e perché si sta facendo una cosa.

Quali sono i suoi interessi al di fuori della musica?

Teatro, lettura, cinema. Ho una vera passione per il cinema italiano: già vent’anni fa mi appassionavano Visconti, Antonioni, Fellini. Ho visto recitare Anna Magnani, ed è stata una esperienza indimenticabile per me. Ho sempre cercato di utilizzare il tempo che mi rimaneva per approfondire questi interessi, nei paesi che visitavo. Anche se la vita del concertista è molto faticosa e stressante.

Quanti concerti dà all’anno?

Un centinaio circa.

Le capita di andare ai concerti degli altri?

All’opera, soprattutto. O quando ci sono concerti che mi interessano particolarmente. Non lo faccio per abitudine.

E quando suonano altri violinisti?

Per lo più non ci vado. Ne ho abbastanza dei miei, di concerti.

A parte Oistrakh, ci sono artisti che hanno contato in modo speciale nel suo sviluppo?

La Callas, Arturo Benedetti Michelangeli, Glenn Gould…

E fra i violinisti?

Menuhin, Szigeti, Fritz Kreisler hanno avuto una parte importante nella mia formazione. Ma oggi preferisco ascoltare musica non violinistica, sia dal vivo sia in disco. Non sono un fanatico che crede che il violino sia tutto: il confronto con gli altri generi è fondamentale per un musicista, perché è fonte di sempre nuovi insegnamenti e stimoli.

Quindi non ha un’idea di che aria tiri fra i suoi colleghi…

Certo che ce l’ho. Penso che oggi esistano molti ottimi e importanti violinisti. Ma se ho due ore libere, preferisco andare a vedere un film di Fellini o ascoltare un disco di Kleiber. O magari un concerto jazz. Lo sa che ho anche inciso un disco di questo genere con Keith Jarrett?

Che cos’è il disco per lei?

Un mezzo per esprimermi. E una verifica. Riuscire a trovare in studio di incisione la stessa concentrazione di un concerto è un impegno molto istruttivo, che abitua ad essere rigorosi e intransigenti con se stessi. Naturalmente il risultato non è sempre del tutto soddisfacente. E il disco lo dimostra. Non ci sono scuse, l’hai fatto, e il pubblico ti apprezza o ti conosce per quello che sei e che puoi fare. Basta non dare al disco un valore superiore a quello che ha. Mi atterrisce perciò che ogni musica possa venire consumata attraverso il disco, creando illusioni e false aspettative. L’aspetto commerciale rischia così di distruggere la funzione positiva che il disco ha.

Che definizione darebbe di sé come interprete?

Il pericolo che cerco di combattere, e che si trova quando si esegue musica sia barocca sia classica sia romantica – cioè tutto il grande repertorio – è quello della neutralizzazione dell’espressione. Essere fedeli alle note non significa fedeltà allo spirito della musica. Mi affascinano quegli interpreti che sono forse più soggettivi, ma che hanno personalità, e non si attengono solo alla lettura di ciò che eseguono. Ciò non significa ammettere ogni stravaganza o eccentricità: anche queste sono estranee alla musica. Credo però che l’interpretazione avvenga nell’ambito di un confronto soggettivo con il linguaggio musicale e al di fuori di ogni livellamento in nome di una presunta oggettività di fronte alla pagina. Così facendo ci si nasconde dietro a valori che mortificano la musica. Si perde per così dire il lato poetico dell’interpretazione, che per me è quello che conta di più nella musica di tutti i tempi. Dunque non neutralizzazione, ma potenziamento delle forze espressive e direi quasi affermative della creazione musicale.

Vista con gli occhi del presente…

 Abbiamo le nostre radici nel passato e sogniamo del futuro, ma la nostra funzione è quella di essere nel presente. Io mi sento un uomo di oggi, sotto tutti i punti di vista. L’importante è non lasciarsi prendere negli ingranaggi distruttivi di un mondo e di una società che credono di poter dispensare la felicità sotto falsi miti, e che tutto possa essere raggiunto e posseduto. Ognuno deve scoprire e stabilire dentro se stesso i valori in cui credere e per cui lottare. Metterli alla prova giorno per giorno, riconoscendo anche di aver sbagliato.

Parole un po’ impegnative, e belle, che celano però una certa tristezza di fondo…

E’ molto importante per me cercare di essere sincero, aperto di fronte agli uomini e alle esperienze. Ciò comporta il pericolo di venire feriti continuamente, e si finisce per portarne le conseguenze. Ma il mio atteggiamento di fondo non è cambiato. Accettando queste ferite sono anzi diventato più forte.

Da che cosa si è feriti?

Credo soprattutto dalla fine di un’amicizia.

E che cosa può lenire queste ferite?

La nascita di una nuova amicizia.

L’augurio più bello…

… è che io possa trovare presto un posto fisso in cui mettere le mie radici. Possibilmente in questa, e non in un’altra vita.

Musica Viva, 8/9 – anno XI

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