L’applauditissimo concerto diretto da Gardiner con strumenti d’epoca ha inaugurato il festival del bicentenario
Ma il “Lucio Silla” di Oestman fa rimpiangere il Debussy di Abbado
Vienna – E se il colpo inatteso dell’anno mozartiano a Vienna fosse dato dalle esecuzioni «mit authentischen Instrumenten», con gli strumenti d’epoca? Questa domanda sembra più che legittima già scorrendo il programma ufficiale del «Mozart-Fest», quasi dimostrativamente inaugurato domenica scorsa dagli English Baroque Soloists e dal Monteverdi Choir diretti da John Eliot Gardiner, il primo e più autorevole ministro del culto. E se per tutta risposta si dovesse prendere a esempio il successo delirante – di quelli, per intenderci, che una volta, neppur troppo tempo fa, toccavano solo a Karajan o a Bernstein – decretato dal pubblico del Musikverein a Gardiner e ai suoi officianti, allora dovremmo prepararci a veder inondato anche Mozart da una prassi esecutiva che finora lo riguardava solo di passaggio, e a sentir promossa, con l’avallo del bicentenario, questa tendenza a mezzo di riscoperta del vero, autentico Mozart. Non a caso gli Harnoncourt, i Brüggen e via autenticando sono i principali protagonisti di questo festival, che si protrarrà, tra concerti mostre e conferenze, fino ai primi di marzo; per cedere poi il passo, da maggio, alle «Festwochen», riservate soprattutto al teatro, con l’integrale delle opere.
Che poi le vie del Mozart «originale» siano tuttora infinite, lo ha dimostrato proprio Gardiner con il suo programma; nel quale, accanto alla Sinfonia in do maggiore K. 338, eseguita con un distacco che rasentava l’indifferenza e con una sonorità equilibrata fino all’appiattimento, figurava la Messa in do minore K. 427, lasciata incompiuta da Mozart ma qui ricostruita e completata da Helmut Eder: un lavoro filologico di apparente, sicura accuratezza, ma tale da non far più distinguere l’originalità dell’invenzione e della scrittura mozartiana da uno stile sacro genericamente elevato, che l’esecuzione individuava con fluente eloquenza nell’ardita mescolanza di polifonia barocca e gesti drammatici romanticamente addensati. L’idea di Gardiner, interprete senz’altro sensibile e colto, di spostare l’attenzione da ciò che innalza Mozart a compositore universale a ciò che invece appartiene allo spirito e ai sentimenti del tempo, e sia pure riconoscendo a Mozart una individualità fuori del comune, dà agli ascoltatori l’illusione di capire di più, e di compiere anche su Mozart un’operazione culturale di significativa importanza; o forse semplicemente ne appaga l’esigenza di ascoltarlo oggi con sonorità, equilibri e relazioni in qualche misura non consueti, e per ciò stesso nuovi. Il fenomeno è tipico di un’ansia da appagamento che la ricorrenza delle celebrazioni inevitabilmente ingigantisce.
All’opera si va invece ancora in estasi per le bellurie dei cantanti, soprattutto quando provengano da artisti del calibro di Edìta Gruberova, Ann Murray e Eva Lind, un giovane soprano di coloratura davvero delizioso. Prima novità dell’anno era la riproposta del Lucio Silla, opera che Mozart scrisse a sedici anni per l’arciduca Ferdinando e che fu rappresentata nel regio-ducal teatro di Milano per il carnevale del 1773. Di questo dramma per musica su libretto metastasiano di Giovanni de Gamerra si ricorda una notevole versione curata da Patrice Chéreau e approdata nel 1984 anche alla Scala, che confermò tuttavia i limiti che lo separano dai capolavori della prima maturità, a tutti gli effetti inaugurati dall’Idomeneo. Nel Silla Mozart mostra una straordinaria capacità di assimilare, appunto, lo stile del tempo e di adeguarsi, con naturalezza, alle convenzioni dell’opera seria italiana; ma se la corda del patetico e dell’elegiaco è già padroneggiata con sicurezza, il salto di qualità verso il sublime dell’Idomeneo non si compie. Lo conferma anzittutto il trattamento dell’orchestra, che non diviene quasi mai protagonista dello sviluppo drammatico, neppure nei finali, e si accontenta di rivestire la canonica sequenza di recitativi e arie con sapienti formule di accompagnamento; per lo più impiegando i soli archi senza emancipare i fiati a strumenti concertanti od obbligati. Si può notare semmai con quale intraprendenza e sottile arte del compromesso Mozart eviti il da capo nelle arie per deviare verso più continue e graduali transizioni, attraverso ripetizioni e sospensioni; sovente subordinando il puro, virtuosistico espandersi delle voci a determinanti, inediti rapporti tonali. E pur nella discrezione dell’orchestra e nella completa adesione alla poetica degli affetti che frammentano il dramma, già si avverte come il motivo della trasformazione di Silla da tiranno sanguinario in nobile difensore della libertà ispiri a Mozart moti di genuina commozione, e per contro arricchisca il carattere degli altri personaggi, costretti loro malgrado a ordire intrighi per affermare la loro dignità. Da questo punto di vista un arco impressionante collega il giovanile Silla alla tarda Clemenza di Tito.
La nuova produzione della Staatsoper riproponeva una messa in scena di dieci anni fa, originariamente per il teatro di Zurigo, di Jean-Pierre Ponnelle: a lui volendo dedicare così un tangibile omaggio a due anni dalla morte. Ispirata dalle stampe di Piranesi, la stilizzata regia in bianco e nero di Ponnelle (ripresa da Grischa Asagaroff) sembrava giocare con le convenzioni per spremerne i meccanismi teatrali; e aderiva alla drammaturgia dell’opera seria con intelligente rispetto. Ma il motivo di maggiore interesse era rappresentato, almeno sulla carta, dal debutto in un grande teatro del direttore Arnold Oestman, fattosi conoscere anche nei dischi per la sua attività mozartiana al teatrino di Drottningholm. Non si è trattato di una scoperta esaltante. Oestman è anche lui un seguace degli strumenti originali, ma a contatto di un’orchestra vera e scalpitante come quella dei Wiener Philharmoniker si è trovato in palese difficoltà, e prudentemente ha scelto la via di una direzione corretta ma anonima, senza ombra di concertazione. Non si capisce poi perché questi sedicenti filologi si accaniscano proprio contro i testi, di cui dovrebbero essere i guardiani, scempiando i recitativi e perfino le arie (mai avevamo sentito un recitativo con susseguente
aria soppressa) e sacrificando quel che rimane nel più totale disinteresse per ciò che accade sulla scena. Se dunque il pubblico si esalta per i cantanti, ha due volte ragione: e qui l’entusiasmo era giustificato dall’altissima qualità delle voci (compreso l’ottimo Thomas Moser nella parte del protagonista).
Tanto maggiore era perciò il rimpianto per l’altro spettacolo che proprio in questi giorni si congeda dalle scene, la stupenda edizione del Pelléas et Mélisande di Debussy nell’allestimento coprodotto con la Scala per la regia di un altro grandissimo uomo di teatro nel frattempo scomparso, Antoine Vitez, con la direzione di Claudio Abbado. La presenza del Musikdirektor dell’Opera di Vienna si fa sentire nella perfetta tenuta musicale e drammatica di una versione del capolavoro debussyano rimasta senza confronti, e cresciuta ancora, unitariamente. Qui tutto è teatro nella sua verità, e nella sua illusione. La tensione della rappresentazione scenica si fonde con la definizione musicale, di profonda bellezza, che della partitura dà Abbado, e si estende a una compagnia di canto di assoluta perfezione (Le Roux, van Dam, Courtis, e poi la Pace e la Ludwig); che si permette perfino il lusso di alternare, come Mélisande, due interpreti ormai storiche come la von Stade e la Ewing. Davvero un momento stellare nella storia dell’interpretazione più recente.
«Mozart-Fest» al Musikverein di Vienna, concerti fino al 2 marzo; «Lucio Silla» di Mozart all’Opera di Vienna (repliche il 31 gennaio e il 22, 24, 26 maggio); «Pelléas et Mélisande», di Debussy (ultima replica stasera).
da “”Il Giornale””