Sulle vette del do di petto

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Coloro che hanno assistito alla rinascita del Guglielmo Tell integrale al Maggio Musicale Fiorentino 1972 e poi di nuovo nella stagione 1975-76, ancor sempre sotto la direzione già allora sovrana di Riccardo Muti, serbano il ricordo di una rivelazione. A mostrarsi finalmente – oggi possiamo dire: definitivamente – era non soltanto un capolavoro sottratto alle pigre, ottuse abitudini degli interpreti e del pubblico, ma tutt’intera la verità e la grandezza di un’audace concezione del teatro musicale, con le sue enormi novità stilistiche, nella originaria, classica proporzione delle sue misure. Si disse e scrisse allora che mai un’opera di così inusitata lunghezza era sembrata correr via con tanta rapidità; svelando, accanto alla potenza espressiva delle pagine più famose, l’ampia gittata della tensione drammatica, la variegata sfaccettatura di un tempo irreale, psicologico, accordato sui palpiti della natura e sui battiti in eco dell’anima. Questo Guglielmo Tell torna ora alla Scala verosimilmente accresciuto di sapere, per ribadire le sue certezze e i suoi enigmi: dirette quelle, indiretti questi. Giacché rimane paradossale che l’ora in cui più alta risuonò la gloria di Rossini, fin dalla prima rappresentazione del Tell all’Opéra di Parigi il 3 agosto 1829, e con cui parve virtualmente inaugurarsi una nuova epoca del teatro musicale, coincidesse con il suo congedo dalle scene operistiche, per sempre. Con un risultato assoluto e ineguagliabile.

Che però, a conti fatti, immodificabile non fu. Già alla prima apparizione in Italia, al Teatro del Giglio di Lucca i1 17 settembre 1831, Guglielmo Tell si «arricchì» di una novità destinata a passare, dalla cronaca, alla storia. Il do di petto introdotto dal giovane tenore francese Duprez nella grande aria di Arnoldo inaugurava, sulle ceneri ancora fumanti del «bel canto», l’epoca moderna del realismo tenorile. Fu una scoperta che, ribadita clamorosamente all’Opéra di Parigi il 17 aprile 1837, rimase indissolubilmente legata alla fortuna del Guglielmo Tell; tanto quanto i tagli che, in nome delle melodrammatiche convenzioni, amputavano arti e giunture senza curarsi degli organi vitali. Al crepuscolo di un mondo, poco giovò il paterno e appena accorato rimprovero che un Rossini ormai fuori dalla mischia rivolse al baldanzoso Duprez: «Voi siete un grande artista e un vero creatore della parte di Arnoldo: perché dunque abbassarvi a usare un simile espediente?».

Con i suoi do di petto squillanti e passionali, degni del nuovo ruolo che l’opera lirica veniva assegnando al tenore, il personaggio di Arnoldo sembrava riacquistare, proprio nel momento della peripezia della tragedia, il suo rango di figura eroica a tutto tondo; proprio quel rango che Rossini aveva negato, in nome d’altri principi, a lui come a tutti gli altri personaggi dell’opera. Neppure Guglielmo Tell, il protagonista che le dà il titolo, è un eroe nel senso tradizionale, quanto piuttosto il simbolo di una missione sentita come pura ebbrezza che lo trascende e di cui si sente investito, per realizzare la quale non sono ammesse esitazioni. Nella grande scena del tiro alla mela («Resta immobile»), Tell non arretra di fronte all’orrore della prova e si concentra interamente sul dardo che deve essere scoccato, estraendo dalla perturbazione del proprio stato d’animo le energie necessarie a riuscire: egli sa che non può fallire, pena la distruzione di quel fuoco interiore che l’infiamma.

Questo superamento, o meglio trasfigurazione, dei sentimenti puramente individuali e dei nodi patetici in nome di valori più alti – che non sono solo quelli del riscatto di Tell e dei suoi seguaci dai soprusi di un governatore straniero e odioso – si riflette anzitutto nella vicenda dell’amore fra Arnoldo, figlio del patriarca del villaggio, e Matilde, principessa degli Asburgo oppressori. Un amore fatale, certo, e impossibile, perciò tanto più bruciante e commovente; non, però, una passione devastante, distruttiva. Non solo Rossini non lo spinge in primo piano come punto d’incontro dei conflitti drammatici, ma anzi a poco a poco lo decanta, lo fa per così dire planare dolcemente, nostalgicamente, sullo sfondo, come un pedale che perda di forza e di risonanza. Ciononostante esso non perde di significato, ma accresce, per converso, il rilievo e l’importanza assunti dallo sfondo corale che diviene, con impercettibile ma costante mutazione, primo piano, spazio e tempo della vicenda: celebrazione di un profondo capovolgimento d’ordine morale.

Rispetto al Guglielmo Tell (1804) di Schiller a cui si ispirò, l’opera di Rossini attenua l’incidenza dello sfondo storico (la Svizzera del Medioevo al tempo in cui i tre cantoni di Schwyz, Uri e Unterwalden imposero alla dominazione degli Asburgo la loro indipendenza) e accentua, sino a farne una sorta di emblema universale dove si annullano i destini individuali dei personaggi, il valore dell’idea della natura. Una natura intesa non solo come paesaggio miticamente romantico (i monti, i laghi, i boschi, i colori della Svizzera), ma soprattutto come universo incontaminato, radice della vita e luogo di armoniosa convivenza. La scintilla della rivolta non viene accesa da un astratto anelito alla libertà (che solo Tell sente e in cui Rossini non certissimamente credeva) ma dal fatto che proprio la natura, e l’armoniosa convivenza in essa (esplicitamente, ossia non genericamente, lo ricordano le feste, le danze e i cori di cui l’opera è costellata), vengano reiteratamente e ignobilmente violate dal tiranno. Ciò fa di quella scintilla un fuoco che, propagandosi, è ora chiaramente inteso come riconquista della libertà, un sentimento unico, cosmico, autenticamente universale, della fusione fra uomo e natura.

Solo un’esecuzione che rispetti questi tempi e que spazi dilatati rende giustizia agli immensi, estesi valori del Tell; e, si deve aggiungere, solo un’esecuzione che affidi l’orchestra il compito di descrivere, evocare, dipingere ma soprattutto di guidare drammaturgicamente il cammino dell’opera, risolvendo i contrasti drammatici all’incrocio dei destini dei personaggi, di un’idea poetica e un mondo spirituale. Così, da ultimo, la catarsi si compie senza tingersi d’orrore, ma con la stessa forza trasfigurante di un’antica, ineluttabile tragedia.

La tempesta che Tell placa è, ora lo possiamo comprendere, un tumulto del cuore è dell’animo; solo domandola, si stabilisce la quiete del giorno radioso: l’aria si fa più pura, appare l’arcobaleno, e di colpo l’ascensione estatica della musica ci trasporta nel regno della luce, verso gli orizzonti un’apoteosi, ove «tutto cangia». Qualcosa di simile, solo Mozart potè toccare nel giardino incantato del quarto atto delle Nozze di Figaro; di tal vertice Richard Wagner sognò tutta la vita, prima di lasciar naufragare e sprofondare nell’abisso, con il nostro destino quello di tutta la musica.

da “”Il Giornale””

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