Una nuova biografia ridimensiona il direttore d’orchestra idolo degli americani
Andiamo, è tempo di smitizzare. Ma solo pochi anni addietro sarebbe stato impensabile che a farne le spese potesse essere Arturo Toscanini, l’intoccabile, il più leggendario tra i direttori di orchestra del secolo, glorificato già in vita da saggi e biografie in cui l’iperbole percuoteva tutti i lati dell’uomo come dell’artista, innalzandoli al rango del fenomeno unico e irripetibile.
Per una singolare coincidenza la più encomiastica e cordiale di queste biografie, quella di Filippo Sacchi pubblicata nel ’60, viene ristampata dalla Longanesi proprio mentre la Mondadori immette sul mercato italiano la traduzione dell’ultimo Toscanini di Joseph Horowitz: libro demolitorio, che erode dalle fondamenta il piedistallo sul quale il Maestro era stato collocato e getta ombre sinistre sulla bronzea scultura del «più grande direttore del mondo».
Giornalista intraprendente e spregiudicato, Horowitz muove all’assalto del mito toscaniniano munito delle armi della sociologia e della psicologia di massa; per mostrare come alla base del successo di Toscanini in America, e di lì ovunque, vi fossero precise condizioni storiche e ambientali, legate alla trasformazione di quella società; dall’inizio del secolo, allorché Toscanini accecò come un lampo la scena del Metropolitan, sino al consolidarsi della sua fama negli anni (dal ’37 al ’54) della Nbc Symphony, l’orchestra creata appositamente per lui al fine di sfruttare commercialmente le possibilità di diffusione della radio, della televisione e del disco: i mezzi moderni di comunicazione di massa.
Quella di Horowitz non è dunque propriamente una biografia, ma una ricostruzione esemplare, soprattutto sulle testimonianze dei giornali dell’epoca, del consenso che fece di Toscanini un dio della cultura americana, contribuendo a fissarne l’immagine e a diffonderla poi in tutto il mondo. E qui sta appunto la differenza fra i metodi dei due lavori: mentre Sacchi pone Toscanini al centro di un sistema tolemaico che da lui riceve luce e ragione, stante l’idea che l’eccellenza del musicista si fondasse oltre che sul genio intrinseco anche sulla probità e sull’inflessibilità dell’uomo, Horowitz declassa Toscanini a pianeta ruotante nell’orbita di un sistema solare copernicano.
Toscanini fu funzionale al sistema americano, che vide in lui il mezzo per affermare la superiorità del Nuovo Mondo sul Vecchio Continente, offrendo a un genio dell’interpretazione (innalzato allo stesso livello dei compositori che eseguiva) la più compieta estrinsecazione non soltanto artistica, ma anche d’immagine: sì da erigere un culto della personalità nel quale gli stessi «difetti» diventavano virtù, e servirlo poi nel modo più incondizionato e rituale.
Ciò spiegherebbe perché Toscanini, dopo aver spodestato nella sua irresistibile carriera americana Mahler e Mengelberg, e aver bloccato l’ascesa di Fürtwangler negli anni di direzione alla Filarmonica di New York (1926-36), raggiungesse l’apice della gloria, con tutto ciò che essa significava, negli anni trionfali della Nbc: quando si riconosceva in lui il messia della musica capace di evangelizzare con le sue inarrivabili interpretazioni dei classici ogni tipo di pubblico.
E’ noto che l’America ha sempre avuto bisogno di personaggi emblematici nei quali incarnare i propri sogni di supremazia culturale, e abbia scaricato le tensioni di un’ complesso di inferiorità nei confronti dell’Europa assorbendola e importandola; per poi moltiplicarla, e trasformarla, all’ennesima potenza. Altrettanto certo è che Toscanini possedesse tratti che si adattavano perfettamente a questa richiesta, e in più sensi: la forza perentoria della personalità, le inesauribili capacità lavorative e managerali, l’esemplare antifascismo e «amore per la libertà», l’aggressività e il dispotismo del «vero uomo», sensibile però aì valori della famiglia.
Attorno a questi tratti il consenso fu enorme, alimentato da impresari tanto devoti quanto abili, amplificato da campagne di stampa e panegirici che avrebbero dell’incredibile e farebbero quasi sorridere se non fossimo ormai abituati a vederceli scaricare addosso per personaggi ed «eventi» di assai minor importanza: non a caso, Horowitz paragona ingenuamente l’adorazione per Toscanini a quella che oggi tocca a Pavarotti.
Ma l’America che adottò Toscanini, con frenesie ed entusiasmi deliranti (ed è un crescendo che la documentazione del volume segue passo passo), era un paese ansioso di costruire le proprie tradizioni attorno a una figura carismatica, e disposto a tutto pur di riuscirci.
Come reagì Toscanini a questa danza attorno al vitello d’oro, che era poi lui stesso? Recitando il ruolo che gli era imposto in una solitudine orgogliosa, aspra e sprezzante, quasi schizofrenica: confortata forse da motivi pratici (i guadagni opimi che l’America gli assicurava) e in parte ideali (sentirsi missionario in una terra fertile, da convertire alla grande arte europea: una terra che egli amava e detestava nello stesso tempo). A Horowitz sembra sfuggire il significato di questa dissociazione nell’intimo di Toscanini: il vento di tragedia che spira sulla sua figura e il peso ch’egli dovette sopportare per serbarsi fedele all’impegno di fronte a se stesso e agli autori che interpretava.
In questa grande commedia americana, Toscanini esce dal mito per entrare finalmente in una dimensione più sfumata. La mania del perfezionismo, le nevrosi represse che si scatenavano al sacro fuoco dell’arte, le meschine gelosie e le insoddisfazioni perpetue, nascevano da un’inquietudine e da un’insicurezza mai risolte, e minimamente appagate, nel profondo, dai trionfi americani. Egli fu l’oggetto di un culto rituale, nel quale le forem non corrispondevano ai veri contenuti. Il dramma di Toscanini fu sapere che pochi, e fra questi non certo gli americani, comprendevano questa lacerazione, e l’ostinazione con cui egli cercò di ricucirla.
L’edizione italiana del libro di Horowitz ha avuto una traduzione al limite del grottesco. Da cui si evince, per esempio che nel corso della sua carriera Toscanini non studiò mai una partitura, ma sempre e solo «spartiti»: anche di Beethoven e degli altri sinfonisti. Che sia anche questo un modo di smitizzarlo?
Filippo Sacchi, Toscaniní, Longanesi, pp. 365, lire 28.000 Joseph Horowitz, Toscanini, Mondadori, pp. 536, lire 30.000
da “”Il Giornale””