combatté valorosamente a fianco dei Troiani dopo la morte di Ettore e, scontratasi con Achille, che la credeva un possente guerriero quasi imbattibile, fu da lui vinta. Non solo uccisa. Anche amata. Subito dopo averla abbattuta, Achille sollevò l’elmo dell’Amazzone morente e la riconobbe non solo eroe, ma anche donna di folgorante bellezza. Preso da irresistibile passione, la possedette nella polvere e nel sangue. Poi per lei infuriò contro gli Achei, la pianse e ne diede sepoltura sulle rive dello Xanto, sottraendone il cadavere a Diomede che lo reclamava per oltraggiarlo.
Il personaggio di Pentesilea è protagonista dell’omonima, travolgente (24 scene senza divisione in atti) tragedia concepita dal genio abbagliante (e incompreso) di Heinrich von Kleist (1777-1811): edita nel 1808, fu rappresentata per la prima volta postuma solo nel 1876. Kleist, capovolgendo il mito greco, lo ricucì con il tema moderno, in larga misura autobiografico, della colpa tragica di Pentesilea: lacerata tra amore e dovere, vittima ella stessa della passione e della follia macabra, responsabile della propria morte e di quella di Achille. Prima che l’inquieto compositore svizzero Othmar Schoeck (1886-1957) ne ricavasse un’opera in un atto, incalzante e drammatica come il modello, essa era già stata illustrata da Hugo Wolf in un impetuoso poema sinfonico per grande orchestra, composto nel 1883-1885 ed eseguito per la prima volta a Vienna nel 1886 sotto la direzione di Hans Richter, con esito sfortunato.
Nell’affrontare il testo di Kleist, Schoeck abbreviò e snellì il dramma, rispettandone però alla lettera le battute senza alcuna aggiunta, eliminando soltanto alcuni personaggi secondari. L’azione si svolge sul campo di battaglia nei pressi di Troia. Le Amazzoni hanno perso la battaglia contro i Greci. Meroe, una principessa amazzone scampata alla mischia, racconta alle sacerdotesse che Pentesilea, la loro regina, è stata abbattuta da Achille e che Diomede ne reclama le spoglie. Giunge Pentesilea sorretta dalla compagna Prothoe e da Achille. Ella in realtà vive ancora ed è convinta di aver sconfitto Achille: il quale, di lei innamorato, l’asseconda e si dichiara sottomesso, a patto che Pentesilea sia disposta a seguirlo in patria. Al suo rifiuto, Achille le rivela la verità e si allontana. Nel frattempo, giunge la notizia che le Amazzoni stanno avendo la meglio sui Greci. Pentesilea maledice la vittoria e provoca lo sdegno della Grande Sacerdotessa, che l’accusa apertamente di tradimento. Giunge un messo di Achille per proporre alla regina che sia un nuovo duello a decidere chi dei due debba arrendersi all’altro. Pentesilea acconsente, ben sapendo che la legge delle Amazzoni le impone di donare il suo amore solo all’uomo vinto dalla sua forza fisica. Al duello Achille si presenta disarmato, confidando nell’amore di Pentesilea, ma viene da lei ucciso con l’arco in un impeto di follia: non contenta la regina ne addenta le carni come una belva feroce. Solo allora Pentesilea si rende conto dell’insania del suo gesto e in preda alla disperazione si pugnala sul corpo dell’amato.
Una tragedia a tinte fosche, dunque, ennesima variazione sul tema della maledizione di amore e morte, nel quale il mito, con la sua ferocia selvaggia e primitiva, sembra evocare lacerazioni di tutt’altra natura, intellettuali ed esistenziali, intrise di angosce novecentesche. Ed è forse proprio questo aspetto ad aver colpito la fantasia di Schoeck, la cui natura sembrava a sua volta lacerata tra vagheggiamenti di improbabili idilli romantici e tragiche premonizioni di conflitti apocalittici, ingovernabili. Per quanto musicalmente Penthesilea possa essere collocata a buona ragione in area straussiana – ma dello Strauss di Salome ed Elektra, di cui condivide la scansione bruciante in un atto unico, non certo di quello delle tarde opere mitologiche e olimpiche – la sua posizione è particolare anche all’interno della produzione teatrale postromantica. Penthesilea non è un dramma musicale, dato che in esso parola, musica e azione non tendono alla totalità e alla continuità ininterrotta ma semmai al recupero di mezzi teatralmente eterogenei ed eclettici: il tutto calato in una accesa temperie tardo espressionista. Squarci lirici di espansa cantabilità si alternano a parti di declamato scolpito e a passi nei quali il canto cede allo Sprechgesang e al parlato accompagnato dalla musica, in una sorta di straniato ripensamento della carica patetica del melologo; oasi di assottigliata sospensione cameristica su esitanti trame vocali contrastano con impennate fiammanti e urla nevrotiche, nelle quali il coro femminile delle Amazzoni acquista un rilievo speciale, dividendosi tra commento e immedesimazione.
Il tono di fondo dell’opera è dato però dall’orchestra, per la quale Schoeck impiegò un organico insolito, tanto in apparenza “”assurdo”” quanto evidentemente calcolato per farne risaltare i caratteri: soltanto quattro violini trattati per lo più solisticamente contro una forte presenza scura di viole, violoncelli e contrabbassi, due pianoforti ora percussivi ora usati timbricamente come arpe, un controfagotto orfano del fagotto, ben dieci clarinetti, quattro trombe in orchestra e tre (impiegate in stentorei appelli) sul palco, numerose percussioni. E’ un organico che anticipa il clima ossessivamente cupo delle opere antico-barbariche di Orff, e che sembra condividere la visione della tragedia come un mondo di passioni e tensioni estreme, ben lontano da ogni concetto classico di catarsi. A questo clima di asprezza e di ruvida violenza corrispondono i registri vocali gravi dei due protagonisti, rispettivamente mezzosoprano e baritono: senza contare la parte breve ma incisiva, solenne, della Grande Sacerdotessa, contralto.
Penthesilea è un personaggio che può ricordare, come si è detto, da un lato Elektra per la sua dissociazione isterica (per metà Furia irrazionale, per metà Donna offesa), dall’altro Salome per l’ostinata fierezza di vergine invasata. Nel suo canto fiammeggiante non è però trascurato quel carattere delicato e intimo che proviene dalla tragedia di Kleist, e che porta ad approfondire il suo carattere anche sul piano dell’introspezione psicologica. La scena finale non la vede mostro isolato e monolitico nel suo orrore, ma centro di un dramma tutto interiore che si svela a poco a poco nel dialogo con le compagne, pietose testimoni di una presa di coscienza tanto dolorosa quanto ineluttabile. La forza della tragedia si esprime non nell’estasi dionisiaca, né nella celebrazione dell’innaturale al di là di ogni verità, bensì in un lento inabissarsi verso il silenzio, suggellato dalle parole “”Nun ist’s gut””, “”Ora sta bene””, con cui Pentesilea accetta e risolve il suo destino. E qui l’orchestra si piega a una raccolta meditazione che sancisce l’ambigua superiorità della musica sulle parole, sostituendosi alla “”morale”” della tirata finale di Kleist, prima della strappata conclusiva.
Penthesilea, composta nel 1924-25 ed eseguita per la prima volta all’Opera di Dresda l’8 gennaio 1927, è il quinto lavoro teatrale di Schoeck e divide con Massimilla Doni (da Balzac, 1934-35) e Das Schloss Dürande (da Eichendorff, 1937-41) il titolo puramente accademico di opera più rappresentativa, se non più (da noi in Italia, per esempio, mai) rappresentata. Queste ultime opere sono per alcuni tratti più originali e innovative, ma anche più dispersive e velleitarie; la nostra si giova invece della nobile grandezza del soggetto e di una asciutta concisione drammatico-musicale per sfruttare efficacemente non soltanto il valore sovratemporale del mito ma anche la qualità teatrale della mediazione letteraria, a conferma di una tendenza del Novecento incline a cogliere le proprie problematiche non nell’attualità ma nella stratificazione e nella riflessione culturale. E’ un’opera che, nel solco della tradizione, a noi pare coniugare il rango della cultura con la curiosità piacevole della scoperta immediata, senza porre ostacoli particolari all’ascolto.
Variazione novecentesca su amore e morte: Penthesilea di Schoeck
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