Non ultimare la propria opera per cause diverse da quelle inevitabili e indilaziona bili della morte (come è invece il caso dell’Arte della fuga di Bach, del Requiem d Mozart o della Nona Sinfonia di Bruckner), se da un lato alimenta la legittima curiosità dello studioso, dall’altro investe realtà misteriose e imperscrutabili, di fronte alle quali diventa difficile e sarebbe in ogni caso presuntuoso pretendere di dire una parola definitiva. Perchè Schubert lasciò incompiuta la Sinfonia in si minore? Perchè dopo i due primi movimenti, composti nell’ottobre 1822, dopo aver aggiunte due pagine orchestrate dello “”Scherzo”” e lasciato altro materiale allo stato d abbozzo, il compositore si fermò, accantonò il lavoro e non lo riprese più, fino alla sua morte? Sono, queste, domande alle quali sono state date cento diverse risposte; ma una sola di esse si avvicina, pur senza coglierla, alla verità: la Sinfonia in se stessa era finita dopo i due primi movimenti, rimanendo formalmente incompiuti ma compositivamente, sostanzialmente compiuta così.
Ottava fatica in campo sinfonico, anteriore soltanto a quell’immenso e conclusivi vertice rappresentato dalla Sinfonia in do maggiore detta “”La Grande”” (marzi 1828), la Sinfonia in si minore è un punto di arrivo dove il salto rispetto alla produ zione sinfonica precedente di Schubert si fa notevole, quasi abissale: non tanto pe lo stile, sempre individualmente riconoscibile (quando Hanslick la ascoltò per la prima volta – molti anni dopo la morte dell’autore – non esitò a sentenziare: “”Schubert! È proprio Schubert!””), quanto per la qualità della scrittura, assai riccca e variata, per la flessibilità ed omogeneità del trattamento tematico, per il modo nuovo di concepire la tonalità, non più mero valore funzionale bensì colore armonico inquietante e discontinuo nei suoi nessi associativi; e infine per l’ampliamento della tavolozza orchestrale che Schubert, memore delle conquiste fatte nella musica da camera, maneggia ora con maestria insuperabile, mettendola al servizio di una concezione formale senza confronti ardita.
Apparentemente differenziati nella fisionomia, l’Allegro moderato”” in si minore e il successivo “”Andante con moto”” in mi maggiore rivelano in profondità strette relazioni, sia sotto l’aspetto ritmico sia dal punto di vista dell’elaborazione tematica: quasi fossero due volti, opposti ma complementari, di un’identica realtà. La consapevolezza compositiva di Schubert ha raggiunto un tale controllo sulla materia che le metamorfosi (ritmiche, melodiche e armoniche) si nutrono alla fonte dell’unità originaria, nello stesso istante in cui questa unità, sfaccettandosi in infinite sfumature, sembra perdere i propri connotati e addentrarsi in territori illimitati, mai prima esplorati. In questo viaggio verso orizzonti sconosciuti, Schubert ha un solo compagno di strada: Beethoven. E come sottrarsi allora all’interrogativo, retorico certo, che già si era avanzato, solo pochi mesi prima, a proposito della Sonata in do minore op. 111 di Beethoven, anch’essa in due soli tempi: sarebbe stato veramente possibile, dopo aver toccato simili vertiginose altezze, un terzo movimento? Schubert, come Beethoven, si fermò là dove nessuno poteva arrivare, un lontano punto illuminato che noi riusciamo appena a intravvedere e che, con la nostra debole vista, continuamo a chiamare “”incompiuto””.
Pierluigi Urbini / Orchestra Haydn
Orchestra Haydn, XXIII Stagione 1982-83, Rovereto, Bolzano, Trento