Per tutto l’Ottocento, e anche oltre, il nome di Schubert rimase indissolubilmente legato al genere del Lied. Si codificò così un’immagine che influì profondamente sulla fortuna del compositore, e che se da un lato pesò su tutti i musicisti che si accostarono al Lied dopo di lui (un peso che può essere paragonato solo a quello esercitato da Beethoven, con forza tanto più perentoria, nel campo della Sinfonia), dall’altro lato finì per restringerlo in un quadro di intimismo soggettivo, di «pura» espressione lirica e sentimentale, talora convenzionalmente oleografico e persino caricaturale. Sfondo nel quale Schubert del resto era stato più volte fissato dai dipinti e dai disegni popolari della sua epoca.
Nell’uno e nell’altro caso, era indubbio che la parabola creativa di Schubert nel Lied presentasse un’unita nella varietà e una varietà nella unità (in altri termini, una gradualità e una progressione verso la definitiva compiutezza del genere) quali nessun altro capitolo della sua opera possedeva: da Gretchen am Spinnrade (1814), prima superba individuazione di un tipo di Lied assolutamente nuovo per carattere e forma, fino ai grandi cicli degli ultimi anni, la linea è continua e si richiude in un cerchio perfetto, molto lasciando tuttavia ancora da dire. Gli Heine-Gesänge, composti poche settimane prima della morte e poi volgarizzati da un editore privo di scrupoli nella miscellanea dello Schwanengesang – Canto del Cigno, titolo orribile per un’operazione già equivoca – sono sotto questo aspetto l’inizio di un nuovo ciclo, soffocato sul nascere, l’annuncio di una nuova epoca della storia del Lied la cui eredità sarà raccolta non soltanto da Schumann e da Brahms ma anche, coerentemente, da Wolf e da Mahler.
Non si può dire lo stesso per gli altri generi con i quali Schubert si confrontò. La sua produzione sinfonica e pianistica, e in misura minore quella da camera, procedono a sbalzi, per strappi violenti, talora esaurendo uno specifico problema linguistico e formale in un gruppo ravvicinato di lavori, e poi lasciandolo decantare, magari per riprenderlo a distanza di tempo. Non vi è, almeno in modo esplicito, una linea di evoluzione continua: ciò non significa, è ovvio, che non l’abbiano latente in sé. Sappiamo che dopo la morte di Beethoven, nel breve spazio di tempo che il destino gli assegnò da vivere, Schubert, come sbloccato dal peso schiacciante dell’ombra del gigante, andò prefigurando e pianificando un nuovo stile sinfonico e pianistico, di cui rimangono realizzazioni incomparabili come la Sinfonia in do maggiore (nelle intenzioni del musicista appena una tappa alla conquista della «strada verso la Sinfonia») e le tre Sonate in do minore, la maggiore e si bemolle maggiore: opere postume, realizzazioni che, nonostante l’appassionata difesa di Schumann, non furono subito comprese e valutate né per quello che erano né per quello che aprivano al futuro. Soltanto partendo dal Lied era possibile costruire un’immagine sufficientemente definita della personalità di Schubert. E così fu.
Eppure. Che Schubert non fosse conosciuto o riconosciuto dai contemporanei nella sua interezza sembra in flagrante contraddizione anche col modo in cui la sua arte e la sua personalità furono intese, descritte e interpretate dai posteri. E ciò almeno per due motivi principali: anzitutto per la tendenza a collocarlo nell’area romantica come vetta indiscussa non solo per quanto attiene il Lied; in seconda linea per la tesi comune racchiusa in una formula mai del tutto smessa – «Schubert compositore viennese» – secondo la quale egli espresse il succo della tradizione musicale viennese rispecchiando lo spirito di Vienna come città, come centro artistico e sociale, addirittura come ambiente paesaggistico, stando alla celebre descrizione di Schumann: «Nella Sinfonia di Schubert, piena di chiara, fiorente vita, la città mi sorge oggi innanzi più nitida che mai, e mi persuade meglio che proprio da luoghi come questi possano nascere opere simili».
Il paradosso di «Schubert compositore viennese» trascurato nella Vienna del suo tempo si può certo spiegare con le condizioni nelle quali si svolse il rapporto fra il musicista e la metropoli distratta, indaffarata, commerciale, e però pronta come nessun’altra a fornire le premesse, gli stimoli e la cassa di risonanza per una compiuta affermazione artistica. Entrato con le sue sole forze in questa città dal sobborgo di periferia in cui era nato, Schubert non se ne staccò mai, se non per brevi viaggi; vivendo però sempre in essa per così dire ai margini. La sua figura umana non si integrò mai con gli ambienti ufficiali della imperiale e regia capitale. E lo stesso vale per l’opera: o troppo sottilmente esigente e inappagante per il consumo d’uso, o troppo poco energica e autorevole per conquistarsi un rango nella frenetica vita musicale del tempo. A tacer l’amara storia delle musiche rifiutate da editori, istituzioni sinfoniche e teatri, resta il fatto di un solo – primo e unico – concerto pubblico, il 26 marzo 1828, l’anno della morte. È qui la radice di un altro paradosso, ancora più stridente: quello di «Schubert compositore» (la tremenda esclamazione «Io so di essere un artista, io sono Franz Schubert», secondo la testimonianza di Bauernfeld) nient’affatto importante per i contemporanei.
Lo stesso rituale delle famose «Schubertiadi», che il compositore subiva ma non suo malgrado, talvolta degradandosi a guidare le danze con una gioia che perfino ai suoi amici sembrava accanita e disperata (la gioia di rendersi utile e di comunicare, certo; ma come rimanendo assente, per stordirsi e non pensare ad altro), nascondeva il timore di oltrepassare i confini sicuri di un mondo circoscritto, piccolo e insieme grande, per spiccare il volo verso le incognite di avventure pericolose forse più per gli altri che per lui stesso. Nell’ambiente ovattato e raccolto in cui visse, Schubert non richiese per sé quasi altro che la possibilità di una operosità tranquilla e concentrata, senza mai tuttavia ottenerla. Il carattare estremamente riservato e schivo lo rendeva, più che incapace, restio a battersi per conquistare una posizione o per affermarsi pubblicamente come compositore. I suoi amici, rappresentanti di una leggendaria «cerchia», erano per lo più ex-compagni di convitto tanto fedeli all’amicizia quanto lontani dalle misure dell’arte, molti dei quali , fecero strada come amministratori e funzionari dell’impero, allontanandosi a poco a poco dal colloquio intimo con il creatore; costoro furono però probabilmente i migliori. Gli altri: virtuosi bizzarri e insofferenti, come il cantante Vogl, ma soprattutto individui irrealizzati, dilettanti con velleità artistiche, come Schober, o artisti di valore ma senza nome né parte, come il buon pittore Schwind, che vivevano drammaticamente la loro dissociazione esistenziale; alcuni dei quali finirono pazzi, come Sauter, o suicidi, come il tormentato Mayrhofer, censore imperial-regio e poeta di tante liriche schubertiane. Capitati accanto a chi, come Schubert, si era rifiutato di assicurarsi da vivere con un impiego stabile ma non aveva mai rinunciato a coniugare la libertà dell’arte con il più rigoroso esercizio professionale.
Non era questa la Vienna che contava, quella che avrebbe potuto «riconoscere» Schubert. Eppure l’importanza di quella cerchia eterogenea e instabile non deve essere sottovalutata. Solo quando vi dovrà rinunciare, malato e stanco, per tornare a vivere dal fratello Ferdinand, Schubert capirà che nonostante tutto lì aveva trovato la felicità, sia pure per brevi attimi. Non occorre chiedersi a quale prezzo. Di questo circolo egli si sentiva ed era il punto di equilibrio, dove confluivano e si scaricavano tensioni imperscrutabili, oscillanti fra improvvise, inspiegabili euforie e altrettanto repentine, profonde depressioni. Schubert poteva sopportare, fino a che non capisse che ne sarebbe stato condizionato negativamente. Solo allora, ricorda Spaun, «ammutoliva e si ritraeva». Con le sue nevrosi represse, i bisogni mal soddisfatti, le piccole manie quotidiane, i silenzi che coprivano tumulti devastanti, l’immagine umana di Schubert ci appare enigmaticamente inquietante: una voragine aperta sulle proporzioni equilibrate e sulla spontaneità dell’espressione soggettiva, lirico-contemplativa, di una natura armonicamente classica. Quel che vi domina è la tendenza alla rassegnazione. Il modo in cui si esprime è la malinconia, una malattia del secolo e sua personale.
Nella storia di Schubert esiste un capitolo che merita speciale attenzione, ed è quello della sua produzione dopo la morte di Beethoven: le vicende di quei venti mesi nei quali la sua vita parve come rinnovarsi, accesa da nuove aspirazioni e certezze, nella ferma coscienza di poter dire e fare qualcosa dopo Beethoven, oltre Beethoven. I maggiori lavori prodotti in questo pur breve periodo – la seconda parte della Winterreise, i due Trii con pianoforte in si bemolle e mi bemolle, le due serie degli Impromptus, la Sinfonia in do maggiore, la Fantasia in fa minore, la Messa in mi bemolle maggiore, i Rellstab e gli Heine-Lieder, il Quintetto per archi in do maggiore, le tre ultime Sonate per pianoforte – annunciano l’inizio di una nuova fase creativa verso un linguaggio pienamente individuale nel campo delle grandi forme. E non è senza significato che proprio queste opere contribuissero a ridisegnare la figura e la posizione storica di Schubert anche nel dominio del Lied.
In queste opere, il problema della forma è centrale. Schubert lo affronta per riconquistare un equilibrio perduto con uno sforzo di sintesi fra unità grandi e piccole, senza seguire dissennatamente Beethoven nelle ardite sperimentazioni del suo ultimo stile. La forza sonatistico-sinfonica è rinsaldata, rivissuta come una totalità organica passibile di più sottili distinzioni e differenziazioni, ma irrevocabile nella sua interezza. Tant’è che Schubert non abbandona la solida articolazione in quattro movimenti (solo sospesa, prima del momento cruciale della svolta, nell’isolata Incompiuta del 1822) e l’ordinato fluire ricollegato a ben definite stazioni formali: Beethoven aveva drammatizzato perfino lo Scherzo; Schubert semmai guarda nostalgicamente alla nobile semplicità dei Minuetti di Haydn e di Mozart.
Se l’apparato esterno rimane immutabile, quel che accade al suo interno nel processo formale è anche concettualmente nuovo. Gli ampliamenti smisurati, la dilatazione degli spazi e degli eventi, perfino le necessarie «lungaggini» (anche quelle non schumannianamente «celestiali», ossia intrise di cantabilità), sono la conseguenza di questa concezione strutturalmente nuova nello svolgimento musicale. Al movimento lineare, fortemente dinamico, si sostituisce una elaborazione circolare che procede per sospensioni, ripetizioni, collegamenti lontani e ciclici ritorni. La dialettica tematica si sfuma, non presenta più opposizione fra blocchi tematici individualmente caratterizzati ma tende a integrare le figure in un unico piano monotematico, su cui si stagliano, con evidenza simbolica sovente attinta dal Lied, apparizioni di un’originaria, latente identità. Alla contrapposizione tonale subentra una differenziazione modale di maggiore e minore dai molteplici risvolti, sorretta da una estesa trama armonica tanto negli scarti improvvisi quanto nei passaggi più graduali. La stessa sezione dello sviluppo è ampliata da una continua irradiazione di cellule e di motivi: essa non collega più elettivamente l’Esposizione alla Ripresa, i cui confini tendono a dilatarsi, ma permea di sé già l’Introduzione e le stesse figure tematiche, spesso ripercuotendosi anche sulla Coda e di lì sul movimento che segue; come accade per esempio nel Quartetto «La morte e la fanciulla», dove il Lied originario parafrasato nell’«Andante con moto» appare, quasi magicamente, il risultato e la trasfigurazione insieme del movimento iniziale. Coerentemente, dunque, la Ripresa allenta le funzioni coesive che le erano tipiche e diviene solo l’ultimo dei possibili ritorni del materiale tematico elaborato compositivamente: un punto culminante ma non risolutivo, sospeso sulla rete delle trasformazioni progressive.
Questo senso dello scorrere del tempo, del farsi di un linguaggio attraverso le sue molteplici incarnazioni musicali all’interno di un processo formalmente chiuso, è reso dal ritmo che ne scandisce il divenire. I ritmi di marcia schubertiani, che hanno il loro nucleo poetico nella figura-guida del Viandante dei Lieder, costituiscono il simbolo più impressionante e commovente di una angosciosa dialettica tragica che si misura per l’incalzare del tempo, quasi facendone metro e specchio del proprio cammino creativo. Non si tratta più qui di mere, per quanto differenziate, elaborazioni ritmiche di ritmi usati a fini discorsivi, di ritmi tematici: è invece un ritmo ben altrimenti significativo, quasi eloquente, una «cifra del tempo»; sia che misuri il passaggio degli eventi musicali con calma sovrana, imperturbabile, sia che prorompa negli Scherzi e palpiti nei Trii – con larvate movenze di danze popolari all’aria aperta ormai lontane nella memoria -, sia che si arresti in inquietanti sospensioni per lasciare spazio a indugi melodici di pregnante, arcano pathos, per riprendere poi la corsa verso spazi smisurati, ora quasi «senza tempo». Ma quel che più agghiaccia è l’uso che Schubert ne fa nei rituali da vera «danza macabra» di alcuni Finali, per esempio in quelli della grande ultima Sinfonia, della Sonata in do minore e nel Quartetto in re minore: dove, nel vortice impazzito di un classico Rondò, par quasi di avvertire il passo inesorabile della nera falciatrice che si avvicina, insieme invocata e respinta.
Quando Schubert morì, aveva superato da poco i trent’anni. I suoi ultimi lavori, che sono dunque i lavori di un artista appena alle soglie della piena maturità, segnano un traguardo che, benché a noi appaia finale, rappresenta solo una fase di passaggio, forse il trampolino di lancio verso quella sintesi rifondatrice a cui egli, con una coscienza di sé mai avuta prima, sembrava ora poter aspirare. La morte di Schubert ci ha sottratto non soltanto un punto di riferimento importante per fare la storia della musica dell’Ottocento ma anche la possibilità di vedere percorso tutt’intero un cammino e di farcelo comprendere appieno. Fuori dal Lied, la cui parabola è così ampia e ricca da sembrare conclusa, la sua opera è intimamente incompiuta, non finita; e ciò spiega, da ultimo, la sua immagine sfuggente. Per questo, ogni volta che ne ascoltiamo la musica, ci sentiamo spinti a cercare, in essa, lo Schubert che sta oltre Schubert. Nel profondo di Schubert stesso.
Musica e Dossier, a. II, n. 13, Dicembre 1987