I Five piano pieces for David Tudor sono un estratto, autonomamente pubblicato nel 1959, di Pièces de chair II, ciclo di melodie composto fra il 1958 e il 1960 per un organico comprendente baritono solo, una voce femminile, alcuni strumenti e pianoforte. In esso il pianoforte svolge, in un certo senso, il ruolo di protagonista. E infatti presente in tutte le quattordici parti della composizione: quasi sempre rimane solo con la voce o resta in netto rilievo sulle rare e brevi apparizioni di altri strumenti. Inoltre, quattro parti del ciclo sono altrettanti pezzi per pianoforte solo, mentre un quinto pezzo, che nel ciclo completo è il pezzo di apertura, si accompagna di una parte vocale ad libitum su testo tratto da un bellissimo frammento dell’Antologia Palatina nella traduzione di Salvatore Quasimodo («Non dico di no ai ragazzi dagli occhi chiari ma amo più di tutti quelli dagli occhi neri e rilucenti»). Ed è appunto questo torso di cinque pezzi per pianoforte solo, privato l’ultimo dell’intervento assai suggestivo della voce, a costituire la serie dei Piano pieces for David Tudor.
«L’espressione for David Tudor usata nel titolo» – precisa Bussotti nella breve prefazione – «non vuole essere una dedica ma, per così dire quasi un’indicazione di strumento. I caratteri musicali scritti realizzano una scala che va dalla scrittura tradizionalmente nota sino al segno musicalmente ancora ignoto: il disegno (…) Spesso l’atto sonoro che simili disegni possono generare resta nelle mani del pianista». E non ci sarà bisogno di ricordare che l’incontro con il pianista americano David Tudor, avvenuto proprio in quegli anni, spianò a Bussotti non ancora trentenne la strada di una folgorante e rapidissima carriera. La cui originalità, per non dire genialità, fin dagli esordi, questi pezzi pianistici rivelano con assoluta, ostica chiarezza. Due di essi, il terzo e il quarto, abbandonano ogni benché minimo riferimento al tradizionale sistema di segni musicali e sono completamente redatti in notazione grafica: una «grafica musicale», per la quale si è parlato anche di «pittografia», che non è tanto mezzo di comunicazione quanto di associazione, vale come sorgente d’ispirazione e ha bisogno quindi di urí interprete che sia anche ricompositore (ieri Tudor, oggi Cardini) per essere tradotta in forma sonora. Scrive a questo riguardo Bussotti: «Sul tracciato che scorre di sfondo all’immagine, viene ad incrostarsi tutto un repertorio di segni minuti, a volte impercettibili, piccoli agglomerati di figurazioni geometriche, brevi tratti, legature, punti, rare zone sfumate di pointillé. Si riconosceranno segni allusivi all’ordinaria scrittura musicale, come armonici e frecce di glissandi, che potrebbero far pensare a una scrittura d’arpa (già in questo si scoprirà di fatto che la realizzazione sonora del pezzo vada intesa nell’uso della totalità dello strumento, non soltanto la tastiera dunque, ma le corde direttamente sollecitate all’interno e la cassa in legno dello strumento con tutte le sue parti metalliche) e, in due o tre casi, vere e proprio note. Tutte queste figurazioni interrompono, ricoprono, deviano e in certi casi contraddicono il decorso orizzontale delle linee. A questo proposito le legature rivestono particolare importanza poiché è prescritto di seguire la curva in ogni senso allo scopo di determinare la sequenza dei vari attacchi o gruppi sonori». Anche negli altri pezzi, sia pure in forma meno totale, il disegno grafico integra la notazione musicale, stabilendo associazioni, sempre viste in funzione sonora, fra le linee delle note e i segni non tradizionali; soltanto nel quinto la disposizione su due pentagrammi racchiude una complessità strutturale di straordinaria densità espressiva, tutta resa «con le note». Eppure, proprio da questa chiusa ispirata (e ancor più affascinante con la presenza della voce), appare chiaro come gli estremi della tecnica compositiva bussottiana tendano a fondersi, per sua stessa ammissione, in un tipo di lavoro creativo «ripiegato all’interno e nel vivo di una tradizione linguistica che trova nelle rarissime, ed irripetibili, esperienze estreme dell’atto sperimentale, l’unico confronto operante con la materialità viva dell’ignoto».
Firenze nel dopoguerra: aspetti della vita musicale dagli anni ’50 a oggi, Quattro concerti e una tavola rotonda, a cura di Leonardo Pinzauti, Sergio Sablich, Piero Santi e Daniele Spini.
Dalla collana Musica nel nostro tempo – documentazione e ricerche, Opuslibri, 1983.