Vienna: Fierrabras

V

Una grande occasione perduta per capire e farci capire di più, di Schubert e del suo teatro. Uno sberleffo inopinato, e anche un po’ maleducato, a chi credeva che fosse finalmente scoccata l’ora per rivendicare, di quel teatro, la misteriosa grandezza, se non storica, individuale: una volta per tutte, con audace atto d’amore, e proprio a Vienna, e proprio partendo dal Fierrabras; cioè dalla fine di quel tormentato capitolo che fu la disperata vocazione teatrale di Schubert, nell’ansia di un’affermazione che mai giunse a concretizzarsi in vita.

Ora, di quest’opera “”eroico-romantica”” ambientata all’epoca di Carlo Magno e della guerra ai Mori, con intrecciate storie d’amore a lieto fine, dove Schubert si lancia in campo con l’ambizione di servire la causa del genere nazionale tedesco (correva il 1823, e negli stessi giorni Weber avrebbe rappresentato a Vienna Euryanthe, ricacciando Schubert nel suo limbo), a Vienna, per il festival, si è data un’ignobile parodia con l’allestimento firmato da Ruth Berghaus; tale da condizionare non solo le ottime intenzioni e la resa musicale di Claudio Abbado, ma anche il giudizio sul valore, e prima ancora sulla sostanza reale, delle aspirazioni teatrali di Schubert. Con il risultato di farci credere che davvero quel teatro è meglio lasciarlo dove sta, nelle stanze chiuse di un museo già inventariato e catalogato. O nei sogni di chi invece crede alla sua potenziale reincarnazione, alla sua vitalità.

Si poteva temere che la Berghaus, regista con un passato impegnato e d’avanguardia nel Berliner Ensemble, non sapesse rinunciare ai vezzi tipici della sua scuola, tanto più inattuale e datata quanto più incline a ripetere schemi automatici e corrosi dalla loro stessa acidità. Di lei, però, si erano ammirate in altre occasioni la capacità di lavorare sulla drammaturgia musicale, e la forza di incidere sulla recitazione e sull’immagine. E forse proprio per questo Abbado l’aveva scelta nella delicata operazione di ripescaggio del Fierrabras. Ma invece di cercare un’individuazione possibile e nuova dei nessi fra la piena travolgente di una musica di ampio respiro melodico e perfino sinfonico da un lato, e gli sbalzi di un’azione drammatica assai meno inconcludente di quel che di solito si crede dall’altro, la regista ha optato per una chiave di lettura univoca e sovrapposta, che si muove per linee esterne senza mai toccare la sostanza dell’opera.

Questa chiave di lettura è la parodia, o meglio la deformazione grottesca e caricaturale: dei personaggi, delle situazioni, della stessa evoluzione drammatica. Ma come può darsi parodia di un oggetto che non sia preventivamente identificato e chiarito nella sua essenza originale? Di cui ci sfuggono la realtà e la definizione per così dire di primo grado, e le funzioni e i collegamenti? Si capisce quanto sia difficile credere oggi ai paladini di Carlo Magno, ad amori ingenuamente romantici e a improvvise trasformazioni di palese inverosimiglianza; ma Schubert ci credeva, e su ciò basò nel Fierrabras la trasfigurazione poetica e musicale: con accenti di intensa, sgomentante verità, e con una carica di invenzione fantastica, quasi visionaria, che potrebbe accendere di ben altro fuoco il gioco appassionante della scoperta del teatro, dei suoi meccanismi e della sua piscologia, ben oltre il luogo comune di una mancanza di tensione drammatica convenzionalmente intesa.

Con la sua presa in giro insensata e schizofrenica, la Berghaus semplicemente si esclude da questo gioco, e ci esclude proditoriamente in quanto spettatori. Ciò a cui assistiamo è solo la parodia di un’opera inesistente: incomprensibile, e irritante. Anche perché lo spettacolo in quanto tale è di esemplare bruttezza e cattivo gusto, infarcito di trovatine e di gags deplorevoli (lo “”straniamento””, ve lo ricordate?), con un uso delle luci (accecanti, indiscrete, livide, sparate; se no, di colpo, buio pesto) che distrugge i teneri chiaroscuri e le delicate atmosfere evocate poeticamente dalla musica. Le mezze tinte di Schubert, così enigmatiche e inquietanti, ma rasserenanti, sempre. Abbado dirige la Chamber Orchestra of Europe, che in buca pare afflitta da qualche problema di equilibrio e omogeneità, con straordinario entusiasmo, ma forzando talvolta le sonorità e i contorni del discorso. Vuole convincerci che questo Schubert ha una tenuta drammatica oltre che musicale; e incalzando così impetuosamente il divenire della musica, quasi perorandone la causa, e accendendone di fiamme brucianti ogni momento, ogni giuntura, ogni relazione, finisce per far venire qualche dubbio anche a chi condivide pienamente le sue idee. La consapevolezza che la scena non lo aiuti, ma anzi lo ostacoli, può essere la causa di una certa mancanza di abbandono, di distensione, soprattutto nelle pagine di più scoperta natura liederistica; ed è ciò che manca per mettere a fuoco definitivamente una partitura restituita interamente (anche filologicamente) al ruolo e al rango che le compete. Certo è che Abbado ci presenta in modo nuovo ed estremamente sensibile uno Schubert inedito, più corposo e moderno, intenso e pressante, tutto vibrazioni ed emozioni. Ma solo nella musica.

Di lui, come del resto di una compagnia complessivamente all’altezza dell’impegno (e giovane: la Mattila, Hampson, Holl, Gambill, per esempio), non c’era da dubitare. Rimane perciò il rimpianto che sia venuto a mancare clamorosamente proprio l’elemento che maggiormente avrebbe aiutato a farsi un’idea dal vivo delle qualità e del carattere del teatro schubertiano nell’opera sua di più grandiose dimensioni. Alla domanda se l’oblio e l’assenza siano giustificate, questo allestimento viennese non ha dato risposta, almeno dal punto di vista delle indicazioni relative ai valori drammatici. Eppure giureremmo che vale la pena di riprovarci, e non solo per la già nota bellezza e varietà delle pagine musicali.

Musica Viva, n. 7 – anno XII

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