Vienna: Wozzeck

V

Che Claudio Abbado diriga e interpreti il Wozzeck di Berg in maniera superlativa, con magistrale lucidità e sicurezza, lo si sapeva da tempo, fin da quella prima volta che lo diresse – nella stagione ’70-71 – in una Scala semideserta, e che invece s’infiammò quando lui lo ripresentò nel ’77 (ricordate le scale mobili di Ronconi?) rigorosamente incorniciato in un Festival-tutto-Berg. E dunque, a parte il piacere di risentire l’opera, questo nuovo Wozzeck di Vienna interessava magari anche per verificare l’ambientamento di Abbado nel suo luogo di lavoro principale, e in quel teatro glorioso e difficile di cui egli è, da un anno, “”direttore musicale””.

Qui Abbado sembra aver già ricreato attorno a sé quel clima di partecipazione e di complicità, e di ammirazione, certo, che infallibilmente lo circonda: ovazioni personali quando appare sul podio, festeggiamenti interminabili quando esce da solo a ringraziare, e poi cortei di persone importanti (e di belle donne) a fargli omaggio, in camerino, dopo la recita. Se questo conta, un personaggio a Vienna lo è già. Der Musikdirektor, il posto che ebbe un tempo Gustav Mahler.

De resto, a Vienna Abbado non si limita a questo. E’ consigliere personale per la musica del Ministro della cultura, ha appena fondato una nuova orchestra (che, guarda un po’, si chiama Mahler), formata da giovani della Mitteleuropa, fonderà adesso un coro gemello ad essa; dirige, come è ovvio, regolarmente i Wiener Philharmoniker, e spesso, anche qui, l’Orchestra da camera d’Europa (tanto che un perfido cronista si chiese sulla Presse se per caso non fosse stata annessa a Vienna). Tutto questo, e altro ancora, Abbado fa con il metodo e l’intensità che gli sono propri, e con risultati ottimi. Eppure. Eppure si ha l’impressione che Abbado stia attraversando un momento di stasi nella sua crescita intellettuale e musicale di interprete, e che la sua peculiare e decisiva ansia di ricerca, di approfondimento, di scoperta, galleggi sulle onde dorate di un successo che lo appaga, nella forma e forse anche nella sostanza. Ha raggiunto, per il suo merito, mete e livelli altissimi: ed è lì che sembra essersi fermato, attento a non sciupare il magico incanto di un rito splendido, ma ripetitivo. Fuor di metafora, da quell’altezza che già tanto offre e significa, Abbado non sembra più disposto ora a spremersi su una gradazione di pianissimo, ad analizzare fin nei dettagli la resa di un timbro, a imporre le sue scelte alle stelle di cui dispone e con cui collabora (orchestra in testa).

Così questo Wozzeck, pur bellissimo, pur curatissimo, assomigliò stranamente a un confezione levigata e perfettamente impacchettata, il cui contenuto si desse per assodato e per scontato. Anche nelle virtù più tipicamente abbadiane: l’asciuttezza, l’acutezza, l’antiretorica, la verità. Ecco, la verità. Questa volta non apparve, nella tragica, amara storia di “”noi, povera gente””, interamente nuda. Benché Abbado disponesse di una protagonista tanto tenera e commovente quanto scattante e fiera (la Behrens), e di altri cantanti con notevoli doti di duttilità, l’avventura rimaneva sullo sfondo, la trepidazione e lo sgomento cedevano alle lusinghe delle certezze: con compiacimento e deferenza per la bravura di tutti. Ma restava, a sciupare l’incantamento, la regia di Adolf Dresen. Di un tono così dimesso e squallido – anche nei costumi, nelle scene, nelle luci – da apparire importata da qualche teatrino di provincia. Le uniche idee: Wozzeck che piscia nel “”pappagallo”” e il Direttore che ne annusa e analizza il contenuto (scena quarta, passacaglia: non è fine); il Tamburmaggiore che per far forza su Marie le ammolla una bella manata fra le cosce, con risultati convincenti se colei, come una squinzia qualunque, se lo porta subito in casa e a letto (ombre di amplesso attraverso la finestra). Questo nella scena quinta. Per il resto, ordinaria amministrazione: cenci, miseria, naturalismo. Il tutto basato sul solito equivoco che il Wozzeck di Berg sia, drammaturgicamente e “”storicamente””, il Woyzeck di Büchner con l’aggiunta della musica. E la drammaturgia musicale? E la psicologia dei personaggi? E l’atmosfera d’incubo? E la disperazione tagliente? E il Novecento? Filava però bene, dato che l’opera si rappresentava in un atto unico senza intervalli, rispettando i tempi dei cambi di scena. E questo fu il suo unico pregio.

Oltre, naturalmente, a quello di piacere ai più.

Musica Viva, n. 10 – anno XI

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