Sergej Prokofiev – L’amore delle tre melarance

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Sergej Prokofiev – L’amore delle tre melarance

L’Amore delle tre melarance, terza opera teatrale di Sergej Prokofiev, fu presentata la prima volta a Chicago, il 30 dicembre 1921. Prokofiev, allora trentenne, si trovava in America da poco piú di tre anni, da quando cioè, lui russo e in Russia già affermato, aveva preso la decisione di lasciare temporaneamente la patria per viaggiare e cercare fortuna, sia come pianista sia come compositore, anche all’estero. Tale decisione era maturata all’indomani dello scoppio della Rivoluzione d’ottobre, nei momenti carichi di inquietudine e di incertezza circa l’esito e la reale portata della grande rivolta. Prokofiev non le era contrario, tutt’altro; solo che come artista sentiva il bisogno, secondo le sue stesse parole, di «respirare una boccata d’aria fresca… l’aria naturale del mare e degli oceani». Lunaciarskij, Commissario del popolo per gli Esteri, da cui dunque dipendeva l’accoglimento o meno dell’istanza di espatrio, dette in tale frangente al compositore una risposta rimasta famosa, fedelmente riportata da Prokofiev nella sua Autobiografia: «Lei è un rivoluzionario nella musica, noi siamo rivoluzionari nella vita: il nostro destino naturale sarebbe di lavorare insieme. Ma se Lei vuole andare in America io non lo impedirò». Vero è che, a Lunaciarskij, Prokofiev era stato raccomandato addirittura da Gorkij e Alexandre Benois; ma continua Prokofiev commentando: «Cosí persi l’occasione di partecipare alla vita della nuova Russia dalla sua nascita. Ricevetti un passaporto per viaggi all’estero corredato dalla dichiarazione che partivo per una missione artistica e per ragioni di salute, senza limitazioni circa la durata. Inutilmente un saggio amico mi ammoni: ‘State fuggendo la storia, e la storia non ve lo perdonerà mai!’. Senza farvi alcun caso il 7 maggio 1918 partii con l’intenzione di ritornare entro pochi mesi».

Non fu cosí. Giunto nel settembre a New York dopo breve ma lusinghiero giro concertistico in Giappone, dovette accorgersi subito che, al di là degli oceani, l’aria non era poi cosí fresca come se l’era immaginata. In lui convivevano, come in alcuni altri grandi musicisti delle precedenti generazioni (Liszt, Mahler, Busoni) due anime distinte per quanto complementari: il virtuoso e il compositore. E se il pianista era unanimemente o quasi esaltato, il compositore rimaneva nell’ombra, accolto con freddezza quando non propriamente stroncato. Prokofiev, in arte, non era affatto il rivoluzionario che pensava, o fingeva, Lunaciarskij: ma certo il suo carattere di profondo innovatore pur operante nel solco della tradizione, di inquieto quanto spregiudicato fautore del nuovo e del moderno, la sua strepitosa natura musicale avversa a tutto ciò che puzzava di routine, non potevano coincidere né adattarsi ai gusti dell’America sulla soglia degli anni Venti. Solo a Chicago, dopo due concerti in dicembre con la locale orchestra sinfonica diretta da Frederick Stock, in cui era inclusa fra l’altro la sua Suite Scita, a Prokofiev sembrò di poter scorgere il raggio di una pallida speranza. Era allora direttore dell’Opera di Chicago un illustre direttore d’orchestra italiano, quel Cleofonte Campanini parmigiano purosangue (vi era nato nel 1860) che aveva fra l’altro legato il suo nome al battesimo sulle scene di Adriana Lecouvreur e Madama Butterfly. Possiamo immaginare la gioia del depresso Prokofiev nel trovare un tale interlocutore, uno che capiva e amava la musica senza preventive esclusioni: gioia ed entusiasmo che debbono essere stati tanti e tali da spingerlo a mostrare a Campanini lo spartito della sua opera Il Giocatore, portato con sé dalla Russia. Campanini non solo ne rimase affascinato, ma volle addirittura metterla in scena. Purtroppo si rivelò subito impossibile far giungere dalla Russia la partitura d’orchestra; fu allora che Prokofiev, con quella sicurezza di sé che cosí tipicamente lo distingueva, e che come vedremo non conosceva accomodamenti di nessun genere, fece la proposta di scrivere una nuova opera, il cui soggetto già viveva e operava in lui: l’Amore delle tre melarance, il testo gozziano che in una nuova versione il famoso regista Mejerchold gli aveva caldamente raccomandato prima della sua partenza dalla Russia. Sembra davvero di raccontare una favola, come quella che sta alla base della nostra opera: entusiasmo di Campanini, rapidi e soddisfacenti accordi, il contratto prontamente sottoscritto con uno stipendio pattuito affinché Prokofiev potesse attendere al lavoro di compositore senza preoccupazioni economiche, e con il reciproco impegno che la nuova opera fosse pronta il 1 ottobre 1919 e l’Opera di Chicago la rappresentasse, sotto la direzione di Campanini, nella stagione 1919/20.

Ma la « favola » parve a un certo punto non essere destinata al rituale lieto fine: non tanto per il terribile attacco di scarlattina e di difterite di cui Prokofiev soffrì nel marzo 1919, ché la composizione fu ultimata nel giugno e la strumentazione intrapresa durante l’estate, per cui la partitura fu pronta alla data convenuta, quanto per la morte, avvenuta il 19 dicembre a prove già iniziate, di Campanini, che costrinse la direzione ad annullare l’impegno e a rimandarlo alla stagione successiva. Prokofiev, poi, complicò le cose pretendendo che gli fosse concesso un indennizzo per il danno subito, pena il ritiro definitivo del suo lavoro: rifiuto del teatro, e definitiva soppressione dell’opera anche dal cartellone ’20/ ’21. Lo scioglimento della intricata vicenda si ebbe soltanto un anno dopo, con la nomina alla successione di Campanini di Mary Garden (1877-1967), la grande cantante scozzese prima interprete di Melisande nel debussyano Pelléas, che fu davvero per Prokofiev la magica fata della favola: avvezza da anni a battersi in prima persona in favore della musica moderna, la Garden firmò con Prokofiev un nuovo contratto, così che l’opera poté finalmente andare in scena sullo scorcio del 1921, il 30 dicembre come detto, sotto la direzione dell’Autore. Fu un successo: e anche il pubblico di New York, dove l’opera fu portata dalla stessa compagnia nel febbraio dell’anno successivo, dovette accorgersi dell’originalità di quel compositore prima accolto con tanta indifferenza, mentre i critici continuarono a deriderlo grossolanamente (e ci fu anche chi parlò di «musica bolscevica», di «jazz russo» e di «carenza nello sviluppo melodico»!). L’opera, che oggi a Firenze viene rappresentata per la prima volta, l’Europa la conobbe nel 1925 (14 marzo, Colonia), la Russia nel 1926 (18 febbraio, Leningrado, in una apposita versione in russo), l’Italia, col solito deplorevole ritardo (in seguito per la verità compensato da frequenti riprese), appena dopo la guerra, alla Scala di Milano, il 30 dicembre 1947: erano per l’appunto trascorsi esattamente ventisei anni dalla prima apparizione americana.

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Nell’intestazione della partitura si legge, dopo il titolo, in francese (lingua in cui l’opera fu data a Chicago) l’indicazione «Opéra en quatres actes avec prologue d’après Carlo Gozzi». Ma Gozzi, nella concezione prokofieviana, è soltanto il pretesto, lo sfondo, di una azione scenico-spettacolare che si dilata a raggiera in molteplici direzioni,sorretta e vivificata dalla musica di cui, piú che rivestita, è essenzialmente sostanziata. Carlo Gozzi. nell’esordire come anonimo commediografo sulle scene veneziane del San Samuele il 25 gennaio 1761 affidando alla rinomata compagnia Sacchi una commedia dell’arte vecchio tipo, mescolata con gli incantesimi di una favola antica (la cui fonte prima era in origine un racconto in dialetto napoletano del secentesco G.B. Basile, La fiaba dei tre cedri inclusa nella sua famosa raccolta di 50 fiabe popolari intitolata Lo cunto de li cunti), intendeva compiere anzitutto un atto di irrisione divertita e di sfida contro il gusto moderno in auge nel suo tempo, ponendosi deliberatamente al di sopra della querelle Goldoni-Chiari che in quegli anni infiammava le passioni degli ambienti teatrali veneziani. La sua infatti era una commedia senza copione, di cui era steso solo lo « scenario (cioè un canovaccio dalla rappresentazione con qua e là qualche battuta), appunto come accadeva nella vecchia commedia a soggetto; guidavano i personaggi le vecchie maschere di Truffaldino (cioè Arlecchino), Pantalone, Tartaglia e Smeraldina, liberamente reinserite nella favola antica dei tre cedri che qui invece diventavano melarance. Ma non solo: a evidenziare gli strali satirici e polemici, Gozzi inventò la formula bizzarra dell’«Analisi riflessiva», una specie quasi di sua recensione o rendiconto dello spettacolo, raccontato in prima persona e interpolato continuamente da commenti, spiegazioni delle allegorie, notizie sulle reazioni del pubblico. Il quale pubblico dovette indubbiamente divertirsi un mondo nel vedere addirittura rappresentati, allegoricamente ma chiaramente riconoscibili, il Goldoni e il Chiari nelle figure dei maghi protettori delle due parti in lizza (il Goldoni come mago Celio e il Chiari come fata Morgana), nell’atto di sfidarsi a suon di versi martelliani; vi si immaginava poi una congiura di palazzo intrapresa da Clarice, nipote del Re, coll’aiuto del perfido ministro Leandro, che facesse da controspinta alla trama principale imperniata sulle vicende del principe inguaribilmente ipocondriaco che si innamora delle tre melarance e ne ha in sorte, dopo peripezie inaudite e magici colpi di scena, la sposa desiderata.

Al di là di ogni implicazione polemica e satirica, di ogni allusione velata e non (destinate le une e le altre a perdersi e a divenire inessenziali al di fuori del contesto in cui erano nate), la commedia di Gozzi rappresenta l’apoteosi di un gusto tutto personale per la teatralità allo stato puro, ovvero della volontà inconsciamente nostalgica di vedere il teatro come luogo di annullamento, non di partecipazione. Perché cos’è il teatro per Gozzi? Gioco disimpegnato che rinnega ogni pretesa letteraria, vitalità scatenata sul palcoscenico, gesto, azione, movimento contro la fissità della parola; scomposizione e ricomposizione degli elementi fantastici, ma anche meccanici e scenici che guidano lo svolgersi degli accadimenti, al di fuori di ogni logica e di ogni realismo: fiaba, appunto, che, nel misterioso legame che unisce il palcoscenico alla platea, piú che incidere sulla coscienza, liberi e sprigioni la fantasia.

Non può meravigliare dunque che il nome di Gozzi si ritrovi presente nel dibattito culturale e artistico promosso dalle avanguardie teatrali russe nella Mosca del primo quarto del nostro secolo. Accanto a Stanislavskij, Davcenko e Vachtangov, Vsevolod Mejerchold, geniale regista e teorico, combatteva strenuamente la battaglia rivoluzionaria in nome di un nuovo teatro che abbattesse le barriere del teatro tradizionale, ossia psicologico e naturalistico. L’estro della fantasia creatrice, ora sottomessa a rigorosi criteri di coerenza nella ricerca sperimentale sul linguaggio, si scavava una strada che avrebbe portato a! rinnovamento della scena e delle convenzioni teatrali. Gozzi era una pedina che si prestava ottimamente a una utilizzazione in questo senso: non lo aveva forse parafrasato Mejerchold dicendo che « le parole sono in teatro solo un arabesco sul canovaccio dei movimenti »?

Nel 1914, fondando una nuova rivista teatrale, Mejerchold le aveva dato per titolo quello della commedia di Gozzi, l’Amore delle tre melarance. Nel primo numero vi appariva la fiaba gozziana nella traduzione di Mejerchold, celato sotto lo pseudonimo hoffmanniano di Dottor Dappertutto:e quel numero e quella fiaba Prokofiev si portò dietro lasciando la Russia per l’America, col segreto sogno di poterla un giorno musicare.

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Una scelta siffatta e la convinzione di poter riuscire a cavare un’opera «d’après Gozzi» si basavano sulla perfetta aderenza di quel testo alle convinzioni di Prokofiev circa ciò che ha da essere un libretto d’opera e, piú in generale, l’opera stessa. Del suo mondo, fin da ragazzo, Prokofiev aveva subito prepotentemente il fascino, quando vi si perdeva a fantasticare e intanto esercitava il suo talento precoce contro l’arida educazione accademica che stava ricevendo: «sognavo di comporre delle opere con delle marce, delle tempeste, delle scene terrificanti, e invece mi volevano insegnare delle regole». Simile per molti aspetti a quello di Busoni, il rifiuto di Prokofiev nei confronti dell’opera tradizionale, di quella romantica prima di tutto ma anche di quella russa (Rimskij Korsakov ed epigoni), lo aveva in seguito allontanato dall’agire in quel mondo. Ma non al punto che il tarlo dell’opera non lo rodesse e aprisse delle crepe che non attendevano altro, per scoppiare, che un testo acconcio. Aveva creduto dapprima di trovarlo in Dostoevskij, e ne era sortito Il Giocatore (1915-16); ora grazie a Mejerchold aveva avuto una diversa illuminazione.

Prokofiev vedeva il problema dell’opera tutto dalla parte della musica, su questo non si insisterà mai abbastanza. Anche il rapporto dialettico con la parola e l’azione, che è proprio dell’opera, valeva per lui solo come pretesto per implicare la musica. «Per lui il libretto era un insieme di situazioni (diciamo pure, di marce, di tempeste, di scene terrificanti) messe giú alla brava, col compito di suggerirgli una specie di grafico di forze in moto, le direzioni di una certa dinamica vitale che sarebbe stato affar suo, cioè della musica, scatenare e definire; ma di slancio, senza attardarsi a discutere i particolari» (D’Amico). Semplice e complesso nello stesso tempo, il libretto doveva contenere dunque puri fatti e accadimenti teatrali, come fosse uno scheletro da rivestire con la polpa della musica (e i nervi saranno il ritmo), al di là delle stesse forme esterne riconoscibili, anch’esse ridotte a mere funzioni teatrali. Insomma, il linguaggio drammaturgico esisteva solo in quanto ricreato dalla musica.

In un contesto di palmare rifiuto dell’intellettualismo, della poetica del rispecchiamento e della riflessione sul teatro, che si originava dal rigetto della mentalità culturale e del culto per le « problematiche » (ecco ciò che lo aveva bruscamente allontanato da Diaghilew, e che in fondo lo separava anche da Mejerchold), Prokofiev poteva trovare in Gozzi l’occasione che cercava per sprigionare attraverso la musica la sua gioia di creare e piú semplicemente di vivere. Gozzi, appunto: delle cui strutture teatrali e dei cui contenuti tra fiabesco, umoristico e satirico Prokofiev aveva perfettamente compreso la capacità di funzionare come campo d’azione e reazione per la musica: « L’aspetto teatrale specialmente mi impressionava. Erano per se stessi una novità i tre diversi piani sui quali l’azione si sviluppa: 1) il momento della favola (il Principe, Truffaldino, eccetera) ; 2) le oscure forze del mondo sotterraneo (lo stregone Celio, Fata Morgana…) ; 3) i caratteri dei comici, rappresentanti di quelle forze che guidano ogni cosa, che ogni cosa completano». Ma nello stesso tempo un Gozzi privato dei suoi contenuti originali e della sua individualità, avvicinato distrattamente e assunto come pretesto, come sfondo, come modello della illusionistica finzione teatrale. E qui si avverte la differenza non soltanto da Mejerchold, ma anche da tutte le altre ragioni che hanno fatto la fortuna europea di Gozzi nell’Ottocento e nel Novecento. Se infatti i letterati e i musicisti tedeschi (Goethe e Schiller come Weber e Wagner) vedevano in Gozzi un prototipo della libertà fantastica tutta italiana legata alla commedia dell’arte, che per essi coinvolgeva il gusto romantico del primitivo, della spontaneità, della natura e del sogno, altri si erano calati in quell’ambiente allegorico intriso di leggenda e di colore orientale, di esotismi e di travestimenti, con intenti molto piú critici: tali i casi di Busoni, Casella, di Brecht in campo drammaturgico, e, almeno in parte, Puccini. I quali poi si erano rifatti a commedie compiute da cima a fondo, come Turandot o La donna serpente, tutt’altra cosa dunque dal rozzo «scenario» dell’Amore delle tre melarance.

Quanto a Mejerchold, basti un solo esempio: alla fiaba gozziana Mejerchold aveva premesso un prologo, nel quale gruppi del coro, che impersonano rispettivamente i Tragici, i Cosmici, i Lirici, gli Scervellati e gli Originali, disputano sulla rappresentazione che sta per incominciare: questi gruppi del coro stanno su due torri con balconate situate ai due Iati della scena e assistono a tutta l’azione, nei cui svolgimenti intervengono spesso, non di rado indirizzandola positivamente. Era evidente l’intenzione critica e modernizzante da parte di Mejerchold di creare cosí analiticamente una cornice allo scenario del Gozzi, che operasse uno stacco fra realtà e finzione nel senso di una teorizzazione del teatro come genere autonomo, ossia il teatro nel teatro se non addirittura una specie di « teatro al quadrato ». Prokofiev opera invece una sintesi laddove pone i vari piani dell’azione sullo stesso livello, fagocitando anche il prologo e i suoi personaggi nel turbine dell’azione, di cui diventano, al pari di tutti gli altri, sostanza inscindibile. La sua è una vera e propria centrifuga azionata dalla fantasia contro l’intelletto, che abolisce tutte le distinzioni negli incantesimi della musica.

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Dal punto di vista musicale, il Prokofiev dell’Amore delle tre melarance ci appare a uno stadio di maturità tale che potrebbe stupire se non sapessimo quanti anni di esperienze egli avesse alle spalle. Quel che piú colpisce è l’equilibrio (una qualità che spesso gli è negata) nell’adeguare brillantemente le diverse componenti tecniche e linguistiche alle diverse soluzioni musicali, e alle funzioni che via via debbono assolvere. Quando si parla di Prokofiev come di un geniale ma eclettico musicista, capace sí di spaziare dagli stilemi classici alle piú ardite invenzioni moderne ma altresí incapace di ordinare organicamente un mondo musicale preda di viscerali e spesso contrastanti umori, si dimentica che la sua peculiarità di musicista sta proprio nell’imprevedibile e inquieto accostamento di modernità e tradizione, di capriccio e di puntiglio, di ironia e di serietà, che, dopo essersi abbeverate alla sorgente dell’idea musicale pura, deflagrano con la forza di energie elementari. Questo spiega perché Prokofiev sentisse nel ritmo l’elemento primario della musica, e del ritmo facesse, anche nell’Amore delle tre melarance, il perno del processo musicale. Si faccia attenzione a questo aspetto: il ritmo è il pulsare vitale che, ideale unità di misura, scandisce ora precipitando ora frenando le varie fasi del divenire musicale, quindi dell’ascolto e della percezione. Momento esemplare di questo concetto è la celeberrima marcia fra il primo e il secondo quadro del secondo atto*, che potremmo definire un vero e proprio simbolo musicale di tutta la partitura.

In un’opera tutta « visiva e gesticolante », per non poca parte assai vicina al balletto e alla pantomima, il rapporto fra parola e musica, cioè canto e orchestra, si risolve necessariamente in netto favore della seconda. È stato scritto che il filo rosso dell’opera è in mano all’orchestra, un’orchestra mobilissima, sfaccettata all’estremo, piegata alle piú diverse e contrastanti necessità. ora sinfoniche, ora descrittive (come in tutto il Prologo), fino alla evocazione o alla pittura musicale di gesti e situazioni (il gioco delle carte, la maledizione di fata Morgana, le metamorfosi delle melarance). La stessa conclamata instabilità e ambiguità armonica, che sembra ruotare perennemente intorno al pilastro di un sottinteso do maggiore mai esplicitamente affermato, vale, in tutta la gamma di sfumature dal diatonismo piú solare alle crudezze piú spinte, come ricerca di esprimere e di concretare attraverso il linguaggio emozioni ora nostalgiche ora prorompenti. Eppure, pur in tale assoluto primato, l’orchestra non soffoca mai il canto, che raramente si dispiega in ampio melodizzare (con l’oasi, bellissima, del duetto d’amore del terzo atto), preferendo indugiare in cristallizzazioni di poche cellule, in reiterati salti d’intervalli espressivi oppure incantamenti di note ribattute; ma che una volta nell’opera, ed è un momento memorabile, si risolve in puro gesto di teatralissima efficacia: l’immensa irrefrenabile e gioiosa risata del principe nel secondo atto. E non mancano neppure gli accenni di Leitmotive: solo che interrompendosi sul piú bello diventano subito giocattoli inutilizzabili, e quindi parodia di quella stessa tecnica che si fingeva di assumere. Come non mancano le citazioni. Un solo esempio, fantastico: atto terzo, quadro secondo, nel cortile del castello di Creonta*. Il Principe e Truffaldino sono giunti là dove sono custodite le melarance stregate. Ma per impossessarsene occorre prima vincere la loro custode, la terribile cuoca Creonta. Prokofiev dipinge la scena citando fuggevolmente nella strumentazione cupa dominata dagli ottoni nel registro grave e perfino nella reiterata insistenza sulla cellula tematica di un semitono discendente, l’attesa di Alberich davanti alla caverna di Fafner-drago all’inizio del secondo atto del Sigfrido. All’ascolto, si resta interdetti: dove siamo realmente? La porta si spalanca, e appare la cuoca con un gran mestolo in mano. Primo sbigottimento: essa canta da basso profondo. Subito si innamora a prima vista di un nastrino magico e si estasia nel cantarne grottescamente la bellezza. L’effetto generale è irresistibile, e fine e sottilissimo.

Si potrebbe continuare all’infinito nel sottolineare i colpi di genio che Prokofiev dissemina nell’Amore delle tre melarance. E se il risultato di tutto è, secondo la bella immagine di Arruga, « un gioco, un gioco in cerchio dove ci si muove continuamente tutti pur sapendo che alla fine ci si ritroverà dove si è partiti », è superfluo aggiungere che in realtà non si ritorna mai là donde si era partiti, perché anche il disimpegno programmatico diventa, per virtú della musica e quasi suo malgrado, un sorridente eppur serissimo impegno. Passi per Diaghilew, ma sorprende che Stravinskij disprezzasse tanto l’Amore delle tre melarance. O forse non sopportava che quel compatriota irriverente,e sicuramente antipatico, lo avesse, al di là delle distinzioni, per una volta eguagliato.

L’autore del saggio si riferisce alla divisione originaria del libretto.

Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione Lirica Invernale 1978/79

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