Una lunga fedeltà

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Petrassi divenne Petrassi non tanto presto, né tanto meno precocemente; ma quando lo divenne, fu per sempre. Si danno pochi casi, nella musica italiana del Novecento, di un compositore predestinato a raggiungere un posto di sicuro rilievo nella storia per naturale disposizione di talento, esperienza e cultura; senza che, apparentemente, nessuno di questi elementi premesse ossessivamente per farlo diventare quello che sarebbe stato: non almeno all’inizio. Basterebbe confrontare la carriera artistica di Goffredo Petrassi con quella dei suoi due grandi coetanei Giovanni Salviucci (1907-1937) e Luigi Dallapiccola (1904-1975) per rendersi conto delle differenze. Lì talento del primo esplose con forza bruciante, prima ancora che esperienza e cultura potessero cementarlo secondo le promesse e le qualità: era come uno squarcio che sembrava prefigurare quel crudele destino di una morte tragicamente prematura, eroicamente solitaria. All’opposto, in Dallapiccola, la lenta ma inesorabile conquista di sé e del proprio mondo spirituale e poetico: un cammino già segnato in principio da scelte assolute, categoriche, volte a ricostituire, con l’adesione incondizionata alla dodecafonia, un ordine linguistico non meno che morale, da perseguire fino in fondo con lucida coerenza e attesa stupefatta. Se prendiamo come punti di riferimento queste due esperienze, quella di Petrassi ci apparirà più segmentata, costellata com’è di punti che si ricollegano fra loro per geometrie spezzate; dalle quali tuttavia la figura d’insieme emerge alla fine perfettamente compiuta. Il Petrassi che si avvia – serenamente – a varcare la soglia dei novant’anni è un musicista consegnato definitivamente alla storia, un autore classico che non ha bisogno di riscoperte perché non ha mai cessato di essere parte integrante della coscienza musicale del nostro secolo, ancor prima che questo secolo mostrasse tutta intera la sua fisionomia congestionata e difforme. E se c’è un autore italiano che del Novecento rappresenta la continuità col passato non sul piano delle discendenze più o meno dirette – dalla scuola di Vienna, dall’espressionismo, dal decadentismo, dal neoclassicismo e via elencando – ma su quello della tensione risolta in creazione – ogni volta elevandosi a possesso individuale di una tecnica, di uno stile o semplicemente di una ricerca espressiva -, questo autore è Petrassi: Petrassi come autore di opere che hanno in se stesse la loro ragion d’essere, ciascuna quasi prescindendo dalle altre, fuori d’ogni intento dimostrativo o ideologico. Ciò contribuisce a dare del mestiere del compositore e dell’artista così come emerge dall’opera di Petrassi un’immagine quasi fuori del tempo, insieme attuale e universale; dove l’attualità non sta tanto, o non solo, nell’adesione pur incisivamente evidente ai linguaggi e ai temi della contemporaneità, quanto piuttosto nel fatto che la musica esprime e comunica qualcosa di di-rettamente percepibile, un’emozione o un’idea; e tutto ciò rinnovandosi realizza in modo da giungere senza mediazioni all’ascoltatore, per mettere in moto un circuito di reazioni a catena, una serie di associazioni che per quanto a volte complesse non mancano di avvincere e coinvolgere indicando obbiettivi e istituendo i mezzi per realizzarli, vuoi con l’invenzione vuoi con l’elaborazione. Sta qui l’universalità della musica di Petrassi, il suo essere al di fuori del tempo e dello spazio: non perché non occupi tempi e spazi, ma perché quei tempi e quegli spazi, non limitati da pregiudiziali esterne al divenire e al farsi concreto della musica, si incarnano in suoni, in timbri, in contrappunti, in agglomerati e figure che hanno l’evidenza e la necessità di un discorso posto, sviluppato e concluso. Chi l’ascolti, dunque, ha ogni volta l’impressione di aver di fronte un’opera le cui chiavi d’accesso saranno comunque messe a disposizione; e una volta entrato nel suo mondo, potrà averne coscienza senza domandarsi da quali coordinate provengano le sue premesse, e dove vogliano andare a parare le conclusioni: giacché la risposta è implicita nella domanda stessa. Ciò è vero, come cercheremo di chiarire, perfino in quei lavori nei quali la presenza di un testo potrebbe suggerire un percorso prefissato, un intento illustrativo al di là della musica, e dove invece l’assorbimento del testo in termini musicali è così forte da renderlo uno degli elementi stessi del materiale compositivo; senza, per di più, che venga mai elusa la comprensibilità delle parole e l’arco della frase compiuta. Altrimenti detto: Petrassi, per intendersi, si ferma prima della disarticolazione e frammentazione caratteristica delle avanguardie del secondo dopoguerra: il testo può diventare materia della composizione, ma non puro fonema disintegrato. Un solo esempio basterebbe a esemplificare questo concetto, proprio perché apparentemente il più arduo: Coro di morti, che supera la pur pesante ipoteca leopardiana in una reinvenzione che è in tutto e per tutto petrassiana.

 

Sulla vita di Goffredo Petrassi sappiamo tutto quello che è indispensabile sapere:         lui stesso ce ne ha fornito a più riprese gli elementi, parlandone con dovizia pari alla misura, e con un equilibrio già di per sé raro. Tra le fonti disponibili almeno quattro (1) sono preziose per la forma in cui si manifestano, quella del colloquio o della conversazione con interlocutori di differente estrazione, ma tutti sensibilmente partecipi della chiarezza, si direbbe quasi portati da Petrassi stesso a sintonizzarsi con un tono asciuttamente serio, concentrato e soprattutto concreto.    Non v’è ombra di

retorica in quello che Petrassi dice di sé: neppure quando vengano sfiorati argomenti delicati, o sarebbe facile infiorare la realtà, parlare con accenti mascherati o da senno di poi, Petrassi sale sul piedistallo e pontifica. Eppure, non vi sarebbe niente di più semplice, per un intervistatore, che ricamare su quei dati di fatto:  il “”natio borgo selvaggio”” di Zagarolo nella campagna romana vicino a Palestrina con i bellissimi ricordi dell’infanzia, l’apprendistato compiuto in una Schola Cantorum dopo il trasferimento a Roma, l’assunzione a quindici anni come commesso in un negozio di musica, un impiego dettato dalla necessità e del tutto casuale, ma quanto gravido di conseguenze: c’è di che scrivere una splendida biografia romanzata, e non è detto che un giorno anche Petrassi non trovi la sua Tibaldi Chiesa. Ma sentite come Petrassi racconta a Enzo Restagno il passaggio

decisivo verso quella che sarebbe stata la sua scelta di vita,      il compimento di un destino:     “”Nel negozio avevo la disponibiltà del pianoforte che avevo preso a suonare da puro dilettante, senza pensare minimamente ad esercitare la professione di musicista. Un giorno mi imbattei nelle Arabesques di Debussy e me le studiai. Passò di là un insegnante di pianoforte dei Conservatorio che era Alessandro Bustini – a quell’epoca professore di pianoforte, non ancora di composizione -, ascoltò questo commesso che così, nel retrobottega, suonava le Arabesques di Debussy, si incuriosì e mi disse: ‘Che cosa fai?’. ‘Beh, allora te le diteggio, così le puoi studiare meglio’. Una settimana dopo mi riportò le Arabesques con la diteggiatura, io le studiai, lui ripassò ancora e alla fine disse: ‘Insomma, ti darò lezione, vieni da me’. Così si cominciò con le lezioni, una volta alla settimana naturalmente, perché era l’unico mio giorno libero…”” (2).

L’ingresso in Conservatorio, nel 1928, non fu la ratifica di una decisione già presa, ma una tappa sentita come necessaria per fortificare un amore. La leggenda di Petrassi autodidatta non ha molta consistenza se raffrontata con gli atti ufficiali – diploma di composizione e di organo – ma mantiene un’aura di verità: nel senso che a comporre non lo spinsero gli studi rigorosamente accademici, ma le esperienze di ascolto al Teatro Costanzi e all’Augusteo e gli incontri con i musicisti, che innestarono una specie di reazione chimica sul fertile terreno dell’ingegno e specialmente della curiosità intellettuale: non stupisce che Casella, il meno incasellato fra le personalità di spicco di allora, agisse sotto questo riguardo come una specie di cartina di tornasole, oltre a contribuire alla prima affermazione di Petrassi, nel 1932, con la Partita per orchestra.

Petrassi ha ribadito più volte che la sua formazione culturale avvenne vagando da una cosa all’altra, assorbendo un po’ da tutte le parti, senza rigore, senza metodo e senza nessuna disciplina. E’ un’affermazione che, nella sua drasticità, va presa con precauzione: se da un lato essa conferma un’attitudine mai ripudiata, quella a non schierarsi con nessuna scuola o tendenza o corrente (neppure Casella ebbe un influsso diretto su di lui), dall’altro si presta all’equivoco dell’eclettismo, altrettanto estraneo all’indole di Petrassi. Rigore, metodo e disciplina erano valori interni al suo carattere, non etichette da applicare a qualsivoglia fronte, che avrebbe finito per escluderne altri. Ciò complica, ma non impedisce la ricostruzione dell’ambito entro il quale si saldò la formazione culturale e musicale di Petrassi. Quanto al primo aspetto, quello culturale in senso lato, Petrassi non ha mai preteso di considerarsi un uomo di “”raffinata”” cultura, ma soprattutto non ha finto di apparirlo. Che la sua cultura sia profonda, densa e ramificata, lo dimostra l’acutezza delle sue scelte compositive, la finalizzazione di tutto un sostrato di conoscenze e predilezioni a esiti di ricreazione in termini musicali: ciò vale anche per le scelte dichiarate dei testi impiegati, per lo più in lingua italiana o latina. D’impronta appunto solidamente autarchica, senza vergognarsene, la base della sua cultura letteraria, con qualche significativa puntata nel versante francese e inglese, ma non tedesco. Ma più che nella letteratura l’inclinazione di Petrassi va ricercata nel mondo dell’arte figurativa, e di quella pittorica in particolare: tanto che su questo aspetto della sua personalità, nelle mutuazioni da quest’ambito a quello musicale, occorrerà ritornare più a fondo. Come musicista, invece, Petrassi ha assimilato per così dire in presa diretta tecniche e stili di tutti i compositori della sua epoca, di nessuno tuttavia diventando seguace o alfiere. Il suo legame con la tradizione melodrammatica ottocentesca è pressoché inesistente,sostanzioso invece quello con la antica musica strumentale italiana, puramente ideale quello con la generazione dei rinnovatori primonovecenteschi (si è già detto che neppure Casella incise personalmente sulle sue scelte compositive). L’estraneità costitutiva al mondo tedesco si conferma nella lontananza dalla scuola di Vienna e nella adesione peraltro parziale al costruttivismo contrappuntistico di Hindemith, che Petrassi ebbe modo di conoscere più da vicino e che corrispondeva alla sua tensione di lineare geometria, tanto estranea all’esasperazione cromatica degli espressionisti quanto refrattaria al dogmatismo integrale del metodo seria-le: che poi vi siano venature espressionistiche in certe sue opere, o contatti con le tecniche seriali, è altro discorso. La conta si restringe dunque, per restare ai massimi, a Stravinskij da un lato, a Bartok (ma non al Bartok del folclore riassorbito alle fonti) dall’altro: senza che né l’uno né l’altro assurgano mai esplicitamente a modelli. Pur respirando la temperie della musica del suo tempo, e annodando radici profonde con quella del passato, Petrassi raggiunge l’individualità affinando un cammino personale che tanto più si va spogliando di riferimenti quanto più trova mezzi propri di espressione.

 

Gli anni Trenta vedono le prime affermazioni di Petrassi compositore. La strada per uscire allo scoperto è costituita dalla partecipazione a concorsi e festival, nazionali e internazionali. La vittoria, rispettivamente nei 1932 e nel 1933 con la Partita per orchestra, del Concorso di composizione bandito dai Sindacato Nazionale Musicisti a Roma e del Concorso internazionale di composizione bandito dalla Federazione Internazionale dei Concerti a Parigi, gli schiude queste porte: il 2 aprile 1933 il lavoro viene eseguito al1’Augusteo da Bernardino Molinari con l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (luogo e nomi che Petrassi aveva frequentato finora con passione da ascoltatore) e successivamente invitato al festival della SIMC che si teneva ad Amsterdam. Anche Dallapiccola, poco prima, aveva esordito nell’agone internazionale con una Partita per orchestra: i nomi dei due compositori, pur così diversi fra loro, vengono da ora in avanti sovente accostati come capifila della nuova musica italiana. La quale con loro, fin da questi esordi radicati nella tradizione ma contrassegnati da uno slancio tutto moderno, mostra una chiara apertura europea, una franca liberazione dalle ipoteche delle generazioni precedenti e un allineamento sulle posizioni della ricerca contemporanea. Se ne trovano le tracce soprattutto nella libertà formale aliena alle formule e agli schemi, nella sensibilità armonica attratta da associazioni e concatenazioni inusitate, nel colore della strumentazione depurato e tuttavia intenso.

Con l’ingresso ufficiale nella composizione – premi internazionali ed esecuzioni in centri importanti – gli anni Trenta segnano anche l’inizio della carriera professionale di Petrassi nell’insegnamento e nell’organizzazione musicale. Già nel 1936 venne nominato accademico di Santa Cecilia, nel ’37 seguì l’incarico di sovrintendente al Teatro La Fenice di Venezia (cui spettava anche l’organizzazione della Biennale) e nel ’39 la nomina a professore di composizione al Conservatorio di Roma, cui Petrassi giunse dopo aver già lungamente sperimentato i capisaldi della didattica. E’ significativo che a tale impegno non abbia rinunciato neppure in seguito, quando avrebbe potuto farlo: fino al 1960 rimase a insegnare al Conservatorio di Santa Cecilia nel corso superiore di composizione, per passare poi alla cattedra del corso di perfezionamento di composizione presso l’Accademia di Santa Cecilia e lasciarla per limiti di età nel 1978. Per quarant’anni, dunque, Petrassi ha avuto un ruolo pubblico nell’insegnamento scolastico e accademico, formando almeno due generazioni di compositori, fra i quali figurano molte delle personalità più in vista della musica dal secondo dopoguerra a oggi (è lui stesso a non volerne fare i nomi, per non far torto alle omissioni inevitabili in un elenco così lungo di allievi). Nessuno di questi, ci pare, è stato influenzato da Petrassi come compositore in senso stretto: un po’ per la già rimarcata unicità del suo stile, sfuggente a qualsiasi definizione di scuola, ma soprattutto perché il suo modo di insegnare, una volta esaurita la tecnica, consisteva nel seguire lo sviluppo degli allievi con il confronto e la dialettica delle idee, fino a farne emergere la personalità attraverso il lavoro e la ricerca. Che egli stesso abbia profittato da questa attività è più che lecito supporre; che il suo scopo fosse anche quello di “”insegnare il modo di comportarsi civilmente in relazione alla musica e alle società””, una delle poche affermazioni in cui Petrassi sembra uscire allo scoperto con consapevole orgoglio.

Accanto a composizioni da camera di preziosa cura artigianale e a liriche per canto e pianoforte che avviano l’esplorazione della poesia antica e moderna radicandola nelle esperienze di rinnovamento della musica italiana del Novecento (dai lirici greci nella traduzione di Salvatore Quasimodo ai prediletti Foscolo, Leopardi e Montale), due importanti prove d’autore in ambito sinfonico e concertistico (il Concerto per orchestra del 1934 e quello per pianoforte e orchestra del 1939, tenuto a battesimo nientemeno che da Walter Gieseking) preludono alla svolta della maturità, rappresentata da due lavori sinfonico-corali di ampie proporzioni e di forte impegno formale: il Salmo IX per coro e orchestra, composto tra il 1934 e il 1936 (prima esecuzione a Torino nel 1936) e il Magnificat per soprano leggero, coro misto e orchestra (1939-40, prima esecuzione a Roma nel 1941). Si tratta dunque di due pagine d’argomento sacro in lingua latina, non immemori della polifonia rinascimentale e in particolare della pratica corale che Petrassi aveva fatto da ragazzo alla Schola Cantorum di San Salvatore in Lauro, ma profondamente arricchite, in special modo la prima, solo alla lontana ricalcata sulla Sinfonia di salmi di Stravinskij, da un confronto deciso con le tecniche e i linguaggi della musica moderna, europea: in un contesto che volge formule e imprestiti di varia provenienza a un significato nuovo. Ritmi seccamente incisivi, disegni che spezzano la rotondità della frase, sonorità scabre già prefigurate nella scelta dell’organico strumentale centrato sugli ottoni: questi procedimenti vengono a scuotere, nel Salmo IX, l’opulenza e la fastosità quasi barocca dell’impianto formale, secondo una tecnica nella quale sezioni brevi e in sé apparentemente autosufficienti creano con la loro alternanza e opposizione (di tempi, piani, atmosfere) una frammentata continuità del discorso. Notevole esempio, tipicamente petrassiano, di linee e spessori che creano associazioni criptiche e tuttavia saldamente intessute nella figura d’insieme, risultante alla fine quasi con sorpresa.

Il filone madrigalesco, che appariva in controluce nelle eleganti leggerezze e trasparenze contrappuntistiche del Magnificat, quasi annodando il ricordo della presenza individuale dei canto liturgico con gli ariosi arabeschi della polifonia cinquecentesca, si prosciuga in un’ascesi di raggelante verità nel capolavoro sommo di Petrassi, Coro di morti, iniziato il 20 giugno 1940 alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia e terminato un anno dopo (prima esecuzione a Venezia il 28 settembre 1941). Il titolo di “”madrigale drammatico”” che accompagna la partitura, insieme con la dedica originaria “”A me stesso, tutt’ora vivente”” (poi mitigata in quella più neutra che vi figura stampata, “”A G. P.””), non ha alcunché di celebrativo nei confronti di una tradizione a cui pure Petrassi si sentiva legato: esso allude semplicemente, nel momento stesso in cui squarcia il sipario di un “”teatro invisibile””, alla forza evocativa dell’immagine, alla sintesi, ancora una volta proiettata verso approdi inediti, di passato e presente. Solo che qui il punto focale in cui avviene l’incontro sembra sospendersi sull’eternità senza spazio e tempo, in un pessimismo laico che la musica espande come un velo sacro di pietà steso sul destino umano. Più che la scelta del testo, tolto dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie di Giacomo Leopardi, è il modo in cui Petrassi lo impiega a esser determinante. Trascurato, anche come semplice antefatto, il dialogo in prosa, egli mette in musica esclusivamente i versi del canto delle mummie, affidandolo a un coro di voci maschili; e lo avvolge in un tessuto strumentale scuro e ruvido (tre pianoforti, ottoni, contrabbassi e percussione), capace tuttavia di eludere la tetraggine della tinta monocorde con improvvise accensioni, di rompere la cadenza ineluttabilmente statica con rapinose accelerazioni. Il rivestimento musicale del contenuto poetico trasforma così dall’interno il significato ultimo del testo, che non è di desolata rassegnazione ma anzi di vibrante testimonianza vitale. E la passione, qui nel duplice senso di pena e noia dell’esistenza, afferma il valore di tutto ciò che viene negato riscattandone le certezze: l’equivalenza di vita e morte nell’infelicità, il fatale interrogativo sull’identità umana lasciano intravedere una risposta che se non può essere detta tuttavia è a portata di mano, e significa amore per gli uomini, solidarietà, calore, senso di vicinanza. L’opera più cupa di Petrassi è in realtà il manifesto più toccante del suo umanesimo, di una spiritualità che travalica perfino i confini della religiosità.

 

Coro di morti è la prima composizione pubblicata dalle Edizioni Suvini Zerboni, che diventerà da ora in poi l’editore esclusivo di Petrassi: un esempio di fedeltà reciprocamente ripagata. Essa sta simbolicamente ai centro di un gruppo di cinque grandi lavori sinfonico-corali che rappresentano, nel suo catalogo, vertici eccelsi, sui quali si stagliano nel modo più esplicito i motivi profondi della sua arte, della sua personalità di creatore. E ancora una volta occorre ripetere che a contare in tal senso non è tanto la scelta dei testi quanto l’interpretazione che la musica ne offre. Noche oscura, cantata per coro misto e orchestra sul poema di San Giovanni della Croce (1950-51, prima esecuzione al Festival di Strasburgo nel giugno 1951) e Orationes Christi (1974-75, eseguite per la prima volta a Roma nel dicembre 1975) completano questo gruppo di lavori. Il primo dei due segna apparentemente un approdo mistico, che si consacra in termini di contemplazione estatica, ma nello stesso tempo tende a oggettivare la visione sonora (ossimoro non casuale) in un rigoroso controllo degli elementi utilizzati a comunicarla, come qualcosa di reale, nella sua progressiva ascesa verso la luce e la beatitudine. Colpisce qui che un assunto quasi utopico si incarni in precise figure musicali che senza rinunciare al costruttivismo e all’apposizione mirano a rendere l’idea di una disincarnazione, di un alleggerimento dei pesi fino alla spoliazione e all’annientamento. O viceversa: che la spoliazione cantata dal testo, onde l’anima possa ricongiungersi con 1’“Amato” nella beatitudine, sia registrata con tale concretezza e concentrazione da sembrare un passaggio obbligato verso una condizione spirituale pregna di linguaggio e di forma. Anche nell’estasi Petrassi non vuoi rinunciare a costruire e definire ì termini musicali della rivelazione.

Le Orationes Christi concludono una fase di ispirazione più o meno direttamente religiosa nella quale si iscrivono anche i Mottetti per la Passione (1965) e le Beatitudines (1968). Ma a differenza di queste, nelle quali sembra farsi strada una nota di disperazione (forse collegata anche alla crisi che Petrassi avvertiva attorno a sé, e da cui era se non influenzato almeno coinvolto), quella torna a riproporre l’idea di una trasfigurazione, di una speranza additata al mondo e all’uomo affinché se ne assuma la responsabilità. Cristo stesso è visto qui come individuo, il cui destino dev’essere compiuto perché sia realizzata la volontà del Padre: la sua preghiera proviene dall’umanità, ma è nello stesso tempo distacco dall’umanità, accettazione solitaria del dolore per la salvezza degli uomini. E non a caso la voce di Cristo non è affidata a un solista ma a un coro, cui un’orchestra nettamente caratterizzata nello strumentale, nella scabra contrapposizione timbrica di ottoni da una par-te, viole e violoncelli dall’altra, risponde, quasi a voler partecipare al mistero della fede: tanto che si potrebbe perfino intenderla come una sorta di orchestra antropomorfa, nella quale sanguinano (non solo metaforicamente nei suoni ulcerati, cruenti degli strumenti) le ferite dei tormenti e della morte. Raramente Petrassi ci ha dato un quadro così fiammeggiante e doloroso della sua appassionata religiosità, degno di evocare, in una mimesi musicale dell’ombra e della luce, una scena della Passione della pittura secentesca, addirittura fiamminga.

Queste pietre miliari nel cammino di un artista in continuo movimento segnano svolte e ritorni significativi; ma per quanto perseguano un assunto, queste opere non sono riconducibili a un’unica definizione, né possono essere racchiuse in un’immagine univoca dell’opera del creatore. D’altronde è anche rilevabile come tra gli intrecci che legano tra loro in modo molto stretto le diverse opere, la produzione di Petrassi si concentri periodicamente su alcuni generi o stili, quasi a voler porre, sviluppare e compiere un suo discorso; e questo atteggiamento, benché ogni volta si completi nell’ambito del singolo lavoro, riflette e rilancia le problematiche ad esso connesse, fino a considerarle in una prospettiva più ampia, più aperta.

Così il decennio che separa Coro di morti da Noche oscura è quasi interamente occupato dal teatro, con la composizione successiva di due balletti (La follia d’Orlando, 1942-43, e Ritratto di Don Chisciotte, 1945, entrambi rappresentati nel 1947 con la coreografia del loro ispiratore, Aurelio Milioss) e di due opere in un atto: Il Cordovano (1944-48) e Morte dell’aria (1949-50). Analogamente i due decenni seguenti vedranno l’affermazione più completa della musica strumentale, di piccole e maggiori dimensioni, con i capolavori della musica da camera: Trio, Quartetto, le due Serenate, Tre per sette, Estri, Souffle, per citarne solo i più noti. Fino alle estreme pagine corali a cappella, di una purezza radiosamente umile (Tre Cori sacri, 1980-83), e a quelle splendide epigrafi coeve nelle quali Petrassi, ogni passione spenta, sembra davvero voler porre un suggello in fronte a tutta l’opera sua, per accennarne la pace e la gioia raggiunte alla soglia del crepuscolo, in sereno colloquio con se stesso e i suoi cari: Ode a Luigi Dallapiccola per la morte dell’amico, Poema per archi e trombe, dedicato alla moglie Rosetta, dolcissima compagna di tutta la vita, Sestina d’autunno “”Veni, creator Igor””, in memoria di Stravinskij, Laudes Creaturarum, obolo francescano per tutti gli uomini di buona volontà, Inno per dodici ottoni, ultimo, soffuso richiamo di squillanti memorie del tempo che fu. Vi è poi, distesa nel tempo, la serie degli Otto Concerti, che si protrarrà a cadenze intermittenti dal 1951 al 1972. I due emisferi, quello vocale e quello strumentale, si saldano in queste opere del dopoguerra e del nostro tempo fino a costituire tutta intera l’immagine di Petrassi compositore, e renderla perfettamente riconoscibile, consegnata definitivamente al libro della storia.

 

A prima vista, anche tenendo conto di un atteggiamento tipicamente novecentesco nei riguardi dell’opera, può meravigliare in questo ampio spettro di interessi la scarsa presenza del teatro, come si è detto limitato a due balletti e a due atti unici: dove l’idea stessa di teatro è per così dire sospesa in una planimetria drammaturgica alquanto levigata, dal punto di vista sia formale che contenutistico. Non si tratta come è chiaro di scelte casuali. Petrassi ha più volte ribadito che l’espressione dei sentimenti e delle passioni nell’opera lirica (ossia ciò che di essa è causa finale ab aeterno) si scontrava in lui con un innato pudore a dichiararsi, a dar vita a personaggi reali, e che la forma e la struttura del teatro musicale gli sembravano svuotate di contenuto, al punto da non sentirsi spinto a riempire di contenuti una forma nella quale non credeva e non si riconosceva. E’ possibile, senza volersi addentrare nei campi delle ipotesi, che nel suo inconscio vi fosse un’avversione non solo nei confronti della tradizione melodrammatica italiana e del dramma musicale tedesco ma anche verso il genere operistico come tale, avvalorata in modo indelebile dall’ascolto nel 1933 dell’Oedipus rex di Stravinskij, sorta di stazione terminale nel percorso dell’opera-oratorio: esperienza che potrebbe aver convinto Petrassi, anche sulla base delle sue personali idiosincrasie, ad allontanare da sé l’avventura della scena. Giacché, nonché a essersi più volte dichiarato e “”denudato”” rivelando le passioni del suo intimo, e su temi anche delicati come quelli della fede e della religione, dell’impegno e della protesta civile, Petrassi aveva al

suo arco frecce acuminate di virtuale teatralità: e le usò benissimo, riversando le sue capacità di gestualità rappresentativa per esempio nelle opere strumentali. Dove tuttavia rimane sullo sfondo l’elemento che di ogni rappresentazione teatrale è essenza e centro, ossia l’elemento drammatico, il contrasto diretto e il conflitto immediato, insomma l’opposizione che genera il dramma nelle situazioni e nei personaggi di un’azione. Non occorre affermare che Petrassi ne fosse completamente sprovvisto (anzi, i suoi lavori strumentali dimostrano il contrario) per riconoscere che non era lì la molla del suo agire artistico.

Abbiamo già osservato che le composizioni corali rivelano un senso del sacro molto profondo e sofferto, con risvolti di natura religiosa ma non dogmatica o dottrinale. Questo senso del sacro, all’inizio incarnato in fastose architetture sonore, diviene col tempo sempre più asciutto e decantato, intridendosi di valori morali e di significati metafisici. Questa riduzione (anche di mezzi) è una delle caratteristiche fondamentali dell’evoluzione artistica di Petrassi e va di pari passo con l’affinamento della tecnica, con l’assottigliarsi dei materiali e del modo di usarli. La riduzione dei mezzi è possibile perché la conoscenza e il sapere producono chiarezza e dominio sulla materia, e quindi l’inessenziale può essere scartato; ma è anche indice di una precisa volontà, quella di ridurre all’essenza i termini della ricerca, enucleandone i principi fondamentali. Ed è così che il senso del sacro si ripropone da ultimo, depurato, nelle Orationes Christi, a ratificare una posizione di non ritorno: come l’ascesi della musica coincide con il proclama di un messaggio universale, così la sua riduzione all’essenza è pienezza e ricchezza di significati non più soltanto religiosi bensì universalmente umani. È quanto Petrassi “”esprime”” in due lavori degli anni Sessanta, Propos d’Alain, per baritono e dodici esecutori, e Beatitudines, che porta il sottotitolo di Testimonianza per Martin Luther King. In questi testi di concreto impegno civile il fondamentale umanesimo di Petrassi giunge a depurare se stesso e diventa constatazione di uno stato di fatto, riconoscimento di una verità: la moralità del creare è il riflesso della moralità dell’uomo.

E necessario partire di qui per affrontare il nodo del teatro. L’approccio ad esso avviene in modo indiretto, sospendendo in primo luogo l’“azione”. Nella Follia d’Orlando, dal Furioso, i tre quadri del balletto rappresentano solo i momenti essenziali dell’azione, affidando al recitativo di un baritono, posto all’inizio di ogni atto, la funzione narrativa. Ciò mira a privare le danze di ogni intrusione letteraria o poetica per esaltarne invece l’indipendenza strutturale e il gestuale astrattismo. Il tema della follia ritorna nel Ritratto di Don Chisciotte, su soggetto di Aurelio Milloss: anche qui realtà e fantasia si mescolano in una visione della danza come mezzo di evocazione gestuale, gioco di geometrie e di ritmi che sottintendono ma non esibiscono un dramma, lasciandolo semmai indovinare dietro la scena. Ciononostante il senso dell’avventura umana e delle sue utopie, in un personaggio simbolico come Don Chisciotte, ritratto di una follia che si sostituisce alla realtà e la ricrea, risplende in tutta la sua grandezza, con una partecipazione acuta e non priva di emozione.

Il Cordovano, opera in un atto da un entremes di Cervantes nella traduzione di Eugenio Montale, è una scommessa vinta sul piano che a Petrassi sembrerebbe più estraneo, quello dell’opera comica. Il segreto della riuscita sta ancora una volta nell’interpretazione della scommessa posta a se stesso: riuscire a esprimere i sentimenti dei personaggi travestendoli attraverso l’ironia, scrivendo cioè non un’opera comica propriamente detta ma la sua parodia. Questa parodia, se da un lato consente a Petrassi di utilizzare tutti gli stilemi che una lunga tradizione aveva accumulato, dall’altro ne smonta i meccanismi, li analizza e li riflette mostrandone la natura convenzionale: ed è appunto da questa operazione di svelamento che nasce la verità dell’opera. Gran parte della sua riuscita va ascritta a merito del libretto, nel quale Petrassi coglie la straordinaria modernità della lingua di Montale, “amorale e velata”; perfino il nitore, la purezza dell’invenzione vocale e strumentale sembrano da essa prender vita e verve.

Un processo opposto è alla base dell’altro atto unico, Morte dell’aria, su libretto dell’amico pittore Toti Scialoja: un’opera invece del tutto “”seria””, addirittura una favola terribilmente tragica, che Fautore definì “”una moralità scenica””. Non si tratta infatti tanto di una vicenda narrata così come Scialoja la descrive nella premessa alla partitura d’orchestra quanto di un assunto morale rappresentato. E la verità dell’assunto (la follia come utopia, la lotta contro la realtà in nome di una salvezza invisibile che sta oltre la coscienza razionale) si realizza nella accettazione più totale delle leggi dell’opera; centrifugate però in un linguaggio sempre più irrequieto e ambiguo, immesse in una parabola dolorosa che vede l’unica realtà possibile nella volontà di fede. nella fedeltà a se stessi. L’opera era stata per Petrassi una speranza “”disperata””, fondata su un lacerante dissidio. La fedeltà a se stesso, nella storia della propria vita, lo allontanò per sempre, dopo queste prove. da quel mondo pericoloso di fantasmi e di illusioni.

 

“”Rimasta apparentemente senza seguito, l’esperienza teatrale di Petrassi si concentra in meno di un decennio tra la grande polifonia corale della giovinezza e la nuova polifonia strumentale dell’età matura, ma ebbe probabilmente una funzione determinante nella definizione del rapporto tra suono e segno, tra struttura e significato nella futura musica di Petrassi. È come se il teatro sia servito al compositore per scaricare sulla scena e sul testo le esigenze narrative, assicurando così alla musica una totale autonomia, esonerandola dall’impegno semantico. Il teatro, in modo particolare il balletto, ebbe una funzione di necessaria chiarificazione, nel corso della quale la musica di Petrassi pervenne ad assicurare la persistenza dei valori espressivi attraverso il loro annientamento nell’autosufficienza del gesto sonoro. La grande musica dell’ultimo Petrassi, a partire dal Terzo Concerto per orchestra, si configura come una danza mobilissima di segnali sonori, nei quali sono interamente trasfigurati in concretezza di linguaggio fonico i valori di cultura, di partecipazione civile, d’impegno politico e religioso che fanno di Petrassi uno degli uomini più rappresentativi della civiltà contemporanea. Che ciò sia stato possibile si può forse affermare che è dovuto alla decantazione espressiva avvenuta attraverso l’esperienza teatrale”” (3).

Massimo Mila, autore di questa pregevole visione d’assieme del capitolo teatrale di Petrassi, è stato con Fedele D’Amico il primo e più autorevole commentatore della sua opera, seguita fin dall’inizio con attenzione e acutezza di giudizio. I loro scritti su Petrassi e su Dallapiccola, tesi a additare in loro protagonisti assoluti della musica italiana e internazionale, s’intrecciano inestricabilmente con la produzione dei due compositori e l’accompagnano attraverso le diverse tappe dell’arte e della vita: un lungo periodo che segna la nostra cultura si trova così riunito nel lavoro comune della creazione e della riflessione critica ai livelli più alti. Accanto a loro, Mario Bortolotto guida la fila degli studiosi che di Petrassi hanno dato un’immagine meno coinvolta sul piano personale, per così dire più oggettiva e analitica. E non è un caso che con Bortolotto il discorso critico si addentri soprattutto sugli aspetti più propriamente compositivi, linguistici e strutturali. prendendo di mira in primo luogo le opere strumentali.

Quello che abbiamo chiamato il secondo emisfero della produzione di Petrassi si suddivide a sua volta in due grandi insiemi, dei quali il primo comprende la serie non omogenea degli Otto Concerti, il secondo una costellazione ancora più differenziata di lavori da camera, con o senza voce. La serie degli otto Concerti per orchestra, ciclo più che blocco unitario, costituisce un monumento musicale di straordinario rilievo, o meglio una sorta di grande viale attraverso il quale possiamo ripercorrere il cammino petrassiano nello sviluppo originale della sua fantasia strumentale. E’ inevitabile che tra il primo di essi, risalente al 1934, e l’ultimo, del 1972, vi siano differenze enormi, di qualità e di stile ma quel che conta è la linea ininterrotta della ricerca petrassiana così come si realizza nell’arco globale di queste composizioni. Accomunati dal titolo, che va inteso anzitutto come ricorso a una pratica variabile di stile concertante in opposizione allo schema obbligato della Sinfonia, gli Otto Concerti presentano dunque notevoli differenze sia nell’organico che nella forma, e bisognerebbe prenderne coscienza partitamente per tentar di racchiuderli in una definizione comunque non passibile di univocità. Per esempio il Primo Concerto (1934) è nei tre tempi tradizionali Allegro-Adagio-Tempo di marcia, conclusi e staccati l’uno dall’altro, e ammette ancora la presenza del pianoforte in un fondamentale terreno neo-classico, virtuosistico-motorio. Mentre dal Secondo in poi, abbandonata ogni ipoteca neoclassica, la ripartizione in tempi, anche quando sarà mantenuta, avrà coordinate assai diverse: nel Secondo e nel Quarto i tempi distinti ci sono ancora, ma non prevedono stacchi nell’esecuzione; nel Terzo e nel Sesto la divisione in tempi è del tutto soppressa, per ricomparire nel Quinto, nel Settimo e nell’Ottavo, dove però i movimenti sono rispettivamente due, sei (un Prologo, quattro sezioni numerate e un Epilogo: in realtà si tratta di un flusso unitario senza interruzioni) e tre, come nel Primo. Questa coincidenza è però affatto casuale: il possesso della continuità organica nel quadro della intera composizione è ora talmente saldo da potersi permettere lo stacco fra i tre movimenti senza comprometterne l’unitaria globalità.

Il Primo Concerto apparteneva a una fase giovanile, di apprendistato. Gli altri sono successivi a quella chiarificazione espressiva che attraverso il periodo della guerra pose Petrassi di fronte a nuove esperienze ed esigenze, sia interne al suo sviluppo che esterne alla sua evoluzione, il Secondo Concerto è del 1951, viene cioè diciassette anni dopo: da quel momento l’attività di Petrassi si rivolgerà quasi esclusivamente ai campi della musica strumentale, per dedicarsi sempre più alla sperimentazione di complessi inusuali, in combinazioni e strutture formali anomale. E qui che la ricerca timbrica petrassiana, non ponendosi limiti, toccherà l’apice dell’estrosità.

Questa scelta è indizio di una maturazione che spinge il compositore ad affrontare di petto, senza supporti testuali, non soltanto la tecnica strumentale ma anche il linguaggio della costruzione e della elaborazione della materia musicale. Alcuni principi si affermeranno proprio nel corso della composizione dei Concerti: l’atematismo come rifiuot della dialettica tra figure o blocchi contrapposti, la variazione continua come mezzo di articolazione dei contrasti, la flessibilità metrica come principio di individuazione delle correlazioni ritmiche, la tensione contrappuntistica come garanzia di una concezione polifonica mai rinnegata, piuttosto affinata. Lo stile concertante trova soprattutto nel trattamento orchestrale del Terzo e Sesto Concerto, intitolati rispettivamente Récréation concertante e Invenzione concertata, applicazione originale, sul terreno di una piena libertà inventiva; il Quarto, per soli archi, risolve con grande varietà di spunti e con vero virtuosismo tecnico il confronto con una scrittura intensamente cromatica, aspra e materica, quasi realistica, o meglio urgentemente espressiva. Ed è da questa aspirazione alla concretezza dell’espressione che si origina, proprio rifiutando l’abbandono alla violenza della materia che avanza e minaccia di travolgere, una concezione formale ancor più mediata e controllata. setacciata fino all’ossessione della sfida.

I Concerti sono anche una risposta alle sollecitazioni che venivano a Petrassi dall’esterno, da ciò che accadeva intorno a lui nella musica e nell’arte: sotto questo aspetto essi possono anzi essere letti come una specie di diagramma dei suoi interessi, delle sue predilezioni e dei suoi rifiuti. Se il Quarto Concerto risente a tratti della lezione di Bartók, dal Quinto in poi si fa più attuale l’interessamento per le forme seriali e per la tecnica dodecafonica, che si erano diffuse in Italia largamente negli anni Cinquanta. Anche qui Petrassi non abbraccia le tendenze dominanti, ma le sottopone al vaglio di una lucidissima critica. per ricavarne stimoli compatibili con l’espandersi di uno stile già assolutamente individuato. eppure non impermeabile alle novità. disponibile a mettersi in discussione. Il suo atteggiamento nei confronti della scuola di Darmstadt è a questo proposito significativo: pur rifiutando la definizione di “”anno zero”” della musica e il radicalismo che ne era la premessa, Petrassi si rendeva conto che era in atto un profondo cambiamento e ne era partecipe: ma era altrettanto cosciente che quel cambiamento avrebbe prodotto i suoi frutti solo quando fosse giunto a generare qualcosa di solido e di definitivo. di pacificato. Ed è questa la meta a cui la sua musica ha sempre teso, resistendo alle tentazioni della musica elettronica e dell’alea.

Assai istruttivo risulta il caso del Quartetto per archi, composto nel 1957-58, subito dopo il Sesto Concerto. Questo unicum della produzione di Petrassi può essere considerato un’opera di chiarificazione, ma è nello stesso tempo caratteristico di tutto il suo modus operandi, particolarmente in un momento criticissimo della sua evoluzione: ed è per questo che ce ne occuperemo più da vicino, quasi a mo’ di documento esemplare.

La composizione, come spesso accade in Petrassi, è costituita da un unico lungo movimento, articolato in cinque parti, ognuna delle quali presenta una diversa indicazione agogica: rispettivamente “allegretto comodo, un poco allegretto, presto, vigoroso, adagio”. Questa suddivisione non comporta però cesure tali da essere nettamente percepibili all’ascolto: anzi accuratamente le evita con la sovrapposizione di figure metriche e ritmiche che conferiscono al processo musicale una continuità che non è altro che il risultato della connessione di sezioni e idee compositive liberamente svolte, in modo quasi autonomo. Più che di sviluppo, quindi. si può parlare di saldatura di episodi che si snodano e confluiscono l’uno nell’altro in un arco tenuto insieme da una dinamica insieme coesa ed energica: successione di idee che nella loro diversità svelano alla fine una parentela, perché nascono dallo stesso seme originario.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare e analogamente ai Concerti il ricorso alla forma del Quartetto non significa affatto un omaggio alla tradizione, neppure in quel senso pienamente novecentesco in cui lo erano per esempio i Quartetti di Bartók, assai ammirati da Petrassi. Il termine “Quartetto” non vale qui come genere con tutte le sue implicazioni storiche ma semplicemente come organico, come ipotesi formale: in quanto omogeneo e fondamentalmente monocromatico (quattro archi soli), tendente a una purezza architettonica di nudi contrappunti e di figure lineari in alternanza fra loro. Era esattamente lo stesso di quanto Petrassi era solito ricercare, con altri mezzi, sempre diversi, nelle sue creazioni: l’invenzione concertante che si realizza plasticamente nell’istante stesso in cui produce i suoi effetti dinamici e che spazia dalla contrapposizione violenta dei blocchi sonori alla più capillare integrazione delle parti, dall’estro coloristico dei timbri puri alla caleidoscopica fusione dei gruppi, per affinità o differenza. Organico e ipotesi formale avevano però anche un’altra ragione: sperimentare ex novo e di conseguenza mutare un modo di concepire la musica, di adoperare e maneggiare il materiale musicale, di comporlo, e perfino di stenderlo. È Petrassi stesso a confermare questa ipotesi e a fornire indicazioni preziose sulla collocazione del Quartetto: «Il Quartetto presenta delle curiosità: comincia in un modo abbastanza tradizionale e poi piano piano lascia i modi tradizionali per avventurarsi verso altre regioni. Di lì è cominciato questo mio senso di liberazione e parallelamente si è sviluppata in me la coscienza di poter procedere verso quei luoghi che prima mi inibivo pensando: “”Mic sunt leones””. Dicevo fra me e me: “”Voglio andare in quei luoghi dove stanno i leoni, voglio vedere se i leoni mi sbraneranno. se sarò loro vittima oppure se riuscirò a domarli e a convivere con loro””. Questo è stato il mio iter e il Quartetto è stato su quella via il mio primo tentativo» (4). Dove stavano, chi erano i leoni? È facile identificarli coi radicali della Nuova Musica “”assetati di sangue”” e raccolti nella fossa di Darmstadt; ma non basta circoscrivere alla serialità dodecafonica o al suo contrario, l’appello all’assoluta liberazione dell’alea, il nodo del problema: un problema verso il quale Petrassi sentiva inconsciamente un misto di attrazione e repulsione. La risposta più completa a questa domanda la offre, operativamente, proprio il Quartetto, allorché per così dire si fanno personaggi reali i motivi stessi di questo conflitto: secondo una progressione, dall’autore stesso indicata, da modi tradizionali a regioni inesplorate, dove essi sembrano muoversi, dopo essersi qualificati tematicamente in rapporto alla serie, come eccitati protagonisti (la frenesia motoria del Presto) o pallidi fantasmi (la desolazione dell’Adagio conclusivo). Nell’alternanza continua di aggregazione e disgregazione, di linee e punti, di geometrie e ritmi, di pieni e vuoti, di figure tematiche e di schegge intervallari i cui riflessi sbiadiscono la trama dei collegamenti, tra euforia e depressione, si consuma una battaglia senza spargimento di sangue, architettata con sapiente eleganza e completa familiarità. Tale da rendere perfino il nemico una presenza necessaria, consequenziale e utile, e, da ultimo, radiosa la liberazione. Questo è Petrassi.

 

Il Quartetto ci introduce direttamente nel cuore della produzione cameristica, da alcuni considerata, pur in un catalogo così ricco, l’esito più prodigioso di tutta la lunga carriera di Petrassi. Quel processo di riduzione all’essenza che abbiamo individuato come una costante nelle sue opere del dopoguerra, e che significa individuazione di tua stile nelle diverse manifestazioni della creazione musicale, si compie definitivamente quando Petrassi lavora solo con pochi strumenti, in essi concentrando tutta la sua immaginazione. In ogni tratto, l’assoluta padronanza della materia. Può darsi che egli non abbia mai cessato di essere uno straordinario artigiano anche quando costruiva le sue spettacolose cattedrali e i suoi palazzi incantati con i mezzi delle grandiose compagini corali e orchestrali: certo è che nelle miniature cameristiche il lato più squisitamente artigianale della sua vena si realizza nel piacere supremo di cesellare un suono, un timbro, una figura, piegandola sfidare l’impossibile. La Serenata per flauto viola, contrabbasso, clavicembalo e percussione, il Trio per archi, la Seconda serenata-Trio per arpa, chitarra e mandolino, la Musica di ottoni per ottoni e timpani, Tre per sette, Estri: sono solo alcuni dei titoli che impreziosiscono questo catalogo. In margine al quale, come suprema vertigine dell’invenzione, stanno i pezzi per strumento solo: Souffle per flauto, Elogio per un’ombra per violino, Nunc per chitarra, Flou per arpa… Gesti Segni. Che s’imprimono indelebilmente nella memoria per non abbandonarci più.

Di questo dobbiamo essere infine grati a Petrassi di aver continuato a fare della musica un’esperienza da gustare a trecentosessanta gradi, con i sensi non meno che con l’intelletto. Pochi compositori, forse tra i contemporanei il solo Stravinskij lo supera in questo, sono stati capaci di rendere il suono non solo pensiero, sentimento, colore, figura. ma anche punto, linea, spessore, volume: insomma qualcosa di visivo, di afferrabile, di concretamente assimilabile nell’attimo fuggente. Si è già accennato all’inizio che, a differenza di molti compositori influenzati soprattutto dalla letteratura o dalla filosofia, il referente più prossimo a Petrassi sembra essere l’arte figurativa: segnatamente, la pittura contemporanea astratta. Questo amore per la pittura, nutrito anche dalla frequentazione degli artisti, in una stagione in cui la musica collaborava con le altre arti su un piano di parità nella creazione d’un costume e d’un gusto moderni ed europei, corrispondeva a una qualità intrinseca alla sua indole: quella che si potrebbe chiamare “”senso dell’astratta concretezza””. Ma qui l’ossimoro è una parola composta: astratto-concreto, sullo stesso piano. Come vi è concretezza anche nelle figure astratte, sol che le si sappia vedere, così nella musica strumentale di Petrassi la concretezza del suono, la nitidezza delle figure, la varietà poliedrica delle sfaccettature timbriche tendono all’astrattezza. Ed è un’astrattezza di carattere più visivo che concettuale: l’astrattezza di segni che noi possiamo vedere e ascoltare insieme.

 

Da alcuni anni – l’ultima sua opera è del 1984: ed è bellissimo che si intitoli Inno, un inno per dodici ottoni soli – Petrassi ha smesso di comporre. Non certo per mancanza di passione, di immaginazione o di interesse, o perché non avesse più niente da dire. E neppure per il carico di un’età venerabile, portata con giovanile entusiasmo, arricchita da una vivissima curiosità per il mondo e per gli uomini. La malattia agli occhi che lo ha costretto a ritirarsi non costituisce solo un impedirnento materiale a comporre, ma pare un segno del destino che Petrassi ha saputo come sempre interpretare con animo grato: la sua musica nasce da un attaccamento alle cose di cui l’occhio è il tramite verso l’interiorità. Nelle parole conclusive dell’intervista di Carla Vasio Petrassi racconta, oltre ciò che ha udito, ciò che ha visto: «Mi sembra di vedere che ho avuto un destino preciso fin dall’inizio: fare il musicista. Ho cercato di realizzarlo nel modo migliore. Comunque oggi ringrazio il destino che mi ha fatto nascere musicista e mi ha permesso di alimentare questa passione per tutta la vita».

Una lunga fedeltà. Il titolo di questo articolo, come probabilmente anche il suo contenuto, tendono a privilegiare, della parabola artistica d Petrassi, la coerenza e il coraggio, un tratto per così dire umano ed etico. Non è, come è chiaro, una categoria di giudizio assoluta. Giacché l’arte non si identifica con la fedeltà. Il fatto fondamentale, attestato da una quantità di studi eccellenti e appassionali sulla sua opera, è semmai che Petrassi è prima di tutto un grande compositore del nostro secolo, o meglio un grande compositore senz’altra specificazione. E fedeltà non vale allora come connotato morale ma come semplice constatazione di un fatto. A che cosa è stato fedele Parassi nella sua vita di artista? Alle note, anzitutto, alla responsabilità verso ciò che scriveva: evitando di perderne il controllo, di abbandonarsi alla confusione, allo smarrimento e alla tentazione delle mode: che è pur sempre un modo per non abdicare alla lucidità dell’intelligeuza. In secondo luogo è stato fedele all’idea della trasformazione del linguaggio nel suo perpetuo divenire, senza mettere in dubbio la possibilità di ricostruirne un’immanenza semantica, una forma riconoscibile e creativa, sfuggendo alla seduzione del nichilismo, del pensiero negativo. Ha saputo accettare la relatività della perenne mutevolezza adattando forme e linguaggi in geometrie cristallizzate, in estri fantasiosi, in luccicanti guizzi, in severe meditazioni: talvolta amare, ma mai disperate. Ha voluto mantenere saldo l’ottimismo della ragione, anche quando il cuore dubitava e si abbatteva: fidando nella capacità di creare, di esprimere un valore. Tutto questo non sarebbe tuttavia bastato se Petrassi non fosse nato musicista. Ma probabilmente non sarebbe stato un grande musicista se questi non fossero stati i suoi valori, le sue verità. In quella inesausta ricerca di sperimentazione sul suono e sul linguaggio che è stata la sua opera, un elemento emerge in tutta la stia evidenza: la volontà di comunicare, di raggiungere una sintonia con gli altri uomini per metterli a parte di un mistero. Uomo del nostro secolo, Petrassi ha interpretato le ansie e le angosce, la crisi e la condizione di noi uomini moderni con la ferma convinzione che quel mistero potesse essere, se non svelato, almeno testimoniato dalla musica: nella concretezza dell’astrazione, segnale indubitabile di una meta.

A Goffredo Petrassi, edizioni Suvini Zerboni, Milano, 1994

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