Siena – Lo slogan scelto dal direttore artistico della Chigiana Luciano Alberti per lo spettacolo inaugurale della 48° Settimana Musicale Senese – Il ritorno di Ulisse in patria – era accattivante e promettente: «Il ritorno di Monteverdi in patria». Con questa parafrasi si voleva riaffermare l’esigenza di uno stile di canto italiano, fondato sulla incisiva chiarezza della parola e della recitazione, e di un’ambientazione scenica barocca in sintonia con il dramma. Per ottenere tutto ciò è essenziale poter disporre di cantanti padroni della lingua e addestrati nello stile, nonché di un direttore e di un regista con una sensibilità specifica, culturale e figurativa non meno che musicale, per il mondo di cui Monteverdi fu la più alta espressione.
Questo prometteva il ritorno di Monteverdi in patria. Un ritorno riuscito solo a metà. Ben risolto era l’aspetto scenografico, concepito da Alberti stesso con un prospetto classicheggiante di funzionale teatralità: una scala monumentale che occupava tutto il palco del Teatro dei Rinnovati e sfociava in alto in un fronte di architettura urbana – tempio, palazzo o chiesa – ornato da colonne. A mezza scala una piattaforma, ottenuta da un’interruzione della teoria degli scalini, evocava via via i luoghi dell’azione, facendone emergere e poi inghiottire da botole gli elementi stilizzati; per lasciare agli spazi circostanti le digressioni del prologo e gli interventi dei personaggi divini. Questo spazio scenico o, se si vuol ripetere la brutta parola, contenitore, aveva il merito di ricreare le suggestioni simboliche del teatro antico, con le sue macchinerie e mutazioni, e di ravvivarle con una misurata fantasia spettacolare e una regia elegante, sempre di Alberti, insieme rispettosa delle convenzioni e ironica sulle sue finzioni. Il filtro funzionava, e restituiva il tempo e lo spazio monteverdiano in stretta simbiosi con i nostri.
In altra direzione si muoveva però la musica, affidata ad uno degli specialisti più apprezzati nel suo campo, Alan Curtis, autore anche della revisione su manoscritto che ci è giunto con le sole indicazioni delle parti vocali e del basso continuo, senza realizzazione strumentale. Curtis è un seguace della filologia, e non dubitiamo che la sua realizzazione con strumenti d’epoca fosse da questo punto di vista attendibile. Ma all’atto pratico il risultato espressivo era inarticolato e monotono, piatto e uniforme il suono. La vera novità di Monteverdi sta proprio nella distinzione del colorito orchestrale, nella continua flessibilità del canto, dal recitativo all’arioso, e non da ultimo nelle sfaccettature delle parti e delle situazioni drammatiche, che per la prima volta nella storia del teatro toccano tutta la gamma degli affetti e degli stili. Ancor più occorreva dunque in una versione archeologica una vocalità estremamente differenziata, efficace nella dizione e qualificata nella tecnica: di voci solide, mature e con prerogative italiane. Ma a Siena la compagnia era al solito, giocoforza, assortita con criteri internazionali, disomogenea nelle intenzioni, oltre che nei mezzi. Eppure la Penelope di Gloria Banditelli dimostrava, assai più degli «specialisti» che la contornavano, che la via da seguire, ancor lunga da percorrere, è proprio quella del ritorno di Monteverdi in patria.
«II ritorno di Ulisse in patria» di Monteverdi a Siena (replica il 21 luglio)
da “”Il Giornale””