Non considerava il compositore tedesco un mito, un modello ideologico, ma il più grandioso realizzatore di una concezione universale dell’arte: basta ascoltare l’ouverture dei Maestri cantori o la Marcia funebre di Sigfrido
In una delle sue famose interviste al vetriolo Sergiu Celibidache, dopo aver ingiuriato praticamente tutti i direttori dell’epoca, a chi gli domandava quale direttore gli avesse fatto più impressione fra quelli che aveva ascoltato nella sua vita, rispose senza esitazioni: Mendelssohn. Sconcerto dell’intervistatore. «Mendelssohn?». «Sì, Mendelssohn quando dirigeva Bach e Schubert, e io suonavo con lui».
Celibidache, che credeva nel ciclo delle rinascite, era sicuro di aver vissuto molte vite precedenti. La sua non era dunque solo una battuta. Ma, convinzioni filosofiche a parte, Celibidache voleva sottintendere anche altro. Il destino dell’interprete è per sua natura effimero, e non può essere tramandato se non dal ricordo di coloro che lo vissero. La trappola era tesa, e l’intervistatore vi cadde: e i dischi? Immaginiamo il ghigno del vecchio santone: «Fare dischi è come andare a letto con la fotografia di Brigitte Bardot». A quel tempo Celibidache non sapeva ancora che, se è per questo, oggi andiamo a letto anche con i suoi dischi postumi. Ma, almeno lui, noi lo abbiamo frequentato anche da vivo!
Secondo Norman Lebrecht, il “mito del maestro” è un fenomeno legato alla nascita del disco e ha un capostipite: Arturo Toscanini. Che Celibidache detestava per questo almeno quanto odiava il suo erede Karajan (ma questo è un altro discorso). Il mito di Toscanini è, sempre secondo Lebrecht, un fenomeno essenzialmente americano: ossia il risultato della sua decisione di abbandonare l’Europa per motivi non solo politici ma anche economici, e di diffondere la sua arte utilizzando i due mezzi di comunicazione per eccellenza moderni: la radio e il disco (la televisione, quella non fece in tempo a sfruttarla interamente). Vengono in mente le parole di fuoco di Adorno sui feticci in musica, ampiamente riecheggiate dai suoi nipotini con curiose conseguenze: per esempio esaltare Toscanini per le sue scelte antifasciste, come se in ciò stesse la sua principale grandezza di artista, continuando però a preferirgli, come artista, il nazista Furtwängler.
Tra il 1929 e il 1946, gli anni della sua piena maturità, Toscanini produsse una serie impressionante di incisioni prima con l’Orchestra Filarmonica di New York, della quale fu direttore principale fino al 1936, poi con l’Orchestra di Filadelfia (1941-’42), infine, a partire dal 1937, con la compagine orchestrale creata appositamente per lui, l’Orchestra Sinfonica della Nbc (National Brodacasting Company), per la quale ebbe la possibilità (eternamente invidiatagli da ogni direttore) di scegliere personalmente i musicisti. Tutte queste incisioni (e registrazioni) sono state ora raccolte in quattro cofanetti (otto cd tecnicamente perfetti) dall’Istituto Discografico Italiano e costituiscono, anche in rapporto alle più note testimonianze del secondo dopoguerra (fino allo straziante ultimo concerto wagneriano del 4 aprile 1954), un compendio altamente indicativo dell’arte interpretativa di Toscanini. Anche a rischio di inimicarci Celibidache nell’attuale tra le sue nuove vite, non abbiamo paura ad affermare che la grandezza di Toscanini non è un fenomeno né americano né commerciale, ma semplicemente musicale. Ed è un fenomeno, grazie ai dischi, assolutamente imperituro.
Musicale, dunque. Ma in che senso? Per capirlo, dobbiamo prima spiegare come andrebbero ascoltati questi documenti. Anzitutto nell’ordine in cui sono presentate le pagine nei dischi: che non è cronologico, ma suddiviso per autori, epoche e stili. Si inizia con le sinfonie di Rossini e di Verdi (nessuno ha più aggiunto nulla di nuovo, in seguito), poi con pezzi consimili (ouvertures e brani sinfonici) del Sette e dell’Ottocento. E qui, verso la fine del secondo cd, ecco la prima sorpresa, anzi il primo blocco di sorprese: Ouverture del Franco cacciatore di Weber, Poeta e contadino di Suppé, Terza Suite per orchestra di Bach, valzer I pattinatori di Waldteufel. L’immagine sanguigna, mediterranea che siamo abituati ad associare a Toscanini ne viene perentoriamente smentita in favore di un’eleganza di tratto, di una cultura del suono, di un senso dello stile che hanno le loro radici altrove, nella profondità e nella leggerezza dello spirito romantico. E nella malinconia di un sogno accarezzato con infinita dolcezza e poesia. E con il distacco di chi sa capire.
Ciò è solo un viatico per il blocco successivo: Wagner. E qui s’imporrebbe un’osservazione più generale. Colui che fu considerato, ed è considerato tuttora, un punto di riferimento nella storia dell’interpretazione verdiana, era in realtà un interprete elettivamente wagneriano: ossia un cultore non del melodramma, ma del dramma musicale. Non solo. La sensibilità di Toscanini non era di specie operistica bensì sinfonica; e nel sinfonico, quella di un classico. A dimostrarlo stanno i dischi successivi, con Mozart, Beethoven, Čajkovskij (la Patetica) e Brahms (la Prima Sinfonia), in questa progressione. Dove le conclamate qualità di Toscanini (l’energia e la vitalità ritmica, l’implacabile precisione della tecnica, l’assoluta padronanza dell’orchestra) persistono, ma passano in secondo piano rispetto al dominio della forma, alla finezza dell’analisi e della resa del carattere, alla sapiente distribuzione dei piani sonori, alla esatta definizione dell’arco d’insieme, all’emozione del sentimento. Certo, il suo Čajkovskij e il suo Brahms sono lontani sideralmente dagli epigoni del tardo romanticismo tedesco, e mostrano quasi una brusca insofferenza verso la pesantezza dell’accentuazione retorica: ma non sono proprio questi gli aspetti che più ammiriamo, oggi, in un interprete che definiamo moderno, e che forse domani ci parrà un classico? In Toscanini li troviamo realizzati allo stadio più completo.
Inizia a questo punto la seconda fase del nostro ascolto. Perché dischi di questo tipo vanno non solo ascoltati, ma riascoltati. Partendo da ciò che più ha colpito la nostra attenzione, e soffermandosi ora sui particolari. È inevitabile allora tornare a Wagner. Che cosa contraddistingue in modo inequivocabile Toscanini dagli altri grandi direttori wagneriani? Essenzialmente un fatto. Egli non considerava Wagner un mito, un modello di cultura e di ideologia, ma il più grandioso realizzatore di una concezione universale dell’arte. Ascoltando l’ouverture dei Maestri cantori si ha la precisa sensazione di come questa arte sia grande non in quanto tedesca, ma in quanto suprema idea dell’eternità, del ciclo della vita e della morte. In altri termini, si rivela qui il carattere più profondo della personalità di Toscanini: il lato tragico. L’essenza del modo di accostarsi alla musica era, in lui, tragico: anche nel cercare strenuamente una perfezione esteriore che potesse rendere, forse placare, il fuoco interiore di una rappresentazione ideale. Al culmine della Marcia funebre di Sigfrido Toscanini fa letteralmente esplodere la musica in un pianto dirotto. E in quel pianto c’è tutta la disperazione dell’interprete di non poter dire tutta la grandezza di ciò che la musica, per mille associazioni, significa, ma di poterla solo additare e incalzare con furore, con affanno, con determinazione. E quella determinazione è la sua anima.
Il mito di Toscanini? Essere un direttore senza miti.