«Vi spiego la vera Kovàncina»

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A poche settimane dalla prima alla Staatsoper  di Vienna, Claudio Abbado parla della nuova versione
Anche quest’opera, come altre di Musorgskij, è stata “corretta” da molte mani illustri: Rimskij-Korsakov, Sostakovic, Stravinskij…

Con Claudio Abbado, il giorno dopo, abbiamo parlato dell’edizione di Kovàncina andata in scena con successo all’Opera di Vienna il 21 gennaio scorso: una nuova versione che ha già fatto discutere molto e che comunque rimarrà una tappa decisiva nella storia delle esecuzioni di questo capolavoro. Come è noto Musorgskij lo lasciò incompiuto, benché vi avesse lavorato dal 1872 fino alla morte. Ciò che ci è pervenuto della Kovàncina originale è l’abbozzo per canto e pianoforte quasi ultimato, escluso il coro finale dei settari arsi sul rogo (che si aveva solo nei primissimi abbozzi), alcuni collegamenti tra scena e scena e la chiusa d’orchestra del secondo atto. Per cui la Kovàncina di Musorgskij è stata finora eseguita o nella strumentazione (che è poi una vera e propria rielaborazione) di Rimskij-Korsakov (1886) o in quella, più vicina alle intenzioni dell’autore e al suo stile, di Dmitrij Šostakovič (1940-59). Ed è proprio di qui che parte la strada verso la versione viennese, che abbiamo ripercorso con Abbado.

«Quando ho deciso di fare la Kovàncina – spiega Abbado – non ho avuto dubbi nello scegliere la versione Šostakovič. Di Rimskij ciò che mi disturba di più, accanto ai tagli (più di 800 battute di musica!) e a certi cambiamenti nell’armonia, è proprio la falsificazione del colorito orchestrale, quella tendenza a una brillantezza che non corrisponde allo stile di Musorgskij e che si avverte soprattutto nei finali, quasi sempre forte, invece di piano e svanendo, come dovrebb’essere. Ma anche Šostakovič è intervenuto sullo spartito originale, cambiando e ampliando la sostanza musicale. Qui non si tratta della legittima libertà di uno strumentatore, il cui lavoro è stato condotto con molto scrupolo, ma di qualcosa di oggettivamente diverso dall’originale: diciamo un’interpretazione in qualche punto piuttosto personale».

Un punto fermo nella storia di Kovàncina è la pubblicazione dell’edizione critica curata da Pavel Lamm nel 1931, poi rivista secondo le fonti originali nel 1976. Da cui risulta appunto la misura dell’intervento di Šostakovič, anche per quanto riguarda la strumentazione.

«Musorgskij ha lasciato, oltre a indicazioni strumentali molto precise sullo spartito, due episodi orchestrati da lui stesso: la canzone di Marfa (un Andante lamentoso in sol maggiore, che la Universal aveva pubblicato già nel 1931) e il coro degli strielzi (un Allegro marziale di grande plasticità), entrambi nel terzo atto. Su questa base noi possiamo farci un’idea del clima, del mondo sonoro di Musorgskij, e cercare di realizzarlo con fedeltà. Ma c’è di più: Musorgskij è anche l’autore del libretto. Nell’edizione russa di tutti i testi di Musorgskij il libretto presenta, rispetto allo spartito, dei tagli, dei ripensamenti. In altri termini qui ci sono riduzioni operate da Musorgskij che là non sono segnate. Riportando questi tagli, come io ho fatto, la drammaturgia dell’opera è molto più omogenea, più coerente, più intensa, direi davvero più musorgskiana. In fondo, lavorando sulle fonti e sul colore orchestrale, noi non abbiamo fatto altro che cercare il vero Musorgskij».

In alcuni punti la versione e la strumentazione di Šostakovič sarebbero state modificate?

«Certo, quando si trattava di realizzare le indicazioni di Musorgskij. Šostakovič ha lavorato molto bene, ma talvolta si è lasciato prendere da un certo eclettismo. Non sempre è stato coerente: per esempio non si è rifatto a Musorgskij tutte le volte che ritorna un tema o una melodia provvista di strumentazione originale, e penso soprattutto alla parte di Marfa. Šostakovič amava e capiva Musorgskij, ma forse anche a lui alcune scelte compositive dovevano risultare ostiche o imperfette. Invece no. Musorgskij voleva creare un tipo di drammaturgia non dipendente dal principio della continuità da un lato, dalle forme chiuse dall’altro: qualcosa di estremamente personale e innovativo. Un altro esempio: il secondo atto, in Musorgskij, si chiude con un accordo minaccioso in pianissimo, uno dei grandi momenti magici dell’opera. Šostakovič lo sostituisce con una anticipazione della marcia dei Preobrajenski (il reggimento di Pietro il Grande) del quarto atto (la scena del perdono), alterando così non solo drammaturgicamente (perché questa anticipazione distrugge il senso di quella apparizione e di quella scena) ma anche tonalmente l’idea, teatralmente efficacissima, di Musorgskij».

In effetti questa edizione di Vienna ha rivelato un impianto teatrale di enorme forza drammatica e di presa immediata, soprattutto nella concatenazione dei primi tre atti. Rimane però il dubbio che Kovàncina sia un grande capolavoro incompiuto anche nel senso che Musorgskij non ha avuto il tempo di mettere a punto la sua concezione globale dell’opera.

«Il fatto dei tagli e degli aggiustamenti sul libretto indica il contrario. Io sono invece convinto che noi disponiamo di tutti gli elementi per dare alla partitura di Kovàncina una veste definitiva, assai vicina a quella voluta dall’autore».

L’edizione critica di Lamm è attendibile? Almeno in un punto, l’ultima scena con il duetto tra Marfa e Andrej Kovanskij, è stato dimostrato che c’è un intervento del curatore, un completamento della linea melodica che non è di Musorgskij.

«Alla versione originale della Kovàncina si può arrivare solo collezionando e verificando le diverse fonti. Credo che anche qui le cose stiano cambiando perché sta cambiando la situazione in Unione Sovietica. Io ho avuto dai russi molta collaborazione, e ho potuto reintegrare alcuni passi dubbi. L’allestimento viennese è stato anche una grande occasione per raccogliere tutte le forze esistenti e preparare insieme una partitura il più possibile corretta e rispettosa delle indicazioni di Musorgskij. E ripeto che non si trattava di interpretarle, ma solo di realizzarle…».

Con un’unica eccezione: il Finale dell’opera, che Musorgskij non ha composto. E sul cui significato egli stesso aveva molti dubbi, dopo la crisi del ’74.

«Ma anche qui qualcosa sappiamo. Anzitutto che l’opera doveva finire piano e morendo: un effetto musicale ma anche drammatico. Musorgskij aveva schizzato la linea melodica corrispondente; curiosamente, però, né Rimskij né Šostakovič l’hanno seguita, sicché i loro finali prendono altre strade, di tipo opposto: in Rimskij abbiamo una specie di grande apoteosi di massa del sacrificio dei Vecchi credenti, di tipo per così dire affermativo e trionfale, in Šostakovič un epilogo trasfigurato ma assai amaro, l’idea che l’apparato statale stritoli, con il suo potere, ogni forma di vita; sicché l’opera sembra ripiegarsi su se stessa e finisce con la ripresa dell’Introduzione, l’“Alba su la Moscova”, ricollegando la fine all’inizio. Ma Musorgskij non voleva né l’una né l’altra cosa, bensì uno svanire della musica che interpretasse l’estinguersi della vicenda e sospendesse enigmaticamente la sua conclusione, lasciando l’opera aperta: quasi una specie di dissolvenza, di tragica, assorta “uscita di scena”, senza giudizio finale. Perciò ho pensato di utilizzare il Finale che Stravinskij compose nel 1913 per Djagilev, che voleva presentare l’opera a Parigi nella sua “stagione russa” e che gli chiese (oltre a lui lo chiese a Ravel) di reistrumentarlo. Stravinskij rifiutò di strumentarlo, ma accettò di scrivere il Finale, proprio per rendere un giorno possibile l’esecuzione. Come base Stravinskij ha usato il materiale lasciato da Musorgskij e il risultato è in rapporto agli altri il più prossimo alle idee dell’autore».

È un Finale molto suggestivo, non c’è dubbio. Spieghiamo un po’ come è fatto. È un Largo nel quale vengono combinati il motivo dell’Introduzione al quinto atto con un corale (un canto popolare russo) la cui linea melodica è indicata da Musorgskij. Stravinskij l’ha ripresa fedelmente, trasportandola un grado sopra e armonizzandola in sol diesis minore.

Ci sono due cose che vorrei chiedere ancora. La prima è questa: la strumentazione di questo brano è interamente di Stravinskij? Se non sbaglio ne è stato pubblicato solo lo spartito (da Breikoft und Härtel, già nel 1913), che contiene alcune indicazioni di strumentazione.

«No, noi abbiamo anche gli schizzi originali della strumentazione di Stravinskij, che sono abbastanza chiari e definitivi. Non ripeterò come li ho trovati, per caso, a un’asta di Londra, perché sembra quasi una storia inventata opposta. Invece non è affatto così, è la pura verità. Tant’è che questi schizzi sono ora pubblicati, e ognuno può rendersi conto che la ricostruzione in partitura è facile, quasi automatica. A mio parere è un Finale bellissimo».

Ed ecco la seconda domanda. Stilisticamente questo finale suona più stravinskiano che musorgskiano. Basta pensare a quella politonalità insistita della chiusa, a quell’effetto di indeterminatezza che è linguistica, molto elaborata, un po’ lontana dal carattere della Kovàncina. Non rimane un po’ estraneo in quel contesto?

«Certo. Questo è un finale di Stravinskij, ma a me pare che funzioni, e che comunque sia la migliore soluzione oggi disponibile per il Finale della Kovàncina. La strumentazione sembra molto affine al colore orchestrale cupo, intenso, pregnante, di Musorgskij, soprattutto nella chiusa, con la campana bassa, lo svanire degli accordi, la dilatazione del tempo, il progressivo spegnersi e prolungarsi della musica… Sì, questo mi pare molto in sintonia con Musorgskij e con quell’opera meravigliosa che è la Kovàncina».

Il Giornale della Musica, n. 37, marzo 1989

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