“”In Italia non è più possibile lavorare!””, ha tuonato Riccardo Muti in una recente intervista a un quotidiano fiorentino. E ci è parso di scorgere nelle sue parole, oltre la sua consueta durezza, risentimento, stizza. Muti non ha certo torto quando afferma che le condizioni di lavoro in Italia sono oggi precarie, difficili, e neppure lontanamente paragonabili a quelle di cui un artista del suo prestigio può godere all’estero, sia come direttore stabile di grandi orchestre da anni ai vertici della qualità, sia come direttore ospite di questo o quel teatro, in questa o quella istituzione sinfonica.
Ma non ci sembra che abbia del pari ragione se intende negare, per principio, la possibilità di raggiungere anche in Italia, con le orchestre italiane, risultati musicali di prima grandezza, tali da soddisfare compiutamente le esigenze poste da un interprete del suo calibro. E la smentita più inequivocabile l’ha fornita egli stesso, presentandosi a Firenze, a distanza di breve tempo, in tournée con la New Philharmonia di Londra – la “”sua”” orchestra, come enfaticamente viene definita – e in due concerti che vedevano impegnati, per l’inaugurazione del “”Maggio””, coro e orchestra fiorentini. Non abbiamo difficoltà a riconoscere che l’emozione puramente musicale suscitata da Muti con i complessi del “”Maggio”” – emozione che nasceva non soltanto dalla qualità eccelsa dell’interpretazione, ma anche dall’ intensità e dalla partecipazione nella resa esecutiva – è stata maggiore di quella destata dal concerto dalla “”Philharmonia””: orchestra, sia chiaro, magnifica, duttile e scintillante come poche al mondo, stupenda per virtuosismo, omogeneità e potenza di suono, ma che è parsa, complice forse anche il programma, prigioniera dei suoi stessi altissimi pregi.
Questi pregi conclamati finiscono talvolta per confondersi con certi “”difetti”” che orchestre appartenenti a civiltà assai superiori alla nostra per organizzazione e preparazione tecnica, ma inferiori per individualità, tradizioni e cultura, recano inevitabilmente con sè.
Solo in Germania e in Austria i due aspetti procedono insieme: ma, se si eccettuano poche mitiche eccezioni, come la Filarmonica di Berlino o quella di Vienna, il rischio di una routine di alto livello minaccia di continuo le orchestre di questi paesi; non è certo un caso che, per evitarlo, si chiamino a dirigerle stabilmente direttori di varia estrazione, appartenenti a culture diverse. E magari non è neppure un caso che molti di questi direttori siano italiani, sovente italiani che in patria, quando ritornano, son guardati dall’alto in basso e mal tollerati.
All’estero, si dice, si lavora meglio. Chiaro. Ma che cosa si intende affermare con questo? Che non si fanno scioperi? (Mica vero, oltre tutto).
Che c’è più disciplina durante le prove? Che l’ organizzazione è, nel complesso, di gran lunga maggiore? Che il rischio di un imprevisto non è neppure contemplato, dato che subito scatta il meccanismo per neutralizzarlo? (E sia: ma quanto incide tutto questo sulla qualità sostanziale del lavoro artistico, sulla tensione specifica della realizzazione musicale?) Oppure che la qualità dei risultati musicali è all’ estero mediamente, oggettivamente migliore che in Italia?
L’arte esige ordine e pazienza, diceva Goethe.
Quanto piú grande è un artista, tanto più egli ha bisogno di condizioni di lavoro serie, tranquille, concentrate: e Muti dal suo punto di vista ha ragione di lamentarsi della mancanza di questi presupposti.
Che è però, in Italia, mancanza inveterata, come la storia ci insegna, oggi probabilmente non piú accentuata che in altre epoche, almeno in rapporto al grado odierno di civiltà.
Se però si riescono a superare questi limiti, là dove la situazione non è cosi deteriorata da non permetterlo; se in altre parole si riesce a riordinare il disordine (ed entro confini precisi un artista, un uomo di cultura deve essere in grado di farlo, in forza della sua personalità), le qualità di base per lavorare bene o benissimo non mancano affatto: sono, anzi, di primissima grandezza. Giacché in Italia – purtroppo o per fortuna, scegliete voi – la musica non è una professione, ma una vocazione, non un mestiere, ma un’arte.
E se così è, il discorso è un altro. Quel che ci differenzia davvero dall’estero è il fatto che da noi la musica, ancor più degli altri settori della cultura, è completamente abbandonata a se stessa, mal sovvenzionata (aspetto sui cui troppo poco si riflette) e peggio governata: dalla cosiddetta educazione musicale di base (che non esiste), ai Conservatori (fermi a legislazioni arcaiche), alla organizzazione e alla non valorizzazione delle orchestre, alle ridicole lottizzazioni delle cariche direttive degli enti lirici e più in generale delle istituzioni musicali. Di questa situazione, coloro che esercitano la musica in prima persona – perché, nonostante tutto, così hanno scelto – hanno ben poco da guadagnare: sono anzi delle vittime, anche se vittime in una certa misura, per pigrizia o sfiducia, piú spesso per intima frustrazione, consenzienti.
Prendiamo per esempio le nostre orchestre. Non è vero che in Italia non ci siano buone orchestre: di buone ce n’è più di quante non si immagini, e qualcuna è anche ottima in assoluto. Udimmo poco tempo fa, in prova e poi in concerto, l’Orchestra Sinfonica della RAI di Milano: ossia un’orchestra di un organismo che attraversa, da qualche anno, una crisi di identità profondissima.
Dirigeva Sawallisch e il pezzo in programma era quanto mai ostico: il Paradiso e la Peri di Schumann, oratorio da noi pressochè sconosciuto e di molteplice impegno esecutivo.
L’attenzione, la disciplina, l’amore per la musica, la capacità di suonare bene con proprieità stilistica, e ancor più le doti individuali e collettive dimostrate dall’orchestra, che consentirono un esito artistico di primissimo piano – come lo stesso Sawallisch riconobbe -, dimostrarono la fondatezza del nostro ragionamento: affinché le nostre orchestre giungano a esprimere se stesse e con ciò divengano, come possono, buone orchestre, c’è bisogno non soltanto di un grande direttore, ma anche di un direttore che sia disposto a dare fiducia e a ricostruire, con fatica e convinzione, collaborando, un ordine e un equilibrio anche psicologico; dopo di che ha inizio il vero e proprio lavoro artistico, portando a risultati che, a prima vista, sembravano addirittura improponibili.
Avviene cioè il miracolo. All’estero, viceversa, la media è molto più alta che da noi, ma nello stesso tempo vi è molta più media: là un mediocre direttore diventa un buon direttore, da noi un direttore mediocre resta tale e basta. Mentre anche l’orchestra buona diventa mediocre.
Si può forse spiegare cosi la riluttanza di molti direttori stranieri a venire a dirigere in Italia; senza però, e questo va sottolineato, che il legame si sia mai interrotto.
Delle grandi stars solo Karajan è assente da anni: ma Karajan non dirige più neppure in Inghilterra o in America, e dirige soltanto due orchestre.
Gli altri grandi continuano a venire regolarmente, chi più chi meno, e non risulta che lo facciano per masochismo: Leonard Bernstein, dopo aver diretto l’ anno scorso a S. Cecilia una propria composizione e la Terza di Brahms, si dichiarò onorato di aver suonato con quest’orchestra, che nulla ha da invidiare, nel repertorio sinfonico, alle maggiori d’Europa; Wolfgang Sawallisch non ha avuto paura di affrontare quest’anno, con la stessa orchestra di S. Cecilia, un programma di quelli che in Italia è ormai raro ascoltare – la Sesta e la Settima Sinfonia di Beethoven insieme -, dimostrando quali tesori di ricchezze tecniche ed espressive questo complesso racchiuda, per la sua inventiva, la naturale disposizione al canto, la gioia di suonare al massimo delle possibilità, che non si rivelarono poche, dando via tutto di sè, con impegno totale.
Avevamo udito pochi mesi prima lo stesso concerto a Monaco, con il medesimo direttore alla guida dell’orchestra di cui è direttore stabile: non fu la stessa cosa, e tanto l’interpretazione quanto la resa esecutiva ci parvero più accadamiche, più distaccate, meno commosse e intime.
Può darsi che sbagliassimo, non volendo credere ai nostri orecchi: ma l’esperienza fu istruttiva.
E significativo ci sembra raccontare a questo proposito un piccolo episodio, relativo proprio a questo ultimo concerto romano.
Dopo una prova piuttosto stanca, con un’orchestra stranamente inquieta e svogliata (proprio come ci si immagina che sia il lavoro con un’orchestra italiana), Sawallisch, nel camerino, si lamentava con la sua consueta signorilità), ma piuttosto seccato di quella apatia: “”Ma pensi – mi disse – tempo fa ho diretto a Tokyo l’orchestra della radio giapponese, una Sinfonia di Brahms.
A un certo punto chiesi all’oboe di suonare la sua frase pianissimo.
L’oboista, un giapponese piccolo piccolo, si alza e, nel silenzio assoluto dell’orchestra, mi fa, quasi vergognandosi: scusi, Maestro, ma quando Lei ha diretto questa stessa Sinfonia sei anni fa in questo passo mi chiese di suonare piano, non pianissimo.
E così ho fatto anche ora. Mentre qui non si ricordano nemmeno quello che ho detto un momento prima!””.
Lo rividi dopo il concerto.
Era fuori di sè dalla gioia: “”Avevano capito tutto, e al momento giusto hanno fatto esattamente quello che io avevo chiesto””. “”Ein Wunder””, un miracolo, abbozzai distrattamente; “”Ja – fece lui – nach italienischer Art””. Un miracolo all’italiana.
E nelle sue parole non c’era ironia, ma solo affetto e riconoscenza.
Auditorium, n. 3, giugno 1982