Cattive abitudini, accomodamenti esecutivi, compromessi stilistici e interpretativi.
Al lavoro con forbici e colla direttori, cantanti e registi: pochi scrupoli o eccessivo affetto?
IL DIRETTORE DEL TEATRO
(irrompe frettoloso) Perdono, contessa, ma debbo rapirlo. Occorre all’istante alla prova l’autore perché ci approvi un tagliettino. (Al Poeta) Un taglio geniale, l’idea è mia, farà un effetto stupendo!
OLIVIER
La Roche chirurgo, buona anche questa!
IL DIRETTORE DEL TEATRO
Il parto della tua Musa è sano. Solo un braccio è troppo lungo. OLIVIER
Capisco ciò che vuoi: ne tagli un pezzo, e la mano, via!
Richard Strauss, Capriccio
Per un’arte che, come la musica, si manifesta attraverso il fatto esecutivo e riproduttivo, il problema testuale è di fondamentale importanza. E se è vero che ogni esecuzione, anche prescindendo dal fenomeno interpretativo vero e proprio, che può incidere in misura maggiore o minore, definisce un rapporto sempre diverso con il testo che affronta, è determinante stabilire in anticipo e in modo chiaro quale tipo di intervento e di atteggiamento sia alla base del lavoro dell’esecutore nei confronti del testo stesso. Ciò non è sempre evidente o dichiarato, come l’esperienza insegna.
Anche il fenomeno dei tagli rientra in questa sfera. In via di principio, parrebbe logico che ogni opera musicale, e più in generale artistica, dovesse venir presentata nella forma più compiuta, originale, e nella sua integrità. Ma, a parte il fatto che non è sempre possibile stabilire l’esatta versione di un testo, non solo quando l’autore stesso, l’editore o i primi interpreti sono intervenuti con successive modificazioni o alternative, nella pratica si tende spesso a considerare il testo come qualcosa di flessibile, adattabile alle circostanze particolari di una determinata esecuzione. I tagli sono appunto uno dei modi per rendere un testo consono a queste circostanze particolari. E può dunque anche accaderé che sia la pratica esecutiva, più o meno avallata dall’ autore, a rendere definitiva o almeno corrente una versione diversa da quella concepita in origine.
I casi di questo genere sono infiniti, e riguardano non solo i lavori teatrali, più suscettibili di venir modificati al momento della realizzazione, o nel corso della loro vita sulla scena, ma anche le partiture sinfoniche; e interessano non solo l’opera italiana, condizionata fin dall’inizio dall’incidenza dei cantanti, ma anche autori di drammi musicali unitariamente concepiti, come per esempio Wagner e Strauss (quest’ultimo fu un vero maestro nei tagli e nelle rielaborazioni); o, nell’altro versante, compositori assoluti, come Schubert e Bruckner, che i tagli li hanno invece soprattutto subiti. Non solo di tagli si tratta in questi casi, ma anche di aggiunte o interpolazioni: gli uni e le altre rimasti poi nell’uso e considerati addirittura irrinunciabili. Basti pensare al famoso do di petto della “”pira”” verdiana, accettato da Verdi ma non scritto in partitura. A parte il fatto che il do è diventato ormai un si naturale, anche con Pavarotti, o addirittura un si bemolle, per l’abitudine facilitante ad abbassare la tonalità della Cabaletta, la “”puntatura”” si giustifica come variazione nella ripresa della cabaletta, ma diviene insensata se questa ripresa si omette. E di solito si omette, come si omettono le riprese delle arie, dei cori e così via. Se ciò accadeva, per così dire, in presa diretta quando questi lavori rappresentavano le novità del giorno, assai diverso è il rilievo di operazioni di questo tipo condotte sulle opere di un repertorio ormai consolidato, o comunque del passato: nei confronti di queste è verosimilmente possibile stabilire alcuni criteri volti a ritrovarne il più possibile l’identità, o le diverse identità.
Quando si tratti di più versioni (come nel caso di Don Carlos,le cui due edizioni in quattro e cinque atti sono opere completamente diverse e autonome, o nel primo e secondo Boris Godunov, tanto per fare alcuni esempi), è importante non confondere le cose mescolando le pagine, spostando le scene, sopprimendo parti ritenute gravose, o lunghe, come i ballabili. Talvolta occorre anche andare contro, o comunque verificare, le ragioni e la sostanza di convenzioni che si sono tramandate per un certo periodo, ma che non corrispondono interamente alla volontà degli autori. E anche prescindendo da esse esiste, come si potrebbe dimostrare, una realtà per così dire oggettiva del testo, che sopravvive integra e perfetta all’epoca della sua composizione e alle stesse contingenze delle sue realizzazioni. Non è, come si capisce, questione senza importanza scegliere il modo di rendere una partitura musicale; e di scelta sempre si tratta, anche quando la filologia offre gli strumenti più idonei per far sì che questa scelta sia fondata e motivata. Una scelta che equivale a un’assunzione di responsabilità non solo artistica, ma anche morale (non ho affatto timore di usare quest’aggettivo).
Perché si tagliano le partiture (cause, modalità e istruzioni per l’uso sono illustrate da un competente, giovane archivista di teatro, Luca Logi, qui accanto)? Evidentemente si tagliano per renderle nell’esecuzione dal vivo più comprensibili o appetibili al pubblico (il caso è molto diverso per le incisioni discografiche, dove non per nulla si agisce in senso diverso, anzi opposto, riaprendo anche quei tagli per così dire entrati nell’uso). Detto così, sembrerebbe quasi che determinante fosse non già la scelta dell’interprete, che incide sul gusto del pubblico, ma una categoria a priori, spesso indistinta, presente nell’attesa stessa del pubblico. Al contrario, il pubblico non è in grado di scegliere, come è ovvio, e si fida dell’interprete: pensando che ciò che egli gli offre sia comunque un prodotto attendibile. Nascono di qui equivoci che spesso hanno del paradossale e che non di rado possono essere decisivi non solo per il successo o meno di una esecuzione, ma anche per l’idea che ci si fa dell’opera: e ciò è tanto più vero nel caso di riproposte di opere del passato più remoto, raramente eseguite o, come si diceva una volta, riesumate. Si accampano in questi casi ragioni quanto meno discutibili: che il pubblico si annoierebbe di fronte a versioni integrali, o, più semplicisticamente, che si è sempre usato fare così. La realtà in molte occasioni ha dimostrato esattamente il contrario: valga per tutti il caso, che ebbe del clamoroso, del Guglielmo Tell presentato da Riccardo Muti a Firenze e poi alla Scala nella versione integrale in cinque atti, che non solo rivelò la formidabile, perfetta struttura formale e drammaturgica dell’opera ma costituì anche un successo entusiastico.di pubblico: il quale ebbe la rivelazione di un capolavoro finalmente riportato alla sua vera essenza. E per la verità Muti è oggi uno dei pochi, se non l’unico fra i grandi direttori, a perseguire questi obiettivi con quell’intransigenza artistica e quella tensione morale che si diceva sopra. Di questo, a mio parere, dobbiamo essergli enormemente grati.
Che si tratti anche di un fatto generazionale, e culturale insieme, non può essere messo in dubbio. Già Abbado, alla fine degli anni Sessanta, ripulì il Rossini buffo (Barbiere di Siviglia e poi Cenerentola) di molte trivialità e aggiunte posticce, interpolazioni e gags che talvolta rendevano le sue opere farse grassocce e untuose. Fu una ripulitura, poi resa più precisa reintegrando le cadenze e le fioriture di provenienza belcantistica. Era un contributo decisivo perché si affermasse l’idea, e questo era l’importante, che l’opera italiana non fosse una cucina buona per tutti gli usi, a consumo della pigrizia intellettuale e della inettitudine di interpreti compiacenti alla maschera di gesso di una tradizione accettata acriticamente; e ciò dimostrava fra l’altro che le edizioni critiche sono una premessa fondamentale, ma non bastano da sole a risolvere il problema. Si scoprì un Rossini nuovo, quello vero, si trovarono cantanti in grado di cantarlo adeguatamente, e il pubblico capì e s’entusiasmò. D’altronde, il mito della Callas non si spiegherebbe se il suo rigore interpretativo non avesse trovato più che fondate ragioni per realizzarsi.
Lo stesso discorso si potrebbe fare per molti altri episodi, nei quali l’esperienza ha dimostrato che il pubblico è molto più pronto di quanto non si creda a uscire dalla routine e ad accettare versioni più complete e attendibili delle opere a cui assiste. E poi, se veramente si volesse accontentare un certo pubblico, perché tagliare ad esempio le cabalette, come regolarmente si fa, o le riprese destinate al virtuosismo dei cantanti? Non sarebbe allora più facile mantenerle, e sfruttarle per il loro scopo?
La risposta più semplice è naturalmente quella che oggi non esistono più cantanti in grado di cantarle. E forse il punto è proprio questo, ma da una prospettiva più alta: quale è oggi il ruolo che attribuiamo all’opera, e che cosa ci aspettiamo da essa.
L’opera appartiene ormai a un’epoca passata ed è diventata, o sta avviandosi a diventare, un pezzo da museo. Per non creare equivoci, ciò non significa affatto che abbia perduto la sua vitalità, la sua importanza, la sua bellezza, la sua capacità di commuovere e di emozionare: ma non è più un genere artistico d’attualità, che risponda al carattere della nostra epoca. Proprio per questo deve essere salvaguardato alla stessa stregua delle opere d’arte conservate in un museo. E chi visita un museo, o assiste a una rappresentazione d’opera, lo fa con lo stesso spirito, aperto al godimento artistico e al piacere della riflessione. Sempre più s’impone dunque la salvaguardia, il restauro del patrimonio artistico nella sua integrità e originarietà; sempre meno sono tollerabili le operazioni di puro consumo che interpreti pigri e moralmente ottusi vanno perpetrando a danno dei capolavori del teatro musicale. A salvarsi assai meglio è il teatro del Novecento, nel quale la scrittura stessa è concepita come un mezzo di altissima definizione: tagliare anche una sola battuta diviene impossibile nell’economia di un linguaggio armonicamente più denso e compatto, formalmente più concentrato e sintetico. Quella dei tagli non è comunque una questione per così dire ontologica, nella quale esistano una verità, norme e comportamenti validi in assoluto; anche se, a onor del vero, esistono buone ragioni per affermare che tagliare dei pezzi da un’opera significa amputarne il corpo, come ironizzava Strauss con il taglio della ma-no nella sua ultima opera Capriccio: ossia distruggerne gli equilibri, alterare il respiro e rendere anchilosate le articolazioni. E’ lecito tagliare i recitativi secchi delle opere buffe solo per non ritardare la musica, invece di curarne una esecuzione corretta, comprensibile e stilisticamente accettabile? E davvero possibile mutilare la costruzione drammatica, rompere i rapporti armonici, sfigurare i tempi e gli spazi, delicatissimi, dell’organismo drammatico-musicale (e ciò vale per esempio anche per l’opera tedesca prima di Wagner, nella quale al canto si alternano i dialoghi parlati, altrettanto essenziali nell’economia generale), senza che il lavoro dell’artista e l’opera d’arte vengano distrutti? Esistono le convenzioni; ma, per noi oggi, queste convenzioni sono meno importanti della realtà e della vera essenza delle opere stesse. Un caso può essere ancora più illuminante, proprio perché esce dal mondo per sua natura impuro e pragmatico del teatro. La soppressione dei ritornelli nelle Sinfonie classiche è, dal punto di vista storico, una conseguenza dell’affermarsi dell’interprete romantico, per il quale essi erano appunto convenzione. Ma l’impiego dei ritornelli era necessario per consolidare l’elemento costruttivo fondamentale, e allora nuovo, dello stile classico, ossia la forma-sonata. Non è infatti un caso che Beethoven, riformando dall’interno la forma-sonata prima di abbandonarla, abolisca i ritornelli, ossia non li contempli più nella costruzione dei suoi movimenti. Si può certamente sostenere che i ritornelli non sono una parte essenziale della forma sinfonica o sonatistica, ma non che non ne facessero parte all’origine; la scelta di eseguirli o meno è oggi strettamente connessa alle intenzioni dell’interprete, alla sua idea del significato non solo formale dello stile classico. Ma in un’epoca che ormai ha perso la consuetudine con questo stile, e che quindi paradossalmente si trova in condizioni analoghe a quelle dei contemporanei di Haydn e di Mozart, ai confini di una terra sconosciuta, anche se attraversata e devastata dalla tempesta romantica, il ritornello può tornare ad essere non già fredda, ripetitiva convenzione, come volevano gli insofferenti romantici, ma mezzo di comprensione della forma stessa e del suo significato spazio-temporale all’interno dell’articolazione della musica assoluta.
Non si tratta dunque di bandire una crociata pro o contro i tagli, bensì di valutare secondo i casi la loro necessità, o semplicemente utilità. Il mio personale parere è che i tagli sono una indebita ingerenza dell’interprete nella verità più alta e importante dell’autore, e che dunque siano da evitare. Tutti, per principio: tanto quelli ben fatti, che “”migliorano”” l’autore stesso, quanto quelli di puro mestiere e d’occasione, che palesemente lo snaturano. Tanto più sono da evitare quando riguardano opere sconosciute, o di rara esecuzione: perché paradossalmente una Traviata tagliata rimarrà sempre cosa nota e presente nella coscienza del pubblico (ma per esempio recentemente Muti ha dimostrato quanto più vera e bella sia senza tagli); mentre un’opera che si ascolta per la prima volta e che probabilmente non si riascolterà molto presto può essere letteralmente uccisa o falsificata da una versione non fedele e completa (lo dicemmo già con rammarico in occasione delle Danaïdes di Salieri all’ultimo Festival di Ravenna).
Fino a prova contraria, lo spettatore deve essere messo in grado di farsi un proprio giudizio su ciò che ascolta e vede: senza che altri decidano preventivamente per lui. Oggi questo è tanto più vero, in quanto l’appassionato d’opera ha i mezzi culturali e critici per arrivare a ottenerlo; e grazie al cielo sempre meno l’opera si limita ad essere esaltazione di mere abilità canore. E se è vero che il testo torna così ad essere protagonista, anziché strumento per altri valori o aspirazioni, allora i tagli possono diventare un ostacolo anziché un aiuto: un modo di ritardare la presa di coscienza del pubblico e perfino il suo piacere intellettuale e critico. Giacché ci rifiutiamo di accettare che il teatro musicale sia ancora oggi una faccenda di mero istinto e di reazioni viscerali agli acuti dei cantanti.
Ma se poi fosse davvero troppo chiedere in ogni circostanza agli interpreti, padroni del repertorio, di rispettare l’integrità e di essere fedele ai testi che affrontano (e non si venga a dire che non si sa che cosa siano integrità e fedeltà), almeno dovremmo poter pretendere di essere informati chiaramente ed esattamente su quello che andiamo ad ascoltare. Perché alla fine tutto si può fare. Basta dirlo con chiarezza e onestà, senza barare al gioco. E nel nostro diritto di ascoltatori.
Tagli da esposizione
Maestro Gavazzeni, che cosa pensa dei tagli? È legittimo farli?
Rivendico il sacrosanto diritto dell’interprete all’appropriazione debita. L’opera, soprattutto quella francese e italiana dell’Ottocento, è un organismo per sua stessa natura incompiuto, in perenne movimento e sottoposto alla tensione della cultura e alla volontà degli interpreti. I tagli sono connaturati all’opera ottocentesca, per la nozione di incompiutezza che la contraddistingue.
Non crede dunque alla fedeltà al testo?
Quale fedeltà può esserci verso un genere bastardo, informale come l’opera? L’opera è nata puttana, e ha smesso di esserlo, se mai ha smesso, solo quando è diventata vecchia…
Dunque si può tagliare a piacimento.
In linea di principio, sì. Naturalmente tutto è legato e giustificato dalle occasioni interpretative. Ogni operazione fa caso a sé, a seconda del momento, dell’occasione, della sede, degli interpreti di cui si dispone. Direi che l’opera è un fatto sociale, legato al costume e alla vita, che cambiano sempre.
Ma non crede che il pubblico abbia il diritto di giudicare da solo la vera realtà di un testo, senza essere defraudato?
Il pubblico deve ascoltare e basta. La comprensione e l’adesione del pubblico significano successo. E noi interpreti dobbiamo pensare di dare al pubblico qualcosa che susciti la sua comprensione e la sua adesione. Quanto al resto, il teatro è anche truffa; o meglio, la truffa fa parte del teatro. A Roma, per una inaugurazione negli anni Cinquanta, diressi il Giulio Cesare di Händel tagliando la fine originale del primo atto, fiacca, e sostituendola con la oggi famosa aria del Serse, da me allora trascritta per coro a quattro voci. Se non lo avessi fatto, l’opera sarebbe caduta nel disinteresse generale subito alla fine del primo atto. Così invece fu un successo. Il pubblico scoprì Händel, e fu felice. Aggiunga che nessuno si accorse del cambiamento, né fra il pubblico né fra la critica. Fino a quando non fui io stesso a rivelarlo.
Tanta deplorevole immoralità mi sconcerta. A sua scusante, ricordo certe edizioni con taglio rimaste indimenticabili, forse migliori anche degli originali: penso per esempio alla Anna Balena del 1957 alla Scala con la Callas e ai famosi Ugonotti del 1963 con un cast formidabile.
Nell’Anna Bolena fu essenziale la collaborazione con Visconti. Riproponevamo un’opera sconosciuta, con interpreti favolosi. Era essenziale mettere in luce i valori fondamentali dell’opera, l’architettura, la narrazione drammatica, il tessuto musicale importante, tralasciando le molti parti di manierismo. Ma non avevamo per esempio un Rubini, e allora tagliammo la scena della torre, che Donizetti aveva composto per lui. L’occasione interpretativa, il suo carattere, era più importante di una generica integrità. Visconti fu d’accordo con me su tutto; anzi, caldeggiò queste scelte. Quanto agli Ugonotti, si trattava di far capire a un pubblico disabituato, che non conosceva l’opera, il genere a cui essa apparteneva, e il suo grande valore. Ricordo benissimo come Francesco Siciliani definì quest’operazione: “”tagli da esposizione””.
Li rifarebbe oggi?
Taglierei forse in modo diverso, ma taglierei. Quale pubblico potrebbe mai sopportare la versione integrale degli Ugonotti?
E i piccoli tagli, quelli che tolgono una battuta qua, due là e così via?
E’ chiaro che il taglio deve obbedire a criteri precisi, a un’idea di drammaturgia. Per far capire meglio ciò che in un’opera è importante, e valorizzarlo.
E i ritornelli nelle sinfonie classiche, come comportarsi?
Io faccio i ritornelli nelle Sinfonie di Haydn e di Mozart. Ma non in Beethoven.
Perché?
Perché io non eseguo Beethoven.
Musica Viva, n. 12 – anno XIV