A Firenze l’opera di Giordano diretta da Bartoletti
Firenze – Andrea Chénier di Giordano tornava al Comunale dopo venticinque annidi assenza, in un momento non roseo. In una stagione lirica forzatamente così magra come quella consentita quest’anno a Firenze qualunque opera avrebbe figurato come un lusso o uno spreco. E impossibile imbastire un cartellone che abbia un senso su tre soli titoli, che restano giocoforza episodici. E anche stabilire una scala di priorità diviene, in queste condizioni, difficile. Lo Chénier fu un tempo un’opera di largo consumo in Italia, uno dei cardini del repertorio popolare, ma la sua forza stava proprio nella normalità della sua presenza, nella familiarità intima con le sue romanze, nel risalto che i cantanti, ancora protagonisti indiscussi dello spettacolo operistico, vi potevano ricevere. Ripresentarlo oggi è un’operazione per molti versi rischiosa, soprattutto quando non vi sia il clima piú favorevole per farlo. Senza una motivazione interpretativa forte, o una sicurezza consolidata dalla tradizione, anche il pubblico rimarrà disorientato; come lo è stato a Firenze.
Bruno Bartoletti è direttore troppo esperto per non aver valutato che con un cast come quello di cui disponeva la strada sarebbe stata in salita. Sia Giovanna Casolla (Maddalena) sia Renato Bruson (Gérard) non sono più nello splendore dei loro mezzi vocali, e debbono sopperire l’una col temperamento drammatico, l’altro col mestiere e il modo di porgere, di dare espressività alla frase. Quanto a Krjstian Johannsson, il protagonista, la scarsa dimestichezza con lo stile del verismo e la tutt’altro che imponente presenza scenica mettevano a repentaglio anche la freschezza di una voce calda e piena, per quanto in ricorrente difficoltà con la tessitura maligna del ruolo, nel quale saper svettare anche sulle note di passaggio tra il registro centrale e acuto è essenziale. Giustamente, dunque, Bartoletti ha puntato su una maggiore evidenza dell’orchestra, che se non arriva a proporsi con vero spessore sinfonico contiene una trama molto variegata, tutt’altro che dozzinale anche nei raccordi e nelle scene d’assieme. Ma d’altro canto Bartoletti è anche direttore all’antica, per il quale il palcoscenico rimane il luogo centrale dell’opera; e dunque nel proporre e non trovare solida rispondenza nei cantanti, rimaneva sospeso tra contrastanti, anche belle intenzioni, nei tempi e nelle sonorità. Il suo impegno è stato premiato da un successo personale.
Soprattutto nella regia di Pier Luigi Samaritani, autore anche delle scene e dei costumi, mancava una scelta coerente, misurata e discreta, della linea da seguire. Giacché l’evidente intenzione di riconsegnare l’opera al suo ambiente naturale, magari esagerando un po’ l’incidenza di quel piedistallo «storico» su cui poggia, si scontrava poi con una insofferenza sia alla cornice fondamentalmente oleografica da lui stesso creata sia alle convenzioni di un’opera nella quale a contare sono soprattutto le, esplosioni delle passioni, più immaginarie che reali. Si rimaneva così nel dubbio su una riproposta che non era né la celebrazione dei fasti antichi del melodramma né il ripensamento in chiave critica di un monumento del passato.
(repliche i1 23, 25, 27 febbraio, 1° e 3 marzo)
da “”Il Giornale””