Un raggio di luce sull’abisso

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È raro, nell’Ottocento, il caso di un musicista la cui vita (cominciata il 31 gennaio 1797) sia così povera di avvenimenti come in Schubert: forse solo quella di Bruckner potrebbe starle accanto. Per tracciarne il profilo basterebbero poche pagine; e per lunghi periodi, anche di anni, ci sarebbe lo stesso poco da rilevare: se non che Schubert visse componendo con straordinaria, terribile fertilità. Non ebbe impieghi stabili, almeno da quando, e fu assai presto, decise di non volerne più; non viaggiò e non attirò su di sé l’interesse dei circoli internazionali, che ne ignoravano perfino l’esistenza; non ebbe contatti felici con personaggi influenti o di primo piano, riconoscimenti ufficiali o esecuzioni importanti, salvo una, verso la fine della vita: l’unica in cui finalmente si parlasse solo di lui, di Schubert. E ancora: non si sposò, non ebbe figli né amori tempestosi, e per quanto ne sappiamo contrasse una malattia sospetta d’incerta provenienza, probabilmente omosessuale, di cui morì ad appena trentun anni.

Il divario stridente fra la esiguità degli avvenimenti biografici e lo spessore della produzione ha rappresentato sempre un nodo delicato da sciogliere. Quale relazione esiste tra i due piani, quali sincronismi ne regolano l’intreccio? Il caso si prestava come pochi al trattamento romanzato: variando all’infinito il tema della ricchezza interiore opposta allo squallore dell’esistenza quotidiana. Cominciarono gli amici, esponenti variopinti di una cerchia eterogenea, con i loro ricordi. Fu uno di loro, Joseph von Spaun, ex collega di Convitto, a scrivere la prima biografia, poco attendibile ma insostituibile soprattutto per quanto lascia trasparire: il mistero di un temperamento indecifrabile e contraddittorio anche per i più intimi. Talvolta par perfino di avvertire un senso di curiosità e di stupore di fronte a reazioni e atteggiamenti senz’aura, incommensurabili con la bellezza della musica, con la profondità della vena creativa, con il calore delle emozioni. Sappiamo quanti equivoci ne siano derivati all’immagine di Schubert, nelle etichette grondanti retorica che via via si appiccicarono alla sua figura: quasi che si dovesse compensare con l’opera – e con i temi contenuti in essa, pregnanti di “vissuto” – l’apparente miseria della realtà. «Solo chi non conobbe in vita l’amore, poteva cantare l’amore come fece Schubert» (Paumgartner).

L’ambiente ovattato e raccolto nel quale Schubert si isolò, non pretendendo altro che la possibilità di creare, il suo carattere estremamente schivo e riservato, più restio che incapace a battersi per conquistare una posizione pubblica, contrastano in modo singolare con le coscienti aspirazioni ricolme di attivismo che contraddistinguono, costituzionalmente e storicamente, l’artista romantico. Al contrario, Schubert non manifesta convinzioni estetiche e filosofiche, rifuggendo dal gesto emblematico e dalla battaglia delle idee: la sua presenza è sotterranea, enigmaticamente sospesa nell’ambiguità. L’atteggiamento romantico si esprime fondamentalmente nell’indole fantastica e sognatrice, la cui essenza è la nostalgia infinita, il dolore dell’assenza.

Dei grandi maestri che fecero di Vienna il centro della civiltà musicale europea Schubert fu, per nascita, l’unico autenticamente viennese: non lo erano né Haydn né Mozart né Beethoven, non lo saranno Brahms e Bruckner. Eppure il rapporto con la città natale fu difficile e assai poco appagante. Il paradosso di «Schubert compositore tipicamente viennese», secondo una celebre definizione di Schumann poi ridotta a cartolina illustrata, ma per nulla importante per i suoi concittadini, che lo riconobbero come tale solo tardivamente, si può forse spiegare con la constatazione che la metropoli distratta, indaffarata e commerciale, cassa di risonanza potenziale per una compiuta affermazione artistica, non era la Vienna dell’anima di Schubert. Entrato in questo ambiente cosmopolita dal sobborgo periferico in cui era venuto al mondo, Schubert non se ne staccò mai se non per brevi periodi: restandone però costantemente ai margini. La sua figura umana non si integrò mai con le pose luccicanti d’oro della capitale, a cui continuò a preferire l’anonimato oscuro dei sobborghi, la compagnia dei vinti e dei solitari, la frequentazione dei sognatori e degli utopisti, la contemplazione della natura e dei silenzi, l’immediatezza dei contatti fuggevoli fuori e dentro una cerchia consolidata e solidale, quella protettiva e insieme distruttiva degli amici. Testimonia così uno di loro, Bauernfeld: «La vita esteriore di Schubert fu di una semplicità estrema e si svolse all’inizio nelle misere condizioni di un maestro di scuola, più tardi in quelle di un genio in lotta contro il bisogno e l’altrui stupidità. Schubert era in un certo senso una natura doppia, l’allegria viennese congiunta e nobilitata da un tratto di malinconia profonda. Poeta nell’intimo e, di fuori, quasi una specie di gaudente, come persona naturalmente veniva giudicato da quel che appariva all’esterno; inoltre alla sua figura mancavano le forme consuete delle convenzioni sociali, così che un uomo colto qualsiasi poteva credersi assai migliore del grezzo cantore della Winterreise».

Che Vienna fosse, per Schubert, soltanto un mito? La sua musica, pur piena di echi e risonanze di questa, non entrò a far parte della coscienza della città: come confermano le amare vicende della sua scarsa diffusione editoriale. Una musica, come l’uomo del resto, da un lato troppo esigente e sottilmente complessa per il bel consumo e l’intrattenimento dell’ufficialità, dall’altro troppo poco energica e autorevole per conquistarsi un rango nel frenetico mutar delle mode (si pensi solo al teatro, la grande passione incompiuta di Schubert). Sta qui la radice di un altro paradosso, ancor più stridente e questa volta drammatico: quello di “Schubert grande compositore” («Io so di essere un artista, io sono Franz Schubert») nient’affatto così importante per i contemporanei.

Alla morte di Schubert circa due terzi della sua produzione maggiore, eccettuati i Lieder, era dispersa e inedita. La sua riscoperta ebbe inizio soltanto nella seconda metà dell’Ottocento e fu anche allora un fenomeno lento e composito, non lineare. Vi contribuirono da un lato l’iniziativa di musicisti istradati da Schumann, che fu il primo a proclamarne la grandezza su vasta scala, dall’altro un nuovo spirito del tempo, che riconobbe l’attualità di Schubert nella fase più acuta della crisi dell’ultima generazione romantica. Si deve al nostro secolo la svolta decisiva verso un approccio più analitico e metodologico, forse meno poetico, culminante nella ricostruzione degli opera omnia e nella vastità degli studi di ogni tendenza, suffragati da una presenza esecutiva ormai quasi completa. Eppure Schubert continua a sembrarci un enigma, un raggio di luce sull’abisso.

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