Dall’ “”Ur-Boris”” al “”Post-Boris””
Claudio Abbado ha diretto per la prima volta questo Boris Godunov con la regia di Andrej Tarkovsky nel 1983 a Londra, quando i suoi rapporti con la Scala cominciavano gia a deteriorarsi. Per una curiosa coincidenza, lo riprende ora a Vienna e annuncia le sue dimissioni dalla Staatsoper. A quanto si dice, lo riproporrà all’inizio della sua direzione del Festival di Pasqua a Salisburgo, nel 1994. Da Londra, dove fu presentato tre anni prima della morte di Tarkovsky, a Vienna e Salisburgo, questo Boris sembra dunque destinato ad accompagnare svolte importanti della carriera di Abbado, che a quest’opera e del resto legato da antichi affetti. Ogni volta che lo dirige, però, qualcosa cambia, e si direbbe in meglio: non solo perchè l’approfondimento interpretativo si risolve in una libertà espressiva sempre maggiore, in una decantazione che si fa via via più sicura nel cogliere l’essenziale e nel metterlo in rilievo tralasciando qualsiasi intento dimostrativo, ma anche perchè il testo viene questa volta reintegrato in tutte le sue parti, per estrarne i valori musicali e drammaturgici in una versione formalmente completa. Se davvero, scegliendo la seconda versione originale di Mussorgsky (quella del 1872, rappresentata nel ’74), si accetta di accogliere tutte le scene da lui composte (ma rimarrà sempre discutibile porre all’inizio del1’ultimo atto la cattedrale di San Basilio prima della morte di Boris e dell’epilogo nella foresta di Kromy), allora è necessario riaprire tutti i tagli nel primo e soprattutto nel secondo atto, anche se si tratta di pezzi chiusi che rallentano l’azione. Questa volta Abbado lo ha fatto, e dunque abbiamo avuto un’edizione veramente integrale; che continua ad essere un capolavoro dove non si vorrebbe rinunciare a una sola nota, ma un capolavoro di problematica compiutezza, privo com’e di una economia drammaturgica chiaramente, definitivamente profilata. Non è detto che Mussorgsky escludesse altre soluzioni: recenti ascolti dal vivo dell’ Ur-Boris del ’69 dimostrano che la sua logica era di tipo nuovo, geniale ma coerente, e niente affatto antiteatrale nella distribuzione di tensioni e distensioni. C’e poi il problema della orchestrazione. A differenza della Kovanchina, nel Boris la strumentazione di Mussorgsky esiste, ma non può essere considerata a tutti gli effetti completa. Infatti Abbado la integra, in modo molto discreto e perspicace, con ritocchi che non tradiscono i colori e le asprezze primitive, ma rafforzano e rendono piu incisive le parti: mostrando, con ragione, di non considerare la revisione di Rimsky-Korsakov solo un delitto efferato. Che male c’e, se ciò è ben fatto e rende un servizio a Mussorgsky, allo spirito della sua musica? II feticcio della fedelta al carattere originario (che e sempre riduzione, sintesi arbitraria, soprattutto quando è presunta) rappresenta una ideologia forse un tempo necessaria ma che oggi ci avviamo proficuamente ad abbandonare, e che nella sua maturazione musicale Abbado per primo ha superato con flessibilità le nuove aperture (ciò vale non solo per Mussorgsky, ma per esempio anche per Rossini).
La regia di Tarkovsky è eloquentemente personale, emozionante e firmatissima nell’applicare alla scena le tecniche cinematografiche del flashback, della rievocazione onirica. Ciò produce una dispersione della parabola drammatico-musicale che è intrinseca alla concezione del1’opera: se 1’affresco storico diviene rito e memoria, angoscia e preghiera, le vicende esistenziali e gli scontri politici perdono la loro realtà nel presente per riflettersi in immagini allusive, in associazioni individuali e collettive di simboli e stati d’animo. II segno di Tarkovsky si riconosce nella immobilità visionaria, nel percorso labirintico delle singole scene, avvolte in una luce crepuscolare che richiama lo spazio dei sogni, le tenebre della coscienza,l’immodificabile conflittualita stagnante nel profondo dell’anima russa. Una visione spirituale e poetica di assoluta verità, tendente però ad affievolire fino all’evanescenza le energie di una trama narrativa che non esaurisce la sua carica vitale nella pietà per il mondo e per 1’incerto destino degli uomini.
Musica Viva, n.12 – anno XV