Successo allo Châtelet per il capolavoro di Dallapiccola diretto da Esa-Pekka Salonen
Parigi – Se le cose andassero semplicemente come dovrebbero (un’utopia anche nel regno della musica) Il Prigioniero di Luigi Dallapiccola non mancherebbe dai nostri teatri da così: tanto tempo. Dove trovare un’altra opera italiana del Novecento (rappresentata per la prima volta nel 1950) che abbia, di questa, l’istinto teatrale, la dignità artistica, la qualità musicale, e che senza rinunciare alla forza immediata del canto renda conto in modo non negativo ma costruttivo della complessità dei linguaggi contemporanei? L’esempio ci viene ancora una volta da fuori. Accogliendo Il Prigioniero in una stagione interamente dedicata alla musica del Novecento, acconto al Pelléas, al Wozzeck e alla Lulu, ossia ai capolavori di un genere già di frontiera, lo Châtelet ha dato a quest’opera il posto che le compete, con tranquilla normalità. E che per molti Dallapiccola sia ormai un patrimonio acquisito della storia del nostro secolo lo dimostravano non soltanto il fatto che alla realizzazione contribuissero, con il concorso del Centro Culturale Svedese, un’orchestra appunto svedese (quella, ottima, della radio), un direttore finlandese e due cori francesi, oltre a cantanti di ancor piú lontana provenienza, ma anche l’accoglienza molto calorosa del pubblicp che gremiva al gran completo (nonostante il richiamo di Pavarotti alla Bastille) la sala dello Châtelet.
Al di là delle implicazioni spirituali e dei «messaggi» che pur vi sono contenuti, e che ne fanno una sorta di Fidelio del Novecento (dunque senza trasfigurazione), Il Prigioniero è anzitutto un’opera nel miglior senso della tradizione, basata su un libretto avvincente (dello stesso compositore) e su una dinamica teatrale calibratissima, ricca di suspense. Fino a che punto, lo si poteva capire anche dal risultato non perfettamente centrato di questa nuova produzione parigina. La quale aveva il suo punto di forza in un direttore oggi molto quotato, Esa-Pekka Salonen, di enorme talento e di sicura personalità: incline a privilegiare, della partitura, l’aspetto sinfonico, anche a scapito della tenuta drammatica. Se è vero che nel Prigioniero non mancano pagine di grande evidenza sinfonica (per esempio nel prologo e negli interludi che legano anche coralmente le quattro scene dell’atto unico), la progressione incalzante, bruciante che conduce all’epilogo – una delle sospensioni improvvise piú impressionanti del teatro moderno – è il centro attorno a cui ruota l’azione, e da esso l’opera prende significato e rilievo. Nella resa di questa scansione drammatica Salonen è un po’ mancato di misure, stabilendo fin dall’inizio un grado di tensione e mantenendolo in modo uniforme fino alla fine: quasi volesse far risaltare lo sfondo anziché stringere sui primi piani.
Nella compagnia di canto, imperniata su tre soli ruoli principali, la figura della Madre è stata sbalzata con slancio vigoroso da Diane Curry. Vocalmente sia David Pittman-Jennings (il Prigioniero) che Peter Keller (nel duplice Inquisitore) svettavano nelle rispettive, impervie parti; ma la scarsa dimestichezza con l’italiano (l’opera era accompagnata dalla proiezione dei sopratitoli in francese, con evidente utilità) impediva quella efficacia immediata ed emozionante della parola scenica che di quest’opera è forse ancora oggi il valore piú alto: un declamato tanto flessibile quanto volto alla nostalgia della melodia distesa. E la poca incisività con cui veniva scolpita la cellula motivica sulla ricorrente parola-chiave «Fratello» – una delle invenzioni più folgoranti di tutto il teatro musicale – dipendeva proprio da questa estraneità della dizione al significato piú intimo del testo.
La «mise en scène» di Bernard Sobel, in massima parte basata su effetti di luce con valenze psicologiche (scene e costumi astratti di Titina Maselli) aveva il merito della sobrietà e della semplicità. Opportunamente Sobel non marcava i tratti di denuncia e di protesta sovente attribuiti al libretto (ma Il Prigioniero non è un’opera di rivolta politica, bensí una amara riflessione sulla conquista della libertà e sulla umiliazione della speranza come mezzo piú sofisticato di tortura); una inutile pedanteria didascalica nella regia abbassava però la temperatura dell’afflato lirico e ideale, togliendo nella recitazione verità e chiarezza al gesto. E inaccettabile era la scelta, forse dettata da motivi pratici, di schierare il coro immobile su un immenso fondale inglobandolo nell’azione, anziché lasciarlo, come vuole la partitura, invisibile dietro la scena: voce di una pietà misteriosa.
Pur con questi limiti l’ascolto del Prigioniero dal vivo ne confermava la ricchezza di prospettive e la compiuta unitarietà nella molteplicità dei riferimenti. A scoprire i quali un contributo originale era offerto da una scelta di sette Madrigali di Claudio Monteverdi, fra i piú belli, eseguiti nella prima parte da cinque solisti del Groupe Vocal de France: un modo inconsueto per aggirare l’ostacolo di un’opera che da sola non fa serata riconnettendola alle radici piú floride da cui prese vita l’opera come genere, e a cui Dallapiccola stesso si rifece per fondere linguaggi diversi, antichi e moderni, in sintesi personale, sempre piú riconoscibile.
Il Prigioniero di Luigi Dallapiccola allo Châtelet di Parigi, repliche oggi e 12 aprile
da “”Il Giornale””