Der ferne Klang (Ilsuono lontano) è la prima importante opera di Franz Schreker, compositore austriaco attivo in quel periodo cruciale che fa perno intorno agli anni della prima guerra mondiale (per l’esattezza, nato nel 1878, morto nel 1934). Fu creata in due distinte fasi fra il 1901 e il 1910 e data per la prima volta con grande successo a Francoforte nel 1912; mai rappresentata sulle scene italiane, vi è giunta ora in una produzione della Fenice, direttore Gabriele Ferro, allestimento di Giorgio Marini e Lauro Crisman.
Der ferne Klang è la rappresentazione di una utopia. Fritz, giovane musicista, abbandona la fidanzata Grete per andare alla ricerca del “”suono misteriosamente lontano dal mondo””, che lo ossessiona, e che sembra nascere da “”arpe toccate da mani spettrali nel vento””. Disperata, Grete vorrebbe uccidersi ma viene salvata da una ambigua donna, che la avvia alla prostituzione. In breve Grete diviene una puttana famosa e ambìta, che esercita in una lussuosa casa di piacere, “”La casa delle maschere””, su di un’isola della laguna di Venezia. Qui, mentre colei si concede guidando il gioco raffinato della conquista da parte di conti e cavalieri, la ritrova Fritz, spinto verso l’siola dall’eco inafferrabile dei magici suoni. Ma una seconda volta egli la respinge. Grete scende uno dopo l’altro i gradini dell’annientamento di sé: povera donna di strada, sarà ora lei a seguire un miraggio, l’opera di Fritz che la attira a lui. Quando si ritroveranno, Fritz comprenderà che il suono agognato emanava da Grete legandolo a lei: rivelazione che coinciderà con la sua morte e con la definitiva impossibilità di dare forma al suono lontano infine raggiunto.
Se i simbolismi del testo scritto da Schreker tendono continuamente a confondersi con la realtà in un groviglio inestricabile, l’utopia del suono lontano si rivela una tragica ironia: allontanandosi da Grete, dalla realtà, Fritz lo perde sempre e di nuovo.
Ed è significativo che la spinta verso l’alto, un ideale di purezza e di totalità, cui anela Fritz non sia altro che lo specchio della progressiva degradazione verso il basso della protagonista: i due si ritroveranno alla fine come all’inizio, in un circolo infinito, per dare vita, sulla soglia della morte, a un duetto d’amore sospeso nello spazio e nel tempo, il cui modello è evidentemente il concentrico «naufragare e sprofondare» del Tristano. Schreker evita però accuratamente qualsiasi trasfigurazione. La sua musica vuole esprimere «l’interiorità spirituale ricca di mistero», ossia uno stato d’animo puro, una visione utopica. E ciò è qualcosa di più importante del testo, della drammaturgia, della composizione musicale stessa, qualcosa di inafferrabile e di inesprimibile: appunto un sentimento utopico elevato all’ennesima potenza e mai risolto, continuamente differito. Alla lucida dissezione del linguaggio musicale fa riscontro una nuova, continua disseminazione di idee e materiali musicali che si dispongono per successive accumulazioni, quasi inglobando l’intero repertorio dei mezzi espressivi e costruttivi. Ma Schreker sottrae, per così dire, una univoca chiave di lettura che consenta di districarsi nel labirinto dei suoni; tutto ciò che copiosamente viene detto – siano temi, melodie, punti di riferimento armonici, invenzioni timbriche – si ribalta nel suo contrario, non indifferentemente, ma enigmaticamente: e quel che resta è un’impressione insieme chiara e indistinta, qualcosa di vorticoso sullo scorrere insensibile del tempo. La posizione storica di Schreker emerge così in modo inequivocabile nel labile equilibrio che governa gli eventi musicali, ed appare una denuncia, insieme analitica e ricca di pathos, dei turbamenti e delle angosce della crisi. Situato fra il dramma musicale di Wagner da un lato, le tendenze più propriamente novecentesche dall’altro, che anticipa con sconcertante modernità, Schreker non ha che fugaci contatti nella sostanza, con i contemporanei Strauss e Puccini: di essi non possiede l’efficacia teatrale, la sintesi e il colpo d’ala capace di far tornare i conti con la massima evidenza. La musica di Schreker è fatta di brandelli e frammenti ordinati in sofisticate combinazioni, stereotipi che galleggiano come richiami lontani o memorie d’altre, ineffabili cose.
Queste solo alcune delle impressioni suscitate dall’ascolto dell’opera di Schreker, rese possibili anche dall’attendibilità dell’esecuzione veneziana. Gabriele Ferro si è impegnato vistosamente in una delle sue prove più convincenti e appassionate, ben coadiuvato dall’orchestra della Fenice e dal coro croato di Spalato. Sulle scene, stilizzatamente liberty, e sui costumi assai belli di Lauro Crisman, anch’essi improntati all’ambiente d’epoca, Giorgio Marini ha impostato una regia insieme efficace e ambiziosa, tendente soprattutto a rispecchiare le stratificazioni di temi e di simboli del testo, senza dimenticare le sollecitazioni già di per sé teatrali della partitura. Forse per eccesso di coerenza, ha sovraccaricato un po’ troppo e moltiplicato artificiosamente il gioco dei mascheramenti e dei rispecchiamenti, spiegando però bene i nodi fondamentali dell’azione. Nella compagnia di canto, superbamente in rilievo la Grete di Silvia Sass, a disagio nella sua parte impervia il Fritz di Dieter Schwartner (che si alternava con James Mc Cray), generoso e impegnatissimo, anche per le difficoltà della lingua, lo stuolo assai folto dei comprimari. Tutti ce l’hanno messa tutta, questa volta; ed è auspicabile che l’iniziativa della Fenice, che ha restituito non soltanto un musicista importante ma anche un’occasione di riflessione culturale, non rimanga isolata.
Musica Viva, n. 11 – anno VIII