Il saggio di Patrick Barbier sugli «Evirati cantori»
Nel 1778 il Dizionario dell’Accademia di Francia dava questa definizione del termine castrato: «Colui il quale sia stato evirato per conservargli una voce simile a quella dei bambini e delle donne». Creature angeliche per alcuni, mostri repellenti per altri, gli «evirati cantori» rappresentarono soprattutto in Italia un fenomeno artistico sociale e culturale di vasta portata nella storia della musica tra Sei e Ottocento. Protetti dalla Chiesa, che per prima li aveva utilizzati in alternativa agli uomini e ai fanciulli, stante la proibizione di usare le voci delle peccaminose discendenti di Eva nelle funzioni liturgiche, i castrati conobbero una rigogliosa fioritura nell’età barocca, fino a diventare i protagonisti più ammirati e vezzeggiati del gran mondo dell’opera: figure che sembrano anticipare la moda dei virtuosi e degli idoli di massa, con tutto l’annesso fascino del travesti-mento, dell’ambiguità e dell’illusione.
Lo studio di Patrick Barbier sulla storia dei castrati si legge come un romanzo, e dl romanzo sembra avere talvolta le apparenze. Tutto è invece rigorosamente vero e documentato: dalle origini di una pratica che alla nostra sensibilità appare disumana, e che invece non lo era nelle condizioni sociali e nel costume di quel tempo, alle ragioni che fecero dei castrati un oggetto quasi di culto nella passione crescente per il melodramma. Di questi protagonisti, delle loro incredibili vicende, ci sono rimasti i nomi, alcuni dei quali, come il Farinelli o il Caffarelli, addirittura mitici; della cui arte, che doveva sbalordire dal punto di vista sia tecnico che espressivo per quel suo misto di artificiosità e di perfezione, abbiamo molte testimonianze, di provenienza diversa: secondo l’abate Raguenet, «sono ugole e suoni di voci da usignoli; sono fiati che fanno mancare la terra sotto i piedi e che quasi tolgono il respiro». Tutti concordano nel far prevalere i motivi di ammirazione alle riserve per una pratica pur sempre riconosciuta come innaturale.
L’evirazione – di solito effettuata fra i sette e i dodici anni di età, prima cioè della muta della voce – era solo la premessa di un lungo tirocinio al cui culmine stava il miracolo di una voce che in età adulta riunisce qualità maschili, come leggerezza, flessibilità e facilità negli acuti, e femminili: luminosità, potenza e limpidezza di suono. Per tradizione il loro reperimento avveniva negli istituti di carità che accoglievano gli orfani e i bambi poveri, ma non escludeva che anche altri fanciulli vi fossero spinti dalle loro famiglie con il miraggio di una carriera radiosa e di un futuro assicurato. Non era sempre così. I castrati venivano educati severamente nei conservatori e introdotti nella professione soprattutto dalla chiesa; dove, grazie a una voce che con la sua angelica purezza sembrava sfidare le leggi terrene, costituivano una sorta di legame privilegiato tra Dio, la musica e gli uomini. Ma già nel corso del Seicento, con la diffusione dell’opera, il teatro divenne il luogo deputato del loro impiego, il trampolino di lancio per una carriera che dalla fama della scena – dove gareggiavano con le primedonne incarnando i personaggi degli eroi maschili – si prolungava anche nella vita sociale e mondana.
La verginità non era infatti un prerogativa del castrato: la maggior parte di questi poteva avere rapporti sessuali più o meno normali, anche se la facoltà di generare era impedita. Ciò non toglie che molti arrivassero fino al matrimonio e soprattutto conducessero una vita dissoluta e libertina che, con il rango del divo riconosciuto, assunse nel Settecento manifestazioni di vero e proprio delirio.E il campo d’azione non si limitava alla sfera eterosessuale, ma, in forza di una «effeminazione» più o meno accentuata nel fisico e nel comportamento, investiva anche quella, ufficialmente proibita, della promiscuità.
Fino a che punto le mutazioni morfologiche e fisiche provocate dall’operazione incidessero anche sulla psiche, spingendo sovente alla nevrastenia e a quello che al giorno d’oggi chiameremmo «nevrosi» non è possibile dire generalizzando: alcune delle pagine più belle del libro descrivono manie, gelosie e complessi che, tenuti sotto controllo ed anzi esaltati nei momenti di gloria, divenivano devastanti depressioni al momento della definitiva uscita di scena nella solitudine e nell’abbandono.
Ciò che a noi manca oggi è il riscontro di queste voci e degli effetti che potevano produrre in un’epoca nella quale il mondo dell’opera, con le sue convenzioni, era anzitutto una sublime finzione, uno spettacolo fastoso: ed è anche questa la causa di un oblio a cui è inevitabilmente condannato il suo repertorio.
Patrick Barbier, «Gli evirati cantori», trad. di Andrea Buzzi, Rizzoli, pp. 238, lire 30.000
da “”Il Giornale””