Cent’anni fa nasceva il musicista Darius Milhaud
Qualche mese fa, tracciando un profilo di Arthur Honegger nel centenario della nascita, riflettevamo sul destino di taluni compositori che pur avendo avuto una presenza di primo piano nella musica del nostro secolo appaiono oggi relegati sullo sfondo di un passato assai piú remoto di quanto non indichino gli anni; e avanzavamo l’ipotesi che a questi abbia nuociuto l’aver coltivato la loro arte con la convinzione che essa non dovesse, nel momento stesso in cui si confrontava con le novità del giorno, rinunziare alle prerogative di ciò che potremmo chiamare la coscienza storica della tradizione: nella quale le scelte di carattere linguistico e formale avessero anche un significato spirituale ed etico. Considerazioni per molti versi analoghe si potrebbero estendere a Darius Milhaud, nato il 4 settembre di cent’anni fa ad Aix-en-Provence e morto in tempi a noi ancora relativamente vicini, nel 1974.
La natura lo aveva dotato di un talento per la pura invenzione musicale non seconda a nessuno fra i suoi contemporanei francesi, permettendogli di spaziare senza fratture apparenti tra la assimilazione dei modelli classici e la caustica manipolazione degli elementi della modernità. La quale in lui si manifestò non tanto nell’adesione programmatica all’estetica di Satie e Cocteau, che lo portò a vivere intensamente l’esperienza parigina del Gruppo dei Sei, quanto nella vena sorgiva delle sue parodie, da cui pure scaturiva una candida, gioiosa allegria che finiva per essere valore quasi preminente rispetto alle soluzioni acide di cui era intrisa: come dimostra la surreale metafora del balletto Le boeuf sur le toit, esperimento irripetibile di fantasia teatral-cinematografica a cui dettero il loro contributo Cocteau per il testo e Dufy per le scene. Si era nel 1920, e in questa partitura Milhaud utilizzava modo musicali del folclore sudamericano, che aveva conosciuto durante la sua permanenza in Brasile come segretario di Paul Claudel, ivi nominato ambasciatore, durante la guerra. Mondi diversissimi per civiltà e cultura entravano in contatto arricchendosi reciprocamente di stimoli impensati, che Milhaud intenzionalmente faceva convergere in unità. E questa unità era data dalla immersione di melodie e ritmi esotici in un bagno incandescente da cui quei frammenti uscivano forgiati in salde tessiture contrappuntistiche, in estese combinazioni politonali ravvivate dalla fantasia piú scanzonata.
Ed è ancora su questa base che Milhaud travasò gli stilemi della musica jazz degli americani di colore, ancora una volta appresi dal vero durante un soggiorno negli Stati Uniti, nel balletto La création du monde, in una rappresentazione caleidoscopica che realizzava, con le scene di Léger, una simbiosi originale tra musica, teatro e arti figurative. Furono gli anni in cui Milhaud consolidò la sua fama senza cadere in una tendenza, cooptando esperienze diverse in un’idea della musica nella quale il senso dell’inedito, del bizzarro, perfino del provocatorio, non aveva perso l’incanto della poesia. Fu una stagione breve, che le due opere da camera Les malheurs d’Orphée e Le pauvre matelot conchiudono in un progressivo oscuramento di quella effervescenza luminosa. Nella prima il mito antico viene rivissuto in una atmosfera onirica ricreata da Milhaud non soltanto con l’ambientazione nella natura selvaggia della sua terra natale, la Provenza, ma anche con la commozione per un’umanità dolente che sogna impossibili verità. Nella seconda, su libretto di Cocteau, geniale variazione sul tema di Ulisse, l’ironia tragica si manifesta con le cadenze sospensive di un racconto del terrore, dove il compianto fa da contrappeso allo svolgimento drammatico impregnato di umor nero.
Un tratto che accomuna Milhaud a un artigiano della musica in senso antico è la mole smisurata della sua produzione. Oltre settecento lavori nei generi piú diversi, tra cui diciotto quartetti per archi e dodici sinfonie, sonate e pezzi per pianoforte, brani vocali e musica per film, testimoniano un’operosità che solo a uno sguardo superficiale appare sotto il segno dell’eclettismo. Senza rinunciare a dare voce ai fantasmi incombenti dell’attualità – per esempio La mort d’un tyran è uno dei primi esempi di quél filone della «protesta» che tanta parte avrà nell’arte del Novecento – Milhaud non perse mai, anzi accrebbe col passar del tempo, una visione serena ed equilibrata, trasfigurante, del lavoro artistico. La sua disciplina intellettuale si fondava su una profonda religiosità che aveva radici nella fede ebraica e sulla coscienza di appartenere a una solida tradizione che nessuna manifestazione del pensiero musicale contemporaneo poteva negare.
La chiave per intendere la sua figura, e per spiegare il suo confino nell’epoca dei radicalismi e degli strappi, sta proprio in questa ricerca di continuità tra passato e futuro, riscontrabile anche sul piano del linguaggio e della tecnica. Troppo frettolosamente Milhaud viene liquidato come un compositore che si limitò ad allargare lo spettro tonale: il suo concetto di politonalità, nel quale a un unico centro di gravitazione si sostituiscono diversi piani orientati autonomamente, si basa sulla tensione dei contrasti fra le parti ma ne riconduce gli effetti a una spazialità architettonica di ariosa chiarezza strutturale; l’energia ritmica riempie questi volumi di linee incisive, il suono diviene espressione palpitante della materia, per trarre dal caos indifferenziato figure dotate di forza significante, d’immediata comunicabilità. E un lirismo trasognato ne è sovente la ragion d’essere: piú semplicemente, l’eco di un’emozione mediata dalla riflessione.
Se dovessimo racchiudere in un’opera tutti i motivi che informano l’arte di Milhaud non esiteremmo a indicarla nel Christophe Colomb, la piú adatta, nella profusione dei mezzi impiegati e nella vastità dei riferimenti anche allegorici che l’accompagnano, a dare la misura della sua sensibilità, con le sue luci e le sue ombre. Che neppure nell’anno delle celebrazioni colombiane un teatro importante l’abbia presa in considerazione, dà purtroppo la conferma della labilità della nostra memoria storica.
da “”Il Giornale””