La prima volta che l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai sbarcò a Tokyo, con loro viaggiava Sergio Sablich che ne era non solo direttore artistico, visto che aveva saputo esserne una sorta di autentico padre: creatore e animatore. Eppure alla prima prova lui non c’era. Aveva “”dovuto”” correre in una libreria-galleria cittadina perché leggendo un quotidiano internazionale, appena arrivato in albergo, aveva scoperto che lì veniva presentato un nuovo libro su Ingmar Bergman, uno dei punti fermi della sua vita scandita da predilezioni devastanti. Non poteva mancare. Quando ricomparve con la sua tipica espressione compiaciuta – una via di mezzo tra l’espressione gongolante del bambino che ha appena combinato una marachella (divertente e facile a perdonare) e l’uomo gioiosamente soddisfatto nell’animo – nessuno ebbe cuore di rimproverarlo. Sergio era (anche) così.
Per chi non l’ha avuto come amico o collega, Sergio Sablich era lo studioso, il critico, l’insegnante – al Conservatorio ché il mondo universitario, colpevolmente, anni fa vi rinunciò: solo allo IULM milanese e l’anno scorso a Parma gli sono stati conferiti degli incarichi – l’organizzatore musicale di rara personalità e competenza. Chi lo capì, e gli diede quella fiducia piena e complicità personale – oltre che culturale – di cui aveva bisogno, gode ancora i frutti del suo lavoro. Gli anni come responsabile del Centro Studi Musicali di Empoli furono la logica continuazione operativa dell’interesse per Busoni (oggetto della tesi di laurea all’Università di Firenze, e poi titolo dell’omonimo volume Edt, unico nel panorama non solo italiano), quelli come giornalista e critico musicale – nella militanza quotidiana alla “”Nazione””, al “”Giornale”” e alla “”Voce””, in quella su “”Musica Viva””, sul “”Giornale della Musica”” e altre testate, oltre che alla radio – sono (stati) il filo segreto per capire il profilo d’uno studioso non appartato né geloso, che amava e inseguiva dovunque la musica vissuta e i suoi protagonisti principali, sapendo evocare il valore intrinseco delle partiture e la loro vitalità presente. Non a caso, i suoi testi-programma di sala sono un esempio perfetto di come si possa, con brillante scrittura e prodigalità culturale, coniugare sapiente familiarità con la materia, vocazione alla ricerca e fiducia nel ruolo etico del divulgatore alto di cose non solo musicali.
La fase operativa, al Comunale di Firenze, all’Orchestra Rai, poi all’Opera di Roma, a Pisa per il Festival di musica sacra Anima Mundi, all’Orchestra Regionale Toscana e infine alla Scala – l’opportunità più rozzamente negata – hanno dimostrato che l’uomo di lettere e studio aveva l’onestà intellettuale e la perizia, maturata negli anni di apprendistato a Monaco di Baviera e nell’assidua frequentazione diretta dei fatti musicali, per essere anche uomo di responsabilità. Capace di (ri)creare un organismo sinfonico di respiro e stoffa internazionale partendo dalla concretezza (la scelta e la verifica quotidiana dei musicisti) ma vincolandola alla bellezza sovente ardita (come l’idea del Ring in forma di concerto affidato a Eliahu Inbal) e abitualmente importante delle programmazioni.
Il medesimo atto d’amore per la realtà della musica rischiarava la profondità critica e storica dei suoi libri. Attraverso le pagine di Sablich il pubblico e gli addetti ai lavori hanno scoperto con Ferruccio Busoni (1982) la sua attenzione non episodica per la creatività musicale del Novecento, concretizzata poi negli studi su Goffredo Petrassi (1994) e Luigi Dallapiccola (1996 e nell’ampia monografia del 2004). Altrove è stata dichiarata la sua devozione e stima per Wolfgang Sawallisch (1989) tramite l’amore e la profonda conoscenza del mondo di Richard Strauss (1991), Wagner (Il libro bruno, 1992) e di Schubert, raccontata in una biografia critica (L’altro Schubert, 2002) destinata a ribaltare molti luoghi comuni.
Sablich poteva trascinarti sulla tomba di Karajan (o di re Ludwig) o proporti una scarpinata verso un rifugio dell’Alto Adige (nelle tre-quattro ore libere tra prova generale e concerto), lasciarti in ostaggio a casa una valigia di libri e/o cataloghi non trasportabili visto che l’immediata meta era Stoccolma, lo stadio, la Scala, l’anteprima di una mostra o un irrinunciabile avvenimento chissà dove. Difficile non invidiare, cioè ammirare, le passioni di Sergio Sablich prima ancora di condividerle. Non solo per il soggetto ma per la follia in sé: passioni di alto profilo, diverse ma miracolosamente compatibili, a volte ossessive ma prive di morbosità e feticismi, gelosamente alimentate ma spartite tra gli amici. No, non è stata banale la vita di Sablich (Bolzano, 7 luglio 1951 – Firenze, 7 marzo 2005), proprio come non erano ordinari gli affetti, le amicizie, i gusti e le aspirazioni. Non era banale l’uomo.
SISTEMA MUSICA, MAGGIO 2005