Un Trovatore in controluce

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A Monaco è andata in scena un’edizione discutibile ma affascinante della celeberrima opera verdiana

Sinopoli e Ronconi dimostrano il teorema delle passioni impossibili

Monaco – Un nuovo Trovatore a Monaco? Che bisogno c’è di andar fin lì per ascoltarlo? Un momento. Anzitutto Il Trovatore non è un’opera che s’incontri tutti i giorni, circondata com’è da preconcetti e i cantanti? dove sono oggi i cantanti? Poi ci sono Giuseppe Sinopoli e Luca Ronconi, che da noi in teatro non hanno mai lavorato assieme; ce li vedi poco, quei due, a fare il prototipo assoluto del melodramma verdiano: non sarà comunque un ripasso di routine della partitura. Poi c’è un altro motivo, forse il piú attraente: sai che qui potrai comunque ascoltare l’opera in pace, da cima a fondo, senza che alla prima nota incerta intervenga il loggionista di turno a dire la sua. Non è un vantaggio da poco.

Sulla carta anche la compagnia di canto è una sfida, quasi una provocazione: perché se Julia Varady (Leonora) e Stefania Toczyska (Azucena) sono veterane delle loro parti, Dennis O’Neill debutta nel ruolo «impossibile» di Manrico e Wolfgang Brendel, che qui di solito canta Mozart e Wagner, prova a cimentarsi col Conte di Luna. Niente italiani, dunque: neppure Ferrando (Harry Dworchak) lo è.

Il risultato? Discutibile, ma non banale. Ronconi, per esempio, qui fa quello che non sempre fa (ed è colpa grave che non lo faccia piú spesso): lavora seriamente su un testo comunemente ritenuto illogico e incoerente nella drammaturgia per cercarne la verità, la ragione piú profonda. Ma non sovrappone idee astratte o simboli vaghi, estranei; al contrario, analizzandolo a fondo e rendendolo visibile sulla scena per quello che è: un teorema delle passioni, una matematica dei sentimenti, una dimostrazione dell’impossibilità dell’amore quand’esso si presenti come contrasto insanabile di pulsioni. Ogni personaggio vive sulla scena questo dissidio: Leonora è divisa fra l’amore tutto terreno per il Conte e quello puramente ideale per Manrico (stupendo è il momento in cui, all’apparizione di quest’ultimo, si getta nelle braccia dell’altro e Manrico e il Conte, fratelli e rivali, sono vestiti degli stessi abiti);

così il Conte soccombe a una gelosia che è soprattutto ansia d’amore.

Azucena, che per Ronconi non è la vecchia strega della tradizione ma una giovane e seducente zingara, sente la sua sete di vendetta come una realizzazione, forse inconscia, del suo amore per Manrico (che non ne sia la vera madre, qui è evidente); e Manrico, a sua volta, ha con lei un contatto quasi fisico che vorrebbe, ma non può, trasferire su Leonora. La scena in cui si stanno per celebrare le loro nozze è chiarificatrice, con quell’altare addobbato di lumini e quei cipressi sullo sfondo che già lasciano presagire l’esito funesto. E che la morte aleggi in questo dramma dove tutto, fuorché i sentimenti, è menzogna, finzione, illusione, Ronconi lo sottolinea costruendo ambienti oscuri, soffocanti, senza uscita.

Sinopoli legge la partitura in controluce, evitando l’immediatezza. L’emozione deve essere ciò che è già chiaro. Occorre semmai neutralizzare le zone bandistiche e le componenti viscerali, raffinare, ridurre all’essenza. Sinopoli allarga i tempi, attutisce le sonorità dell’orchestra, lavora di cesello sui particolari, appiattisce volentieri lo slancio e la vitalità delle cabalette e delle strette, ma riflette continuamente, e ci fa riflettere, su come Verdi porti i contrasti all’eccesso per poi sospenderli in una vertigine dolorosa, in una sorta di blocco totale della possibilità di agire, di vivere. Solo nella «pira» la tensione si scatena, senza pudore: la «pira», sembra voler dire Sinopoli, è un gesto epico che appartiene all’immaginario melodrammatico, popolare.

Non tutti i cantanti assecondavano però questa visione. E in ciò stava il limite della  insolita proposta. La Varady e la Toczyska, correndo qualche rischio ma forti di mezzi espressi eccellenti, sembravano le piú disposte a farlo; Brendel invece, così sguaiato nei recitativi e forzato nel canto, era solo deludente. Quanto a O’Neill, in questa luce la sua prova, seppur tecnicamente non ineccepibile, funzionava: a conferma che Il Trovatore non è solo l’opera di un tenore. E il pubblico lo ha capito benissimo, sostenendolo ed emettendo alla fine, solo alla fine, il suo giudizio: duro verso Brendel, entusiastico per Sinopoli e signore, tiepido ma non ostile per Ronconi. Una lezione di civiltà e di competenza.

 

(repliche 5, 8, 12, 14 febbraio)

da “”Il Giornale””

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