Testimone della volontà

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Continua l’autobiografia di Ingmar Bergman

Dopo «Lanterna magica» esce «Bilder» dove il regista svedese racconta vita e opere in una trama fitta di riflessioni e memorie

Bilder (Immagini), la continuazione dell’autobiografia di Ingmar Bergman dopo Lanterna magica (Garzanti), si apre con una confessione abbastanza sconcertante: Bergman non aveva mai rivisto i suoi film prima di accettare la proposta della Norstedts di scrivere questo volume. Dopo aver deciso nel 1983 di abbandonare il cinema – «di appendere la macchina da presa al chiodo» – è passato qualche tempo perché trovasse la forza di farlo. E anche allora non è stato facile. «Rivedere nello spazio di un anno la produzione di quarant’anni si è rivelato inaspettatamente estenuante e a tratti insopportabile. In modo brutale e inequivocabile ho dovuto riconoscere che per la maggior parte i miei film erano stati concepiti nel profondo dell’anima, nel cuore, nel cervello, nei nervi, negli organi genitali e non da ultimo nelle viscere. A farli nascere è stato un piacere che non ha nome. Un altro piacere, che potrei definire “”artigianale””, li ha aiutati a esprimersi nel mondo reale. Adesso dovevo ricostruire le fonti e radiografare le immagini sbiadite dell’anima. Ritornare ai miei film, avventurarmi nel loro paesaggio. E stata una passeggiata orribile».

Chi abbia letto Lanterna magica, sa quanto Bergman possa essere spietato verso se stesso. Bilder conferma questa attitudine, ma mostra nello stesso tempo di quanta affettuosa carica umana Bergman sappia essere capace nei confronti delle sue creature, e soprrattutto di quelle meno fortunate. Questo libro non è soltanto la più completa rievocazione della sua carriera  – arricchita di ricordi, di numerosi appunti del suo diario e dei suoi taccuini di lavoro finora inediti – ma anche, alla fine, «uno sguardo saggio e una relazione obiettiva di un uomo di settant’anni di fronte a esperienze dolorose e per metà sommerse»: rievocazione che la splendida impaginazione con immagini e sequenze dei suoi film rende ancora piú viva ed eloquente.

Bergman non segue un percorso cronologico ma tesse come in un film una trama di fatti, di incontri, di riflessioni e di memorie. Raggruppate in sei capitoli, le sue creazioni si dipanano secondo un filo saldissimo che mette in rilievo la fondamentale unitarietà e ciclicità di certi temi: da quello del sogno, che apre il volume, con i film sul sogno (Il posto delle fragole, L’ora del lupo, Persona, L’immagine allo specchio, Sussurri e grida, Il silenzio, in quest’ordine) a quello dell’illusione e della magia (Il volto, Il rito, Una vampata d’amore), dal contrasto tra fede e miscredenza (Il settimo sigillo, Come in uno specchio, Luci d’inverno) alle commedie amare o trasfiguranti (da Sorrisi di una notte d’estate all’ultimo capolavoro Fanny e Alexander). Gli altri, per lui, sono semplicemente film, altri film: momenti che apparentemente escono da una catalogazione tematica per riproporre in realtà le stesse ossessioni, le stesse paure, gli stessi riti, le stesse gioie, forse in modo anche piú privato.

Di straordinario interesse sono gli appunti di diario, che Bergman alterna continuamente al racconto e al commento. In modo particolare i taccuini di lavoro e i libri di regia. Sembra quasi che in essi parli un sosia, un’immagine allo specchio di Bergman stesso. Lo stile lapidario, la insistita tendenza all’autocritica, la capacità di essere ironico e distaccato anche verso atti che erano costati sangue e lacrime, di riconoscere lucidamente dove e perché ha sbagliato, delineano un ritratto esemplare non solo dell’autore ma anche dello sfondo in cui nacquero le sue opere: i rapporti con i produttori e con gli attori, continuamente alimentati dal furore e dalla passione, le attese e le reazioni del pubblico, i rapporti con la critica, il retroterra culturale e le vicende personali della sua vita. Ogni film, dice Bergman, è una testimonianza della volontà di entrare in contatto con il mondo e con gli uomini, di osservarne le reazioni e nello stesso tempo di ritrarsi per evadere in una dimensione di

sogno, di illusione, di felicità e di dolore. Le parole chiave che ritornano sono: tenerezza, affetto, solidarietà, complicità, amore. Soprattutto verso gli attori.

Per quanto Bergman tenda a essere obiettivo anche dal punto di vista dell’uomo di mestiere, sicché raramente i suoi giudizi estetici e critici sono immotivati o futili, su alcune predilezioni (o viceversa rifiuti) conta molto ciò che i film hanno significato per lui anche al di là del loro valore. È il caso, per esempio, di Persona, che Bergman considera il film centrale della sua ricerca non solo cinematografica («questo film mi ha salvato la vita»), di Sussurri e grida («mi ha liberato dalla paura della morte»), e di un film non troppo compreso dalla critica come Dalla vita delle marionette, realizzato durante l’esilio a Monaco e analizzato a fondo dal regista. All’estremo opposto i film non riusciti: L’uovo del serpente, Sinfonia d’autunno, A proposito di tutte queste signore, nati da presupposti sbagliati o da inadeguatezze psicologiche. Molto interessanti, anche perché riportano una documentazione in gran parte sconosciuta, i capitoli sui primi film, ed emozionanti i motivi non solo artistici che pongono ai vertici di un’e-poca irripetibile il grande affresco del Settimo sigillo e la tenue intimità del Posto delle fragole. Pirotecnico il capitolo su Fanny e Alexander, velato di nostalgia e della consapevolezza che con quell’opera si chiudeva una carriera, e si apriva l’età dei bilanci. Con questo libro sembra chiudersi anche il periodo dei ricordi: un romanzo affascinante che speriamo di poter leggere presto anche in una buona traduzione italiana.

 

Ingmar Bergman, «Bilder», Kiepenheuer & Witsch, pp. 382, marchi 58

da “”Il Giornale””

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