“”Fantasia””, con fantasia
In fondo tutto è cominciato con Fantasia. Il vecchio, adorabile film a cartoni animati di Walt Disney c’insegnò che la musica classica, ben oltre la sua marginale o basilare utilizzazione come colonna sonora, poteva fondersi con il linguaggio cinematografico e divenire immagine: non soltanto essere illustrata attraverso l’immagine sullo schermo, ma anche stimolare la fantasia dello spettatore e agire creativamente sulla sua immaginazione visiva. Chi non ricorda la prodigiosa interpretazione dell’Apprendista stregone di Paul Dukas con Topolino nei panni del maldestro eroe? Non è certo un caso che fosse proprio questo episodio, assai più delle pur garbate animazioni della Danza delle ore o della Pastorale, a rimanere impresso indelebilmente nella memoria: rendendo perfino popolare, per alcun tempo, il titolo di quel pezzo e il nome del suo autore. Disney aveva inventato un corrispettivo visivo della musica che nasceva direttamente da essa, dal suo ritmo, dai suoi colori, dal suo spirito: e nello stesso tempo la musica diveniva spettacolo cinematografico, rappresentazione fantastica, con figure e simboli del nostro tempo, con mezzi tecnici moderni. Nella sua unicità, Fantasia rimane un modello della possibilità di ripensare a tradurre la musica per immagini.
Musica e immagine riprodotta
Nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte era inevitabile che i mezzi di diffusione e di consumo s’impadronissero della musica. Una volta accettato che il disco e i suoi sempre più sofisticati derivati coesistano con l’ascolto dal vivo di un’opera o di un concerto, e di fatto per la maggior parte di coloro che frequentano la musica è così, non si vede perché non si debba accettare che il disco coesista con il cinema e con la televisione anche nella riproduzione della musica: tanto più che essi hanno il vantaggio, almeno ipotetico, di restituire nella sua integralità un evento che il disco limita al solo ascolto. Specialmente oggi che il teatro di regia si è affermato largamente, modificando il costume, l’aspetto visivo di un’opera e perfino di un concerto è parte essenziale della cosiddetta fruizione: non siamo più abituati a prescindere e ad ascoltare musica solo con gli orecchi.
E ragionevole perciò credere che, quando si raggiungeranno prestazioni di pari livello nella qualità dell’ascolto, la videocassetta o il più perfezionato videodisco (registrato col sistema digitale) si sostituiranno o almeno integreranno nei nostri usi il semplice disco, sicché la videoteca diventerà un solido supporto della discoteca. Già oggi esistono in molte città sale cinematografiche specificamente attrezzate con sistemi di ascolto Dolby e stereofonici assai soddisfacenti; impianti domestici ad altissima fedeltà sono meno diffusi perché molto costosi, ma è già tecnicamente possibile collegare il videoriproduttore con la cuffia e con le casse, sì da ottenere un ascolto migliore di quello attraverso gli altoparlanti della televisione. E anche schermi televisivi con proprie casse stereofoniche sono già apparsi in commercio.
Nel settore produttivo, la convinzione che la strada del futuro sia quella del disco e del videodisco insieme è ferma. Essa si rivolge soprattutto alle esecuzioni dal vivo, che vengono così fissate e riprodotte nella loro realtà concreta. Anche qui il problema principale è quello dei costi e del mercato. Già ora però le più importanti produzioni di alcuni teatri sono destinate, talvolta persino pensate, per la circolazione in film o videocassette, con alta percentuale di diffusione. In Italia ha cominciato l’Arena di Verona, evidentemente puntando sul mercato straniero, seguita con un paio di titoli dalla Scala (fra cui l’Ernani con Muti e Ronconi). All’estero, notevoli sono le presenze di spettacoli del Covent Garden, del Festival di Glyndebourne e del Metropolitan, molti dei quali, non tutte, disponibili anche in Italia. Complessivamente, il numero dei titoli sul nostro mercato assomma a circa una cinquantina fra opere, balletti e concerti (disponibile anche la bellissima Carmen di Rosi).
Naturalmente c’è anche chi nega risolutamente il valore di tutto questo, e con buoni motivi. Fedele D’Amico non fa mistero di credere che la televisione, e in genere il culto dell’immagine riprodotta, siano la barbarie della nostra civiltà. E li rifiuta, come rifiuta il disco, in nome della verità: l’opera, la musica, sono nate per l’esecuzione in ben determinati ambienti, per un pubblico reale, per un ascolto e una partecipazione dal vivo. Il cinema, poi, ha un suo specifico linguaggio, è un’arte autonoma, vive di immagini, non ha niente a che fare con l’opera o con il concerto, è un’altra cosa. Verissimo. Ma qui non si tratta di sostenere che il film d’opera, la videocassetta musicale possano prendere il posto dell’ascolto in teatro o in concerto, che è quello autentico; ma semplicemente di chiedersi, poiché il fatto esiste (ed esiste storicamente, nel contesto della nostra civiltà, barbara o meno che sia), di chiedersi, dicevamo, che ruolo abbia, che cosa significhi. Cioè, in altri termini, qual è stato ed è oggi il rapporto fra musica e immagine riprodotta? Quali sono i suoi fini? E quale uso possiamo farne?
L’opera al cinema
Storicamente l’ingresso della musica nella riproduzione per immagini avviene attraverso il cinema, e precisamente il film d’opera. La fortuna della trasposizione cinematografica di famosi melodrammi, e delle biografie dei grandi musicisti sceneggiate con ampia colonna sonora di brani musicali, è legata da noi soprattutto al nome di Carmine Gallone, che per molti anni – dal 1935 al ’56 – rimase un maestro insuperato in questo genere. L’ambientazione rigorosamente realistica, la fedeltà alla vicenda e all’epoca, la teatralità della recitazione (per lo più affidata a cantanti che rappresentano se stessi; ma non mancano casi di attori veri cui sono doppiate le voci, da Alida Valli a Vittorio De Sica, dalla Lollobrigida al memorabile Anthony Quinn di Cavalleria rusticana) e una indubbia professionalità sono gli elementi che assicurano a questi film credibilità e dunque successo; documento di un’epoca che vedeva nel melodramma popolare soprattutto l’esplosione di grandi passioni e di gesti estremi, essi sono però lontani dal porsi il problema di un’interpretazione del linguaggio operistico nella trascrizione filmica, e guardano alla musica, che rimane sullo sfondo, solo per accentuare la forza espressiva dell’immagine, caricandola di tinte forti e di enfasi.
L’attenzione per lo specifico dell’arte cinematografica ha profondamente mutato l’atteggiamento nei confronti del film d’opera. Eppure si stenta ancora ad accettare che l’opera al cinema non solo possa ma debba essere diversa da una messa in scena teatrale. Tutt’al più si pretende uno scenario più ricco, costumi più sfarzosi, ambienti più vasti e naturalistici. Cioè una proiezione, in proporzioni più grandiose, degli spazi teatrali nei quali siamo abituati a vedere o immaginare l’opera dal vivo; anziché un ripensamento, un’analisi, una interpretazione del linguaggio dell’opera attraverso il mezzo cinematografico.
Il caso di Zeffirelli è sintomatico. Uomo di teatro e di cinema insieme, e per di più assai amato dal pubblico dei melomani, Zeffirelli è stato aspramente criticato per aver impostato il suo film della Traviata su ritmi e tempi essenzialmente cinematografici, basati sull’uso del flash-back, modificando cioè il percorso narrativo, teatrale dell’opera. Bello o brutto che sia, il suo è un film d’opera nel vero senso della parola, non una trasposizione cinematografica di uno spettacolo teatrale. Al limite, egli ha ragione quando taglia alcune scene, come la canzone del salice nel più recente Otello, perché non si adattano al flusso dell’azione cinematografica. Anche questa semplice considerazione è però motivo di scandalo. Si spiega così la scarsa fortuna che ha avuto da noi (ma non all’estero, dove è tuttora regolarmente proiettato) il Don Giovanni di Losey, reo di aver ambientato l’opera quasi interamente all’aria aperta, nella cornice delle ville venete. Si obietta che il suo non è il vero Don Giovanni in assoluto: appunto, non voleva neppure esserlo, in quanto rievocazione (quasi geniale) cinematografica, con mezzi e caratteri propri del linguaggio visivo, inventivo, del film. Il film d’opera ha un senso se si prefigge lo scopo non di divulgare l’opera, ma di tradurla in termini cinematografici. Ingmar Bergman sostiene (vedi intervista a parte) che ciò non sia possibile prescindendo dallo spazio concreto della scena. Il cinema consente non di uscire dal teatro, ma di entrare meglio al suo interno; svelando con i suoi strumenti – piani sequenza, stacchi, montaggio, eccetera – ciò che in esso già vive e palpita; caratterizzando, con una scelta interpretativa, il rapporto fra musica e immagine. L’occhio di chi fa questa scelta, regista o spettatore che sia, sarà perciò sempre diverso da quello dell’ascoltatore seduto in teatro, e diversa la sua reazione alla musica. Ciò è un arricchimento che il cinema può dare anche all’opera, senza sostituirla o distruggerla.
Musica in televisione
Opere e concerti, registrati o dal vivo (le dirette dai teatri hanno ormai dieci anni di vita), sono diventati una consuetudine diffusa anche nella nostra televisione; se a ciò aggiungiamo il mercato delle videocassette (produzione in continuo aumento, e incrementata dal commercio delle registrazioni-pirata, floridissimo), si può tranquillamente concludere, in barba ai “”puristi””, che il consumo di musica ha oggi nella televisione uno dei suoi massimi alimenti. È un bene o un male? Anche qui bisogna distinguere.
Che l’inaugurazione della Scala, attraverso il mezzo televisivo, possa raggiungere milioni di persone, è un fatto oggettivamente importante, anche se non significa di per sé, come voleva l’amabile Grassi, la democratizzazione della Scala. Semmai, questo fatto aumenta le responsabilità di coloro che hanno il compito di presentare a un pubblico così vasto l’evento stesso, nella sua sostanza e nel suo contorno. Altrimenti detto, un conto è cogliere l’occasione prestigiosa per avvicinare il grande pubblico alla musica, un conto è fargli credere che comunque si tratti di un evento spettacolare irripetibile, unico, da ammirare, appunto solo per televisione, quella volta lì e, magari, l’anno prossimo. Mentre invece dovrebbe attirarlo verso la musica, e prima di tutto verso i luoghi dove essa concretamente vive e viene fatta.
Ciò non toglie che la televisione possa avvicinare il pubblico alla musica e in alternativa offrirgli uno strumento prezioso non solo di svago ma anche di conoscenza. Importante diventa perciò il modo in cui la televisione opera le sue scelte e presenta i suoi prodotti: il modo in cui coniuga la musica all’immagine specificamente televisiva, in rapporto al pubblico che la riceve. E poiché, salvo rare eccezioni che hanno affinità con il cinema vero e proprio, i prodotti televisivi sono riproduzioni di spettacoli, di opere o di concerti, ripresi nelle loro sedi naturali, fondamentale diventa il tipo di mediazione che si viene a creare fra l’evento e la riproduzione: in altri termini, il linguaggio televisivo della ripresa. Giacché esso condizionerà non soltanto la ricezione e la comprensione dell’utente, ma anche il suo giudizio su ciò che sta ascoltando e vedendo, e che perciò gli sembrerà o noioso o affascinante. Su questo punto, le possibilità sono molteplici, e distinte nel caso dell’opera, in quello del concerto sinfonico o da camera. Il regista televisivo può servirsi di uno o più punti di ripresa, può usare la telecamera in funzione analitica o sintetica. Ciò inevitabilmente determina reazioni diverse. Proviamo a fare alcuni esempi, che tutti conosciamo. E vedremo come spesso predomini, in realtà, la routine.
Opera
Durante la Sinfonia, se c’è, s’inquadrerà il direttore. A tratti, l’orchestra. Ad apertura di sipario, campo lungo sulla scena. Panoramica sul coro. Poi, l’interminabile sequela dei primi piani: volti sudati, ugole spalancate, di quello o quella che sta cantando. Gli altri, come se non ci fossero. Stacchi dall’uno all’altro nei duetti, sempre secondo la regola della melodia emergente = immagine. E così via. I registi televisivi di oggi, quando hanno a che fare con l’opera, assomigliano tanto ai vecchi “”buttafuori”” di una volta, quando la regia d’opera non esisteva. Mentre oggi esiste. Possibile che un pubblico come quello televisivo, abituato a ben altra vivacità e varietà quando assiste a uno spettacolo di Pippo Baudo, possa accontentarsi di tanto generico grigiore?
E qui s’innesta un altro discorso. Da molti anni la televisione italiana ha smesso di realizzare in proprio, nei propri studi, con propri registi, produzioni d’opera. “”Avevamo tutto”” – ricorda Giorgio Vidusso – “”ottime orchestre RAI, studi adatti, registi disposti a lavorare a fondo per inventare nuove dimensioni dell’opera studiando un uso specifico del linguaggio televisivo. Pensi, realizzare tutto Verdi, tutto Rossini, tutto Puccini con etichetta Rai, come frutto di una sperimentazione su musica e immagine. Non sarebbe costato nulla. E oggi, col mercato delle videocassette, questi prodotti circolerebbero in tutto il mondo. Una grande occasione perduta””.
Concerti sinfonici e da camera
Qui vige un metodo, quello dell’evidenziatore: un assistente musicale segue sulla partitura il percorso tematico del concerto, e la telecamera inquadra, isolandolo, lo strumento o il gruppo strumentale che in quel momento suona la parte principale. Questo tipo di analisi guidata per immagini può avere una sua funzione didattica, ma esclude di fatto ogni altro possibile percorso alternativo. La via è tracciata, e l’ascoltatore, soprattutto quello meno preparato, sarà portato a lasciarsi guidare per mano, ascoltando solo ciò che vede. Questo è il punto: i meccanismi di ripresa come questi fanno vedere, anziché ascoltare, la musica. Non fanno ascoltare e vedere nello stesso tempo, in modo diverso da quello reale, con la mediazione della telecamera, stimolando una riflessione.
Protagonista indiscusso della ripresa è però il direttore d’orchestra. Su di lui la telecamera indugia a lungo, sottolineando l’espressione, le pose, la mimica, il gesto, lo sguardo. Anche questo può essere d’aiuto all’ascoltatore che guarda, ma soprattutto appaga il divismo del direttore stesso, che viene riconosciuto e visto come il demiurgo dell’esecuzione musicale. E vederlo muovere è più importante che ascoltare i suoni, seguire l’intreccio della musica. Talvolta è anche interessante, certo. Si pensi ai cicli delle Sinfonie di Beethoven, di Brahms e di Mahler nella interpretazione di Leonard Bernstein, trasmessi di recente: quale varietà di gesti e verità di espressioni nella figura del direttore, che lezione straordinaria dalla anatomia della sua personalissima tecnica; ma non si rischiava spesso, fra uno stacco su di lui e un primo piano del cornista o del fagottista, di perdere di vista (oltre che di ascolto) la musica, i rapporti sonori e la stessa funzionalità della interpretazione? Dal vivo, noi vediamo il direttore di spalle; i suoi movimenti, la sua attenzione si prolungano sull’orchestra, e il risultato che ne consegue e ci raggiunge è un fatto sonoro unitariamente globale, che spetta a noi di captare e di decodificare, col massimo margine di libertà associativa. E questo è un elemento da non sottovalutare, anche in rapporto all’immagine televisiva.
Questa prassi convenzionale delle riprese di trasmissioni musicali ha naturalmente le sue eccezioni. Nel passato, la stupenda, avveniristica stilizzazione ambientale, tutta concentrata sull’evento, e il profondo metodo di lettura critico, con la sovrapposizione delle immagini e la dissolvenza sulle diverse sezioni dell’orchestra, della regia di Clouzot per i concerti di Karajan e della Filarmonica di Berlino, disposta ad anfiteatro: dove il Maestro compariva solo all’inizio e alla fine colto nell’atto di chiudere e riaprire gli occhi. Casi più recenti sono quelli di certe inquadrature e di certi montaggi più liberi e fantasiosi della televisione americana, per esempio per il ciclo delle Sonate di Beethoven eseguite da Periman e Ashkenazy; sperimentali e discutibili fin che si vuole, ma almeno ansiosi di penetrare nella musica e di stabilire un nesso con l’immagine. Ecco poi passare anche da noi (naturalmente a ore impossibili) le registrazioni dei Concerti brandeburghesi di Bach con il complesso di Harnoncourt, che rendono vivo il mistero della musica con primi piani affascinanti e insieme un po’ ironici, con stacchi spettacolosi, con sospensioni e accelerazioni calcolate sulla musica ma ritrascritte poi nei movimenti dell’immagine. Forse ciò è più facile in ambienti raccolti e intimi, come sono quelli della musica da camera: che non escludono però affatto, come qui, la possibilità di creare un corrispettivo visivo della musica con riprese in esterni (suggestioni evocative, la natura, il paesaggio, immagini d’arte) o realistico (il luogo del concerto, la cornice del pubblico disposto attorno ai suonatori), se non addirittura rappresentativo (come in una splendida Winterreise della televisione tedesca, animata in un fantastico spettacolo onirico).
Il mezzo televisivo possiede in questo campo possibilità infinite. L’;importante è creare una concentrazione fra musica e immagine che potenzi l’ascolto attraverso la visione, ma che tenga anche presente la natura diversa, specifica, delle due facoltà. Il tempo della musica, la sua ricezione, è tutt’altra cosa da quello dell’immagine, che è più diretto, più immediato, più sintetico; si tratta dunque di individuare una relazione nei due sensi, una ragione finalizzata a un certo tipo di reazione: non solo al ricongiungimento fra musica e immagine, in modo che l’una rimandi all’altra e la chiarisca, vicendevolmente; ma anche alla riflessione su che cosa significhi ascoltare e vedere, servirsi cioè di facoltà diverse per migliorarne la conoscenza e l’uso. Da questo punto di vista la televisione e la riproduzione della musica possono esercitare anche una funzione positiva, e stimolare la fantasia: diventare cioè un fatto estetico e creativo.
Alcune conclusioni
Se i problemi della riproducibilità della musica attraverso il cinema e la televisione sono oggettivamente complessi e indicano molte strade aperte, alcune delle quali sono ancora da percorrere e da verificare, è indubbio che questi mezzi consentano comunque di fissare dei documenti e di usarli per fini didattici. La ripresa filmata di un’opera sopravvive all’ultima recita in teatro e, dopo, può raggiungere non soltanto il grande pubblico ma anche coloro che sono particolarmente interessati a studiarla, analizzarla o semplicemente riviverla. Come una fotografia o una riproduzione d’arte. Un famoso allestimento, una regia celebre, la presenza di un direttore o di un cantante in quella specifica produzione divengono così un documento, un materiale di studio importantissimo; e c’è anche chi, come Karajan, già da anni sta raccogliendo le sue interpretazioni in videodisco, per lasciarle in eredità ai posteri, orgogliosamente. Quando Karajan non ci sarà più, rimarranno queste testimonianze: e quanto più la tecnica di registrazione sarà avanzata, tanto più esse saranno interessanti, come documento di un’arte interpretativa. Che cosa non daremmo oggi per avere qualche filmato decente di Toscanini, Furtw ängler, De Sabata, eccetera?
Verso un uso didattico di questi documenti, la resistenza è tuttora grande. Sappiamo che gli audiovisivi sono ancora oggi considerati nelle nostre scuole strumenti stravaganti; e ciò proprio nell’epoca in cui la televisione e il cinema, i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa, condizionano l’essere stesso della nostra civiltà. Ma è una resistenza che, piaccia o non piaccia, è destinata a cadere. Ricordo che quando studiavo all’Università un celebre barone si scandalizzava sentendo provenire dall’aula di storia della musica i suoni di un disco riprodotto: “”Pensassero a studiare sui libri, quei mascalzoni!””, diceva. Oggi nessuno sarebbe disposto a sostenere l’inutilità dei dischi per scopi didattici. Eppure, provate a chiedere, in una Università o in un Conservatorio, l’adozione di un videoregistratore per studiare un’opera, per analizzare un concerto, per preparare un ascolto dal vivo, che è pur sempre il punto di arrivo insostituibile ma che non sarebbe male se fosse un po’ più consapevole e meditato, e senza preclusioni verso i media: vi rideranno in faccia.
Forse il punto di partenza per una qualche conclusione è proprio qui. Anziché demonizzare il fatto che anche la musica sia riprodotta attraverso il cinema e la televisione, addestriamoci a usare questi mezzi con senso di responsabilità, con intelligenza, con fantasia: a riderci su, se è il caso, ma anche a prenderli sul serio, quando ne vale la pena. Impariamo a capire come e perché un film d’opera sia un’altra cosa rispetto a un’opera in teatro, anche se l’opera è la stessa; che il linguaggio del cinema è diverso da quello della scena, e che la musica sarà tanto più valorizzata quanto più l’immagine sarà interpretata a partire dalla musica, ma nel proprio codice e ambito espressivo. La convergenza tra musica e immagine è possibile nei mezzi riproduttivi, anche nella scatola di un televisore fra le pareti domestiche: sta a noi darle un significato, stabilire un contatto, capire la formula e giudicarla. Apprezzarla nel suo giusto senso. Altrimenti ci accadrà quello che accadde al povero Topolino di Fantasia, apprendista stregone.
Musica Viva, n. 6 – anno XI