Valore della trascrizione (Wert der Bearbeitung) è il titolo di un saggio che Busoni scrisse nel novembre 1910 per illustrare un concerto diretto da Arthur Nikisch alla Filarmonica di Berlino (1). Nel programma figurava, suonata da lui stesso, la trascrizione di Busoni per pianoforte e orchestra della Rapsodia Spagnola di Liszt. Questa trascrizione risaliva a diciassette anni prima; nata dal desiderio di imitare i modelli di Liszt nel repentino e infocato entusiasmo per lui, essa aveva coinciso con un momento particolarmente delicato della vita di Busoni, quello in cui – egli scrive – «nel mio modo di suonare mi si fecero palesi tali lacune ed errori, che con decisione energica ripresi lo studio del pianoforte dall’inizio, e su basi completamente nuove». Giustamente, anche se non del tutto propriamente, nell’edizione italiana degli scritti di Busoni Fedele D’Amico colloca questo saggio nella sezione «sul pianoforte»: il pianoforte è lo strumento universale cui sono destinate le riflessioni e le operazioni di trascrizione secondo Busoni; benché qui il lavoro consista nell’aggiunta di una parte orchestrale (una «veste sinfonica», precisa Busoni) a quella pianistica e implichi osservazioni di carattere assai più generale sulla natura della trascrizione. Lo scopo del saggio è infatti duplice: da un lato illustrare i criteri seguiti in questo specifico lavoro, dall’altro ricavarne ragioni valide per giustificare e accreditare il genere della trascrizione in quanto tale, come principio compositivo e creativo. Dalla trattazione concreta di questi problemi pratici e realizzativi si passa così alla enunciazione di concetti prettamente estetici e artistici sull’essenza stessa della composizione e della interpretazione: che sono poi i concetti fondamentali sui quali si basa, nel complesso, la poetica musicale di Busoni nei molteplici settori della sua attività.
Il saggio in questione può essere suddiviso in tre parti. La prima e la terza sono omogenee fra loro e prendono spunto dalla trascrizione della Rapsodia Spagnola per dimostrare come, nella prassi, trascrivere sia un’operazione legittima. (A quel tempo la cosa non era affatto pacifica; e Busoni stesso dichiara di esser stato spinto a tentar di raggiungere la chiarezza su questo punto dalle frequenti opposizioni sollevate dalle sue «trascrizioni»). L’altra parte, inserita al centro del saggio con ardita modulazione ai toni lontani, s’innalza invece a definire il valore della trascrizione come qualcosa di assoluto e di indipendente. Non per nulla questa parte centrale è letteralmente ripresa dall’Abbozzo di una nuova estetica della musica e si riconnette perciò a un discorso più esteso, di carattere globalmente teorico ed estetico.
Legittimità e valore sono due concetti diversi, ma per Busoni l’uno è l’immagine speculare dell’altro. La stessa struttura del saggio, del resto tipicissima dell’asseverare busoniano, sta a provarlo: per Busoni la legittimità della trascrizione testimonia il suo valore, il valore in sé della trascrizione ne rafforza la legittimità. Nel passaggio da una parte all’altra, come in una specie di forma-sonata dell’argomentazione, avviene un continuo sviluppo dei temi e un salto di qualità sottolineato dalla stessa concentrazione di stile e di enfasi; cosicché la Ripresa, nella quale Busoni tira le fila del discorso ribadendo norme e scopi della sua trascrizione, ha la sicurezza e la scioltezza di una dimostrazione esemplare, e definitiva dal punto di vista sia pratico che teorico. In realtà, se noi andiamo a guardare più a fondo, alcuni passaggi interni mettono in risalto ombre e nodi critici assai delicati, tutt’altro che marginali ove si voglia cogliere il senso delle trascrizioni di Busoni e la sua personalità artistica.
Ma analizziamo più dappresso il nostro saggio. Prima parte: Esposizione. Primo tema: perché la trascrizione è legittima? Anzitutto perché occupa un posto autorevole ed eminentemente artistico nella produzione dei grandi musicisti. In quella di Bach e di Liszt, per esempio. Ponte modulante: essa occupa altresì un ruolo importante nella letteratura pianistica; i virtuosi suonavano soltanto opere proprie o trascritte da loro accomodandole alla propria sensibilità e alla propria tecnica; dunque «le trascrizioni nel senso virtuosistico sono un accomodamento di idee altrui alla personalità dell’esecutore» (il corsivo è di Busoni). Secondo tema: la trascrizione è insita nel concetto stesso di composizione; è difficile stabilire dove cominci la trascrizione, tanto se la trascrizione prende come punto di partenza motivi proprii, quanto se ne prende di altrui; la Rapsodia Spagnola esiste in due differenti versioni di Liszt stesso e i suoi motivi rimandano al folclore spagnolo, a Mozart, a Gluck (ma si ricollegano anche a Corelli, Glinka e Mahler, si aggiungerà poi). Quale è l’originale e quale la trascrizione?, si chiede Busoni. L’Esposizione ha anche due temi secondari, introdotti in sordina ma ampiamente ripresi nello Sviluppo: «una musica buona, grande, ‘universale’, resta la stessa qualunque sia il mezzo attraverso cui si faccia sentire» (il corsivo è di Busoni). Ma, si soggiunge, «mezzi diversi hanno un linguaggio diverso (loro peculiare) col quale comunicano questa musica in modo sempre un po’ differente».
Seconda parte: Sviluppo. La trascrizione è un valore. Tutto in musica trascrizione; la creazione stessa è trascrizione: e la trascrizione propriamente detta un caso particolare di quella. Citiamo per esteso Busoni:
[ … ] Ogni notazione è già trascrizione di un’idea astratta. Nel momento in cui la penna se ne impadronisce il pensiero perde la sua forma originale. L’intenzione di fissare l’idea con la scrittura impone già la scelta di un ritmo e di una tonalità. Forma e mezzo sonoro che il compositore deve scegliere determinano sempre più la strada e i suoi confini. Per quanto dell’indistruttibile carattere originario dell’idea qualcosa permanga, tuttavia a partire dal momento della scelta questo carattere viene ridotto e costretto a un tipo già classificato. L’idea diventa una sonata, un concerto; e questo è già un adattamento dell’originale. Da questa prima alla seconda trascrizione il passo è relativamente breve e senza importanza. Pure, in generale, si fa un gran caso solo della seconda. E nel far ciò non si avverte che la trascrizione non distrugge la versione originale, e che quindi non si perde questa per colpa di quella.
Anche l’esecuzione di un lavoro è una trascrizione, e anche questa non potrà mai far sì che l’originale non esista – per quanto libera ne sia l’esecuzione.
Perché l’opera d’arte musicale sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. È insieme dentro e fuori del tempo.
Terza parte: Ripresa. Ritorna, in maggiore, il tema della legittimità garantita dall’autorità dei grandi: anche Beethoven, anche Schumann trascrivevano quando componevano. Ponte modulante: la forma della variazione è essa stessa una specie della trascrizione. Secondo tema: la trascrizione della Rapsodia Spagnola, assommando e fondendo tutti questi diversi ca. ratteri, aggiunge ai precedenti un nuovo nome, quello di Busoni, e lega ur nuovo anello alla catena delle trasformazioni. Si riaffaccia qui, ma «in minore», un motivo centrale dello Sviluppo: «Il fatto è che gli uomini non possono creare; possono solo elaborare quanto già esiste sulla terra» Questo inatteso, ombroso ripiegamento è però solo un trampolino di lancie per la perorazione della stretta finale, che suona quasi trionfale: « Nor esistono regole; certo però modelli e – in generale – molta, troppa routine! »
Questa analisi del saggio di Busoni Valore della trascrizione vuole met tere in risalto il carattere di organicità e di compiutezza della sua dimostra zione, formalmente condotta secondo gli schemi classici dell’Esposizione dello Sviluppo e della Ripresa. Potremmo anche individuare facilmente in essa alcuni presupposti del concetto di «Nuova Classicità», lanciato da Busoni con estrema chiarezza solo alla fine degli Anni Dieci. La coerenza formale è in altri termini ferrea; ma, una volta identificato lo schema, proviamo a domandarci: che cosa ci dice in sostanza Busoni? Due cose, al quanto distinte.
Punto primo. La legittimità della trascrizione è testimoniata dai fatti e avvalorata dalla sua appartenenza alla sfera della composizione, o meglio alla storia stessa della composizione. Storicamente, il discredito e la decadenza del genere sono imputabili soltanto alla inadeguatezza di certe mediocri trascrizioni: sono dunque, come per tutta la musica, una questione di gusto e di originalità. Questo primo aspetto (il modello e l’autorità dei grandi musicisti) è ricollegabile nella prassi della trascrizione a quell’idea di continuità, di perfezionamento e di raffinamento che guida i lavori stessi di Busoni: tesi alla piena, illimitata realizzazione del pensiero musicale in virtù dello sfruttamento dei mezzi attuali, ovvero delle risorse più complete di cui ogni epoca dispone per concretizzare le proprie esigenze espressive in uno stile personale. Per Busoni questo ruolo è assunto dal moderno pianoforte, che grazie all’arte della trascrizione si è impossessato di tutta intera la letteratura musicale. Busoni, insomma, rivendica il riconoscimento di uno stato di fatto e di diritto: comporre significa essenzialmente trascrivere, la trascrizione si è sempre fatta, dunque è buona. Che poi esistano trascrizioni mediocri, come esiste musica cattiva, è un altro discorso.
Punto secondo. Ogni creazione è essa stessa trascrizione: trascrizione di un’idea astratta, di un pensiero musicale assoluto che esiste da sempre intero e immutabile, insieme dentro e fuori del tempo, inafferrabile dal musicista nella sua totalità. Quando il musicista crea fissando l’idea con la scrittura, in realtà trascrive; o meglio rielabora quanto già esiste sulla terra, qualcosa quindi di ridotto e di già classificato, come suoni, ritmi, tonalità, forme e strumenti. Se creare significa trascrivere, il carattere originario dell’idea darà di sé un’immagine parziale e limitata, pallida e incompiuta, all’atto stesso della creazione: in conclusione, la creazione non esiste, e Busoni lo riconosce apertamente quando dichiara «gli uomini non possono creare; possono solo rielaborare». Siamo qui, ci pare, su una posizione di desolante pessimismo: quasi alla denuncia dell’impotenza dell’arte in quanto tale, alla negazione dell’arte, come avrà buon gioco di sottolineare con le sue chiose acuminate Hans Pfitzner. Ma Busoni non l’intende affatto a questo modo. Il suo ragionamento è in un certo senso ancora più sottile.
Facciamo un passo indietro. Il titolo del saggio in tedesco è Wert der Bearbeitung. La ricchezza specifica della lingua tedesca è in questo caso determinante per ciò che Busoni vuole esprimere. Ciò che noi traduciamo abitualmente «trascrizione» significa alla lettera e nella sostanza «elaborazione». Busoni intende dunque affermare il «valore della elaborazione»: ossia, in primo luogo, il valore delle proprie trascrizioni. E lo riferisce al fatto che l’opera del compositore consiste nella elaborazione del già esistente, non nella creazione del nuovo, che è cosa impossibile: giacché appena si pensa a un tema, o esso è già esistito – e Liszt ricorda Mozart, Mozart riprende Gluck, eccetera – oppure esiste in assoluto – e allora anche Busoni non fa che tradurlo e adattarlo nel modo più adeguato possibile, ma pur sempre inadeguato rispetto all’originale. Busoni non chiarisce se questo fatto sia la conseguenza di una situazione storica – quella di lui stesso nel contesto della sua epoca e della musica del suo tempo – ovvero sia una condizione eterna del compositore, del musicista creatore. Altrove è però più preciso e sembra ammettere solo due eccezioni: Bach e Mozart. Loro sono stati i soli veri creatori; gli altri – e l’Ottocento in particolare come epoca della storia della musica – appartengono alla schiera degli elaboratori, compresi grandi innovatori come Beethoven, Schumann e Liszt.
Riprendiamo il filo del ragionamento. L’elaborazione, o se si vuole la trascrizione, di che è costituita, è elaborazione di che cosa? «L’opera d’arte musicale» – scrive Busoni – «sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare»; segmento di una catena infinita (e dunque ogni segmento arricchirà la catena, senza però mai esaurirla), essa è un pieno che sottintende un vuoto da colmare – la lontananza del-l’originale e del suo adattamento –, è una realtà eterna che il musicista non può cogliere e trasmettere interamente, ma soltanto a piccoli pezzi: cercando, integrando e perfezionando le parti, di ricostituire l’unità totale, la pienezza primigenia. E ciò rende non soltanto legittima ma addirittura necessaria la trascrizione, elevata e meravigliosa l’opera del musicista, continua la sua sfida. Ecco il senso della missione dell’artista, la consapevolezza della sua forza e della sua necessità, positiva e costruttiva, in continuo progresso.
Poco prima Busoni aveva fatto però un’altra affermazione, parlando dell’idea astratta di cui la notazione è trascrizione. Leggiamo attentamente in tedesco: «Jede Notation ist schon Transkription eines abstrakten Einfalls». Busoni non usa qui il termine «Bearbeitung», bensì «Transkription». La sfumatura è finissima, e si perde nella traduzione italiana. Cioè la notazione («Skription»), che è l’atto primario della creazione, è trascrizione («Transkription»), non elaborazione («Bearbeitung»): essa fissa l’idea con la scrittura, non la elabora; la coglie, non la trasforma. Ora, questa idea astratta è, in musica, l’idea, il motivo originario: che il compositore fissa, trascrive e poi elabora. Ma quest’idea originaria – si scusi l’inevitabile gioco di parole – non è affatto trascritta, bensì scritta per così dire sotto dettatura («aufgeschrieben», dice Busoni), intuita e fissata sulla carta: in quel momento appare come per improvvisa illuminazione, si incarna e dà inizio al processo eterno, infinito delle sue elaborazioni. Semplificando, si potrebbe dire romanticamente che essa è un’ispirazione. È evidente che qui Busoni non parla più affatto della prassi della trascrizione, bensì dell’attimo fuggente della creazione, qualcosa che lo riguarda in quanto creatore, non come trascrittore-elaboratore. Egli nega che quest’atto primario sia sottoposto a un processo di elaborazione e, più ancora, che sia attingibile per via razionale; giacché proviene da un’illuminazione, da un’intuizione di tipo mistico. Nell’epilogo della Nuova Estetica, intitolato Il regno della musica, Busoni proverà a descrivere quest’intuizione d’un mondo trascendente perennemente creativo, «sino al fondo d’ogni fondo», proiettato in lontananza «sin all’arco d’ogni vòlta dei cieli»? Qui non ci dice di più, come non ci dice quale nesso intercorra tra l’idea originaria e la sua elaborazione.
Per trovare questo nesso bisogna cercare altrove. È significativo che in una lettera alla moglie datata «Berlino, 22 luglio 1913» Busoni faccia precedere nuove osservazioni sulla «trascrizione» dal tentativo abbozzato di una definizione della melodia (3).
Melodia assoluta: una serie di interventi ripetuti, in movimento ascendente e discendente, articolati e mossi ritmicamente, che contiene in sé un’armonia allo stato latente, e interpreta uno stato d’animo, che può esistere indipendentemente dal testo come espressione, e indipendentemente dall’accompagnamento come forma, e la cui essenza non viene affatto modificata dalla tonalità o dallo strumento scelto per l’esecuzione.
Questa descrizione della «melodia assoluta» è la rappresentazione del concetto di idea originaria in musica: la trascrizione dell’idea astratta, assoluta, prima della elaborazione. Il fatto che in questa lettera i due concetti figurino strettamente uniti, quasi complementari l’uno all’altro, ce ne chiarisce il nesso: la melodia assoluta è l’individuazione dell’idea originaria intuita e fissata attraverso la notazione; la trascrizione non fa che elaborarla e realizzarla nelle sue infinite possibilità di trasformazione, senza mai distruggere la versione originale. È questo che Busoni intende quando afferma che l’opera d’arte musicale è insieme dentro e fuori del tempo; e che «ogni pezzo pianistico di carattere significativo è la riduzione di un pensiero più grande per uno strumento pratico» (4).
È lecito a questo punto avanzare una conclusione. Le trascrizioni di Busoni sono sì un mezzo per rendere esplicito al massimo grado ciò che nella composizione è implicito, per distendere pianisticamente ciò che la sostanza musicale virtualmente contiene, per progredire sulla via già tracciata facendo emergere nuove relazioni, nuove proprietà, nuove possibilità tecniche ed espressive; ma sono anche modi di restringere e di concentrare, attraverso l’elaborazione, il raggio della ricerca oltre l’attualità verso la fonte prima, il segreto dell’idea originaria. Gli apici delle trascrizioni di Busoni sono quelli nei quali dal fitto intrìco dell’elaborazione si liberano concise espressioni melodiche, quasi prototipi di melodie assolute; ed è in questi momenti che avviene la saldatura fra il trascrittore e il compositore originale, cui Busoni costantemente tende. Capire l’essenza musicale dell’idea originaria, quella che, come in Bach, sprigiona l’intera architettura ritmico-contrappuntistica da pochi elementi assoluti, o quella che, come in Mozart, racchiude nel tema il seme di ogni sviluppo, di ogni organica elaborazione; come capirla e afferrarla lui, non quale trascrittore, ma quale realizzatore dell’agente primo, del pensiero più grande, dell’intuitiva e completa «melodia assoluta»: questo è l’enigmatico interrogativo che accompagna la vita di Busoni creatore. Autobiograficamente, sarà Faust che muore cercando e non trovando, musicalmente parlando, le parole.
Busoni sapeva di essere un grande, grandioso, unico trascrittore; ma dubitava di sé quando insinuava che gli uomini non possono creare, ma solo elaborare. A questo punto non importa appurare se il dubbio fosse originato dall’esser costretti a vivere in un’epoca irrequieta e vacillante («Triste destino è perciò vivere in tempi confusi, non chiaramente delineati e fluttuanti; i creatori condannati a caderci dentro ne risentono» (5)), oppure provenisse dal presagio inconscio di una drammatica impotenza. Se tutto in musica prende vita dalla realizzazione dell’idea originaria, del pensiero astratto che viene trascritto ed elaborato, l’elaborazione senza idea originaria non è nulla, è una costruzione senza fondamenta, un fragile ponte sopra un abisso smisurato. E anche il valore della trascrizione è un ben misero valore. È appunto ciò che distingue un trascrittore da un creatore.
È probabile che Busoni sentisse la contraddittorietà di questa condizione e volesse cercare di giustificarla affermando il valore della trascrizione come creazione. Ma questa è soltanto una mezza verità. Giacché Busoni rimane un creatore incompiuto, un compositore che raramente si lascia cogliere in un’idea originaria e assoluta: un elaboratore sommo, appunto, ma non un «vero» creatore. Nella sua opera di tutta una vita, Doktor Faust, il tema della creazione diviene soggetto drammatico in un estremo tentativo di sintesi artistica: l’opera, costruita come un mosaico di trascrizioni, si arresta di fronte alla notazione di un’idea astratta e assoluta, certo una melodia, che dovrebbe materializzare l’apparizione di Elena, «pura immagine d’immensa bellezza». In quel frangente estremo Busoni sa di non poter mentire e, solo di fronte a se stesso, si ritrae.
Nelle trascrizioni di Busoni serpeggia continuamente un’inquietudine che ne accresce la tensione e si protende verso qualcosa che sta al di là dell’elaborazione suprema e della ricerca dei mezzi necessari all’espressione: l’ideale della creazione pura e originale. In alcuni momenti, questa tensione si placa: nel quinto tema aggiunto a quelli bachiani nella Fantasia contrappuntistica, per esempio, o nella rielaborazione del Finale delle Variazioni Goldberg, o nelle cadenze per i concerti di Mozart. Qui Busoni si appoggia ai grandi, li trascrive e li elabora, e, così facendo, riconosce se stesso e compie l’opera. In questo senso, per lui, la trascrizione è davvero un valore: e l’elaborazione di questo valore coincide con il riconoscimento di un alto pregio.
Esso è: Bearbeitung des Wertes.
NOTE
(1) Questo saggio si trova in Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di Fedele D’Amico, Milano, Il Saggiatore 1977, pp. 217-220. Tutte le citazioni si riferiscono a questo saggio salvo diversa indicazione.
(2) F. Busoni, Abbozzo di una nuova estetica della musica, in Lo sguardo lieto cit., p. 72.
(3) F. Busoni, Lettere alla moglie, Milano, Ricordi 1955, p. 220.
(4) Ibid.
(5) F. Busoni, Sui tempi che corrono, in Lo sguardo lieto cit., p. 142.
Sergio Sablich – «Valore della trascrizione», Firenze, Leo S. Olschki editore, 1987.
Estratto dal volume: La trascrizione Bach e Busoni, Atti del Convegno internazionale (Empoli-Firenze, 23-26 ottobre 1985), a cura di Talia Pecker Berio.