Le sette Sinfonie composte da Sergej Prokof’ev coprono un lungo arco di tempo, dal 1916 al 1952, l’anno che precedette la sua morte. Fra queste la Quinta in si bemolle maggiore op. 100 contende alla Prima in re maggiore op. 25 detta “”Classica”” il primato in fatto di notorietà e frequenza di esecuzione. Ben poco le accomuna: la “”Classica””, concisa, scintillante, vaporosa, è un capolavoro di virtuosismo in punta di penna che si ispira, per ammissione dello stesso autore, a Haydn e alla tradizione settecentesca; l’assai più tarda Quinta, massiccia, granitica, solennemente cesellata, celebra tutt’altre certezze, infondendo nuovo vigore a un genere ormai prossimo all’estinzione ma tutt’altro che refrattario a impennate orgogliose, estreme. Anzi, capace di accettare ogni tipo di sfida.
Che si tratti di una Sinfonia in piena regola lo dimostra anzitutto l’articolazione formale nei canonici quattro movimenti, invertiti però rispetto all’ordine usuale secondo l’alternanza di tempi lenti, qui i dispari, e veloci, conseguentemente i pari; a ciò si aggiunga la disposizione circolare delle tonalità, si bemolle maggiore all’inizio e alla fine, re minore e fa maggiore così accostati in successione nei movimenti centrali: uno schema che più elementare e chiuso non si può. La scelta è chiaramente intenzionale e dimostrativa, di una evidenza apodittica. Circostanza che ha contribuito al successo popolare della Sinfonia per la sua immediatezza comunicativa, creando però non pochi equivoci nelle conclusioni sulla sua vera natura.
Fu Prokof’ev stesso a indicare lo stato d’animo da cui essa era nata: «Nella Quinta Sinfonia ho voluto cantare l’uomo libero e felice, la sua forza, la sua generosità e la purezza della sua anima». Mettendo in relazione questa affermazione con il periodo in cui la Quinta fu composta, l’estate del 1944, e con le reazioni di entusiasmo suscitate dalla prima esecuzione avvenuta a Mosca il 13 gennaio 1945, si è soliti vederne un riflesso degli avvenimenti dell’epoca: l’eco trionfale della vittoriosa liberazione del territorio russo dalle truppe tedesche che l’avevano invaso, e l’adesione a un ottimistico spirito patriottico finalmente obbediente ai precetti del “”realismo socialista””. Niente di più falso. La Quinta è la meno russa tra le Sinfonie di Prokof’ev e nello stesso tempo la più “”tedesca”” per appartenenza culturale: un modo davvero curioso di celebrare le sorti magnifiche e progressive propagandate dall’ideologia del suo Paese.
Le certezze di cui Prokof’ev si fa carico in questa partitura sono di altra natura: non meno utopica di quanto la sua franca, solare dichiarazione inviti a credere. La fiducia nell’uomo libero e felice che l’ispira è di ordine morale e autobiografico: in altri termini, quell’uomo non esiste se non nelle scelte personali dell’artista. E queste scelte travalicano le contingenze della storia, per proiettarsi in un mondo ideale, di ideali che si realizzano, a tacer d’altro, proprio nell’abolizione di barriere e separazioni, di guerre c rivendicazioni, di contrapposizioni di epoche e stili. La Sinfonia così come Prokof’ev la intende è terra d’incontro di spiriti eletti che non si curano delle atrocità della storia, qualunque sia il vincitore. La superano di slancio. E in questo stanno la forza e la generosità, da ultimo la purezza della loro anima.
La disciplina formale che Prokof’ev s’impone nella Quinta Sinfonia proviene dalla convinzione che solo un sistema di regole astratte possa contribuire concretamente a creare la libertà. E non è illusione, la sua. La Quinta è la più atemporale fra le sue Sinfonie, la meno condizionata da uno stile acquisito e riprodotto. L’invenzione si mmtiene costantemente alta perché in alto mira la volontà di concentrarsi e di captare le associazioni fra i suoni; l’elaborazione è severa nella variazione delle cellule tematiche (primo movimento, Andante), nitida e vitale nel principio concertante delle famiglie strumentali che dialogano sommessamente e delicatamente, animate da una serena leggerezza anche nella intensificazione dei crescendo (ultimo movimento, Allegro giocoso). Prokof’ev alza il tiro della decantazione lirica, dell’eleganza timbrica, dell’iridescenza armonica: mai come nella tersa distensione dell’Adagio, aperto da una sinuosa frase dei clarinetti arabescata dagli archi, si percepisce la nostalgia di un’intatta purezza, che esiste solo per essere continuamente desiderata. A poco a poco la tensione pare montare, sprofonda nei registri gravi dell’orchestra, si acuisce nella drammaticità delle iterazioni, per sciogliersi arcanamente in progressiva dissolvenza. E quale gioia nel riconoscere ora la funzionalità degli incastri, il sorriso di un’ironia bonaria, ammiccante, nell’equilibrio della totalità idealmente ricostituita, nella misura delle proporzioni ampliate ma non sfigurate.
Solo nell’Allegro marcato questo sorriso diviene ghigno beffardo e sberleffo. Par di assistere, nelle trovate geniali di questo Scherzo con Trio, a una caricatura che ricorda di quale sarcasmo fosse capace Prokof’ev. Il gesto graffiante, nel rincorrersi ostinato di frammenti lanciati per aria all’impazzata, nella baldoria da circo o da banda di paese un pò alticcia, o magari di parate militari che sfilano impettite nel loro stupido orgoglio, è quello di chi sapeva guardare il mondo con divertimento misto a orrore: un umorismo grottesco. L’eco della guerra, e sia pure di una guerra vinta, è tutta nella musica militare di questo movimento, ritmata dalla batteria: un grido lancinante camuffato da insensata allegria, un brivido di angoscia che non trova pace neppure quando è passata la paura. Non v’è trasfigurazione in questa musica ebbra di frenesia, rigonfia di artefatta volgarità. Giacché di fronte alla guerra ogni artista riconosce solo la propria impotenza e, se può, passa oltre, a reinventare in sogno la vita.
Gianluigi Gelmetti / Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1994-95