Gli ottant’anni di Gavazzeni
Lo aveva annunciato per tempo, alla timida proposta di qualche amico per uha Festschrift in suo onore: niente celebrazioni, niente feste e soprattutto niente parole. Per lui, dunque, sarà un giorno come tutti gli altri, da trascorrere, complice la stagione, nel fresco studio della sua casa di Bergamo. Magari a stendere qualche pagina di quel diario a cui attende da anni, e che molti, messi sull’avviso, aspettano con curiosità; forse ispirandosi alla lettura, suggerita per l’occasione dall’amico Gianfranco Contini, del ciclopico Port-Royal di Sainte-Beuve, per attingervi la capacità di mediare, anche nell’immaginazione, il passato. Già, sembra proprio che la consueta rappresentazione di quel direttore d’orchestra che, spezzata o deposta per un momento la bacchetta, impugna la penna e si confessa, sia destinata a non abbandonarlo più.
Eppure, la notizia che Gianandrea Gavazzeni compie domani ottant’anni è di quelle che non possono passare inosservate. E se il Maestro dovesse adombrarsene, perché dopo tutto ottanta è una bella cifra e non è il caso di insisterci troppo, gli risponderemmo parafrasando la Violetta della Traviata: «assentite, più per noi che per voi». Giacché questo compleanno tondo è nient’altro che un’occasione per pensare con affetto e riconoscenza a Gavazzeni e a quello che significa un personaggio come lui nella vita musicale del nostro Paese.
Chi lamenta come una mancanza atavica la connessione dell’esercizio della professione musicale coni valori della cultura, soprattutto nel mondo del melodramma, trova in Gavazzeni una vivente smentita. E non soltanto per la mole impressionante di scritti, della natura più diversa, nati dal contatto con la letteratura, ma soprattutto per il modo in cui, da sempre, ha inteso il mestiere di direttore d’orchestra lungo decenni e decenni di carriera: sottraendosi, più che resistendo, al cambiare delle mode per mantenere intatta la sua identità di musicista, fatta di orgoglio e di fedeltà, di tenace attaccamento alle prime esperienze di tempi ormai lontani – ecco il dato anagrafico che pesa – ma sempre rinnovate nelle condizioni e con le responsabilità più diverse. Anche di fronte al più mutevole dei compiti, quello dell’interpretazione musicale.
Gavazzeni non ha mai fatto mistero che per un direttore della sua generazione, affacciatosi alla ribalta quando imperavano Toscanini e De Sabata e Furtwaengler era un modello da ammirare più che da imitare, si poneva il problema, che alla sua sensibilità imbevuta di cultura dovette apparire perfino drammatico, di ritagliarsi uno spazio entro cui far fruttare il proprio talento e la propria formazione intellettuale. Le stesse ragioni anagrafiche, del resto, lo ponevano in prima fila nella battaglia in favore della musica moderna italiana; non solo quella dei Casella e del Malipiero, ma anche di Dallapiccola e Petrassi. E qui Gavazzeni ha assolto un compito storico: come musicista e come scrittore. Non è un caso che nella storia della musica italiana del nostro secolo il suo nome si trovi strettamente intrecciato in questa duplice funzione.
Col passare degli anni, nella sfida sempre reiterata con l’interpretazione delle partiture, nel tumulto di esperienze e collaborazioni con gli artisti più diversi e più grandi, Gavazzeni ha cambiato il suo ruolo ma non la vocazione a essere un protagonista della musica poco disposto a lasciarsi sedurre dal mito del successo e della fama. Rimangono memorabili – e ne fanno fede le locandine e le registrazioni discografiche, su tutte la tesissima e audacisssima riproposta degli Ugonotti di Meyerbeer, che fece epoca -gli anni in cui Gavazzeni è stato direttore artistico alla Scala, fino al 19611; ma pochi ricordano che fu lui, di sua iniziativa, a farsi da parte per lasciare il posto a un astro nascente che molto gli doveva, Claudio Abbado. Non era solo generosità, la sua; acume, piuttosto, e superiore senso della continuità nel tempo che fugge. Doti che lo hanno sempre contraddistinto, anche come interprete.
Oggi che il discutibile privilegio dell’età gli assegna il titolo di decano dei direttori italiani, Gavazzeni continua a fare la sua parte con appassionata dedizione. Chi lo ha ascoltato di recente nell’Adriana Lecouvreur alla Scala ha viva l’immagine di un artista dalla freschezza sorprendente, cui gli anni hanno dato sapienza e saggezza. Ma le sfide non finiscono qui. Sarà lui a inaugurare nel prossimo settembre il neonato festival verdiano di Parma. E siccome questi splendidi ottant’anni non significano qualcosa solo per noi, Vienna lo festeggerà affidandogli un’esecuzione in forma di concerto del Mefistofele di Boito. Ottima scelta. Un po’ Faust, un po’ Mefistofele. Gavazzeni lo è sempre stato. Auguri, Maestro.
da “”Il Giornale””