Nell’immenso vuoto lasciato dalla scomparsa di Luigi Dallapiccola, in molti credemmo che la sua musica fosse anzitutto una consolazione, una fonte imperitura di ricordi legati alla sua figura di uomo e di Maestro, più ancora che la testimonianza oggettiva di una presenza artistica fra le più compiute nel panorama artistico del nostro secolo. Medicate dal tempo le ferite, riassorbite le impressioni personali, la voce di Dallapiccola ha cominciato a risuonare per intero nelle sue partiture, colmando quel vuoto e quel silenzio come se si trattasse di un nuovo inizio, della riconquista di un modo nuovo di considerarne la musica, secondo le lucide, profetiche parole di Arnold Schönberg: la vera vita di un artista comincia solo dopo la morte, quando la consapevolezza che un itinerario creativo si è definitivamente concluso lo colloca sul piano delle cose assolute. In altri termini, lo consegna alla storia.
Dallapiccola, che in ogni gesto anche minimo tendeva ad attingere la misura di eternità che all’artista è concessa, non temeva il giudizio della storia. Con essa si era scontrato in più di un momento difficile, quando la fedeltà alle proprie scelte lo aveva condotto inevitabilmente alla solitudine e all’isolamento. Molto è stato detto e scritto sulla sua adesione alla dodecafonia, sulla sua ostinazione nel dare voce e forma all’ansia di ricerca e di espressione che l’animava. I motivi di quella adesione, gli sforzi puntigliosi per riconoscere i principi logici attraverso cui essa si realizzò, Dallapiccola li ha spiegati in più occasioni, ma mai con tale chiarezza come nel suo scritto Sulla strada della dodecafonia (1950): «Personalmente ho adottato tale metodo perché è il solo che, a tutt’oggi, mi permetta di esprimere quanto sento di dover esprimere». Se la dodecafonia offriva la garanzia di valori sostanzialmente stabili su cui operare, essa era anche «uno stato d’animo», un «modo di essere»: dunque un veicolo di libertà per una scelta personale, un fatto eminentemente interiore.
Dovendo indicare il centro ispiratore della musica di Dallapiccola, non avremmo dubbi: esso è nella funzione del canto come filo rosso, anzitutto interiore, della composizione. E non tanto per mere considerazioni statistiche, visto che i due terzi della sua produzione contemplano la partecipazione della parola cantata, quanto perché la musica per Dallapiccola è espressione, e non potrebbe esistere altrimenti. A volte accade che anche la serie rigorosamente dodecafonica non sia altro che repressa nostalgia del canto, ingabbiata in una sorta di pudore della coscienza razionale che si impone la costrizione per poter liberare, con più forza e splendore, l’immagine poetica. Così, se la sostanza della sua musica si concretizza nel canto, nel canto come essenza stessa della musica (la musica è melodia, aveva detto Busoni), la dialettica dell’articolazione seriale funge da solvente, provocando reazioni di altissima concentrazione compositiva ed emotiva; ma sempre nella dimensione artigianale di un umanesimo di segno positivo e costruttivo, padrone assoluto della tecnica e rivolto a renderla strumento di una comunicazione immediata.
Anche il marcato senso strutturale, l’ideale architettonico retto da simboli, numeri, simmetrie e corrispondenze, di che sempre più col tempo le partiture dallapiccoliane si compiacquero, non rappresentano una schiavitù, né tanto meno una caduta nel formalismo di griglie prefissate, ma restano il “mezzo” che, attraverso il dominio incontrastato della forma, serve a puntualizzare lo stile, a imprimere nell’opera il marchio di una chiarificazione. Spesso la musica di Dallapiccola ricorda una salita per un pendio oscurato da nuvole, che all’improvviso si apre illuminando altezze e visioni incontaminate: e sempre, a quelle altezze, anche il ghiaccio risplende, “super nivem dealbatur”.
Dello stile dallapiccoliano maturo, così personale da apparire inconfondibile in poche battute, la peculiarità fondamentale risiede nell’amore quasi ossessivo per il suono. Un suono inteso non già alla stregua di fenomeno acustico o idolo materico (la strumentazione, per quanto possa essere raffinata, è anch’essa un mezzo per realizzare l’idea), ma come tangibile manifestazione di una fede illimitata nei valori sensibili della musica. Per questo, pur urgendo in lui il dovere civile e artistico di vivere nell’impegno di fronte all’attualità, il suo tendere all’espressione di una trascendenza rivelata dal suono significa, nel segno impresso dal creatore, il riconoscimento di un valore eterno, di una verità oltre le cose, proiettata nel futuro: giacché il futuro non sta nel linguaggio, nella materia, bensì nella tensione insaziabile verso un ideale di pura spiritualità. Fede e luce sono i connotati ultimi della musica di Dallapiccola. La composizione a cui attendeva nei giorni che precedettero la sua morte e il cui abbozzo rimase incompiuto sul suo pianoforte la sera del 18 febbraio 1975 si basava su una antica preghiera latina che comincia con queste parole: “O lux, quam non videt alia lux”. Così ha voluto lasciarci, così lo ricordiamo per sempre: egli vide quella luce.