Utilità di un centenario: Pëtr Il’ic Ciajkovskij 1893-1993

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Non è soltanto l’onda lunga provocata dalla vicinanza di due anniversari (centocinquant’anni dalla nascita nel 1990, cento dalla morte nel 1993) a rilasciare l’interesse per Pëtr Il’ic Ciajkovskij (1840-1893). Il tempo sembra aver finalmente dato ragione a chi, Stravinskij in testa, ne proclamava la grandezza in assoluto, con motivazioni diverse da quelle di una generale popolarità, sovente malintese e per altro mai del tutto condivisa dalla critica più sofisticata. Anche nella sua complessa figura umana si chiariscono sempre più i tratti di una modernità inquietante, che a lungo rimasero celati nelle visioni languide e decadenti di una musica troppo intima e personale per sembrare anche specchio di un’intera epoca, e di un destino eminentemente tragico di infelicità.

Questa nuova immagine di Ciajkovskij è il risultato congiunto della caduta delle ideologie, che lo emarginavano dal viale delle sfingi del progresso in musica, e delle brecce che si sono aperte agli studiosi – dopo la caduta del muro – nel fortino bene armato del conservatorio sovietico: dove Ciajkovskij era protetto nazionalisticamente, allo scopo di nascondere e porre in secondo piano proprio quegli elementi che ne facevano un musicista internazionale, europeo, per quanto fortemente radicato nell’anima nazionale russa. Aspetti imbarazzanti della sua biografia, fino all’ultimo capitolo oscurissimo di una morte improvvisa e misteriosa a cinquantatre anni, venivano sbrigativamente liquidati con formule d’ufficio; alimentando per contrasto interpretazioni di tipo più o meno romanzesco, di contenuto più o meno letterariamente fiorito e tendenzioso.

Per quale motivo – a esempio – due scrittori tra loro assai diversi come Klaus Mann e Nina Berberova si sono occupati, per di più negli stessi, cruciali anni – il libro del primo porta la data del 1935, quello della seconda uscì nel 1936, ed entrambi sono stati tradotti in italiano in occasione del centenario – di un artista come Ciajkovskij? Evidentemente, per parlare di sé, individuando però proprio in Ciajkovskij la figura ideale nella quale rispecchiare ansie e aspirazioni di tutta una civiltà. E nella quale ricercare, dopo averlo indagato con autentica compartecipazione anche personale, il senso stesso della vita, la rivelazione di un mistero.

Tutta la vita di Ciajkovskij assomiglia a un romanzo. Tanto che i romanzi che vi sono stati scritti sopra hanno la parvenza della verità, non solo storica. Pur partendo da premesse diverse, entrambe le opere citate appartengono a questo genere: in modo esplicito il libro intitolato Sinfonia patetica di Klaus Mann, che è appunto un romanzo centrato su Ciajkovskij; più indirettamente la biografia della Berberova, che si propone di narrare “”la storia di una vita solitaria””. Se Mann proietta appassionatamente se stesso nella figura del musicista russo, riconoscendovi molti tratti della sua stessa natura – le nevrosi, i complessi, le ossessioni, le estasi, la solitudine esistenziale e il dolore cosmico, e più velatamente le tendenze omosessuali e l’impulso all’autoannientamento – la Berberova si attiene su un piano apparentemente più distaccato e obbiettivo, ma lasciando continuamente trasparire, nel modo stesso in cui le vicende bio-grafiche sono ricostruite e accostate, una forte adesione sentimentale, perfino un progressivo processo di identificazione, che alla fine risulterà pressochè totale.

Non è affatto un espediente letterario che il romanzo di Mann, iniziato subito dopo l’emigrazione dalla Germania nazista, cominci con la rievocazione del lungo viaggio compiuto dal musicista lontano dalla patria nel 1887, per circostanze fortuite e non desiderate: sarà proprio questo viaggio ad aprire l’ultima fase dell’esistenza di Ciajkovskij, quella nella quale le turbe, i livori, le angosce e le ansie frenetiche di un’anima mai armonizzatasi col mondo si manifesteranno nel modo più aspro e doloroso, sino alle prese di coscienza dell'””impossibilità di essere felici””. Scrive Mann: “”Mutarono i luoghi e i volti, scivolarono via e si dileguarono. Pétr Il’ic li guardò in faccia e li seguì con lo sguardo, con quel suo sguardo mite e pensoso””. Tutto, per Klaus Mann, si concentra sulla preparazione del congedo.

Una sorta di Leitmotiv accompagna queste peregrinazioni, quasi come un ritornello che venga a interrompere i lunghi momenti di solitudine e di fuga, nei quali la piena dei ricordi e dei pensieri, messa in moto da un gesto, un oggetto o una musica, o da altro ancora, induce la penna di Mann ad avventurarsi nel monologo, per spingersi nell’intimo del compositore e frugarne i più riposti, inconfessabili tormenti. Fede e miscredenza, cielo e terra: ripete, questo Leitmotiv, che Ciajkovskij formulava attraverso di esso “”quel suo ben noto, sempre sbigottito, sempre paralizzante pensiero: Perché ti trovi qui? Com’è ridicolo, sbagliato e raccapricciante che tu ti trovi qui…””.

E non è certo senza significato che tutta la seconda parte del romanzo, con inatteso cambio di scena, come se a un’aria si venisse repentinamente sostituendo un pezzo d’assieme, riviva la fine di Ciajkovskij con gli occhi e con il giovanile trasporto di un altro personaggio corale: quello dell’ambiguo, morboso Vladimir Davidov, soprannominato familiarmente Bobik, di cui Ciajkovskij fu perdutamente innamorato – disgraziatamente era il nipote di tanto zio – , a cui fu dedicata la Patetica e che morirà suicida nel 1915; quarantaquattro anni prima che Klaus Mann sciogliesse allo stesso modo l’irrisolto enigma della vita. E proprio la Patetica, l’ultima celeberrima sinfonia di Ciajkovskij, diviene il simbolo del tratto estremo di una vita già votata alla morte, testimoniata e riscattata ma non salvata dall’arte. Ma che cosa era stata la vita di Ciajkovskij se non un’immensa, incompiuta opera d’arte, antieroica e trasgressiva, eternata e più importante dell’arte stessa? Come si addice a un romanzo, Klaus Mann fa morire Ciajkovskij con un estremo gesto di sfida. Egli compie ritualmente lo stesso atto – introdotto nella narrazione fulmineamente da un flashback – che aveva già compiuto sua madre.

La sera del 16 ottobre 1893 a Pietroburgo, dopo la prima esecuzione della Patetica, beve un bicchiere d’acqua non bollita mentre infuriava un’epidemia di colera: per mettere alla prova e irridere la Morte.

Quasi con fastidio la Berberova registra le diverse voci che già a quel tempo erano circolate sulla morte improvvisa del compositore. Puntigliosamente la scrittrice vuole attenersi ai fatti, verificare le fonti, conoscere di persona i sopravvissuti di quell’epoca, o coloro che ne serbavano per trasmissione diretta i misteri. Ma nella sua ricostruzione della biografia di Ciajkovskij, là dove il resoconto dei fatti e testimonianze cede il passo impetuosamente alla critica delle idee e del pensiero, palpita un’adesione sentimentale che cerca oltre l’apparenza delle cose una verità più profonda: le ragioni di una solitudine inconsolabilmente malinconica, tormentata dal senso di vuoto e di vanità della vita, ma nello stesso orgogliosamente consapevole di sè, e della forza del fato. Dobbiamo a lei, per prima, un’intuizione formidabile, che è anche una chiave di lettura di tutta l’opera del compositore: la maschera che Ciajkovskij portava sul volto era una difesa dalle ferite del mondo, un mezzo per proteggere, occultandola, la propria immagine; ed era insieme il simbolo di un’esistenza innalzata letterariamente a finzione, riflessa con leggerezza e senso acuto della bellezza nella sfera trasfigurante nell’arte. Qui stava la sua verità. Giacché nella realtà Ciajkovskij non aveva mai vissuto. Piuttosto si era costruito un mondo di sogni e di desideri nel quale illudersi e immaginare di vivere. Solo sul letto di morte il volto rimase nudo, senza maschera. Rivolto verso le opere.

La recente monografia di Alexandra Orlova, una musicologa russa che da anni è impegnata ad abbattere le barriere dell’evasività, definisce in modo ormai quasi completo questa nuova immagine di Ciajkovskij. Il suo rispetto del musicista (tradotto magistralmente in italiano a cura di Maria Rosaria Boccuni per la Edt) è in realtà piuttosto un impressionante autoritratto, ricostruito utilizzando e facendo parlare soprattutto i documenti; molti dei quali, a cominciare dalle Lettere ai familiari, escono per la prima volta dall’archivio finora inaccessibile del museo di Klin. Molti lati della personalità del carattere del musicista vengono illuminati in modo nuovo: per esempio la sua indipendenza dal mondo musicale ufficiale, perseguita con ostinazione alla ricerca di una libertà, anche professionale, non condizionata se non dalla missione dell’arte, e il morboso attaccamento alla famiglia, vista come un porto in cui trovare calore e protezione, e da preservare dalla minaccia di scandali: una minaccia per tutta la via Ciajkovskij sentì incombere sulla sua figura. Le reticenze sulla sua omosessualità, di cui peraltro si hanno prove inconfutabili, hanno falsificato in molti casi il giudizio sugli atteggiamenti dell’uomo, fino a sfociare nell’enigma della morte. La Orlava torna con più forza ad attribuirla a un suicidio per veleno, a cui Ciajkovskij fu costretto da un giurì d’onore costituitosi per mettere a tacere un grave scandalo (un rapporto omosessuale con un minorenne della nobiltà). La psicologia di Ciajkovskij, che mai avrebbe messo a repentaglio l’onore della famiglia per colpe di tal genere, avvalora questa tesi assai più di quella ufficiale della morte accidentale per colera. Forse egli pagò anche così il suo isolamento e la sua indipendenza.

Ma anche due libri italiani di recente pubblicazione danno il loro contributo all ridefinizione del musicista. Quello di Luigi Bellingardi, tanto umile quanto utile, è una esemplare guida all’ascolto, in cui ogni musica viene succintamente spiegata e analizzata anche in rapporto alle vicende biografiche, stabilendo solidi punti di riferimento culturali per avvicinarsi alla sua produzione. Più ambizioso è invece il lavoro di Aldo Nicastro, una monografia critica ricca di idee e di proposte, che prende di petto il rapporto arte-vita ribaltandone le prospettive e sciogliendone alcuni nodi in modo assai originale. La statura dell’artista ne esce ingigantita proprio nella sua realtà, nella tensione cioè a superare l’ambito di una confessione di ansie esistenziali e di angosce personali, a cui spesso viene ridotta da una visione angusta e limitativa, per aprirsi a un confronto assai ampio e puntigliosamente avanzato con il mondo circostante: nel quale il carattere nevrotico, instabile e sfuggente di Cialkovskij, e un taedium vitae di pro-porzioni colossali, gareggiano con la prorompente vocazione a comporre, per trasfigurarsi e oggettivarsi nelle misure dell’arte.

Lo stesso spinoso tema dell’europeismo di Ciajkovskij è stato finalmente affrontato in modo convincente. La componente europea, occidentale, rimane un fattore essenziale della civiltà russa dell’Ottocento, soprattutto in una città come Pietroburgo, fortemente dominata da influenze francesi. Per quanto romantici fossero gli stimoli, il rapporto di Ciajkovskij con la musica del suo tempo è filtrato dal classicismo, e più che ai contemporanei guarda idealmente a Mozart per identificarvi costantemente un modello fatto di equilibrio e di armonie, di raffinatezza e di eleganza. Nella musica sentiamo agire una pulsione fisica e una sensualità anche morbosa, ma contenute in una impalcatura formale che con le sue simmetrie e con le sue proporzioni afferma la necessità – psicologica, artistica e morale – di una suprema disciplina stilistica. Non è la carnalità che si esprime nel linguaggio e nelle situazioni della vita quotidiana a esservi rappresentata, bensì l’elemento della passione al di fuori della realtà, mediato da un ordine superiore, insieme storico e fiabesco, sempre presente a far da contrappeso anche nella tensione esasperata dei sentimenti e delle patologie dei personaggi. Su tutto domina un senso del destino come elemento metafisico al quale non è possibile sfuggire.

Ciajkovskij è il compositore che ha rappresentato la Russia meglio di ogni altro proprio perchè ha raccolto in uno scambio culturale fertilissimo la spinta propulsiva e la tensione ideale verso l’Occidente. Il legame fra queste due culture è un nodo critico essenziale per comprendere la figura e l’opera: ed è ciò che lo ha reso un musicista universale e popolare insieme, di estrema modernità e attualità.

 

I libri a cui fa riferimento questo articolo sono pubblicati da:

 

Klaus Mann, Sinfonia patetica, Milano, Garzanti, 1993;

Nina Berberova, Ciajkovskij. Biografia, Parma, Guanda, 1993;

Alexandra Orlova, Ciajkovskij. Un autoritratto, edizione italiana a cura di Ma ria Rosaria Boccuni, Torino, Edt, 1993;

Luigi Bellingardi, Invito all’ascolto di Ciajkovskij, Milano, Mursia. 1990; Aldo Nicastro, Ciajkovskij, Pordenone, Studio Tesi, 1990.

Conservatorio di Musica “Luigi Cherubini” di Firenze, Annuario dal 1988/89 al 1992/93

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