Schubert, o dell’angoscia

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L’integrale delle Sinfonie di Schubert registrata da Nikolaus Harnoncourt con l’orchestra del Concertgebouw di Amsterdam dopo una serie di esecuzioni pubbliche dal vivo riapre molte discussioni sia sull’autore in questione che sull’interprete chiamato all’impegnativo confronto: raro caso in cui il documento discografico riesce ad appassionare facendo riflettere sulla musica. Il ragionamento non verte soltanto sulle qualità specifiche del direttore alle prese con testi tanto consueti quanto problematici, bensì anche sul modo di intendere e quindi realizzare concetti fortemente ambigui quali tradizione, convenzione, prassi esecutiva, sentimento, emozione: calati, questi ultimi, e quasi messi a nudo nella verità della musica senza schematizzazioni e teoremi. È un po’ questa la strada che Harnoncourt ha intrapreso negli ultimi tempi, dopo aver progressivamente spostato in avanti il raggio della sua azione, dai preclassici che l’avevano occupato a lungo all’epoca dei recuperi filologici e degli strumenti cosiddetti originali fino all’apertura al repertorio classico e romantico: da Haydn, Mozart e Beethoven a Mendelssohn e ora appunto Schubert.

In questa operazione significativa è la scelta dell’orchestra, quella famosa di Amsterdam, famosa però non in questo genere di repertorio, almeno non come lo possono essere le orchestre depositarie di consolidate consuetudini e radici profonde con lo stile in sé atipico di Schubert. E proprio questa atipicità viene messa in risalto da Harnoncourt, in un lavoro di scavo teso ad assottigliare l’opulenza del suono caratteristica dell’orchesta del Concertgebouw, ma fermissimamente intenzionato a mantenerne l’energia e tutta la forza propulsiva; anche a costo di incorrere in qualche contraddittoria forzatura. Quel che ne esce insomma è uno Schubert deromanticizzato all’estremo, e proprio per questo utopico e solitario, incisivo e frammentario: assai poco goduto nella bellezza delle melodie e delle sublimazioni liriche, rivitalizzato invece nella testarda ostinazione a cercar snodi formali inediti e a concentrare la dilatazione del tempo in attimi di improvvise rivelazioni e di attese brucianti. Le une e le altre sospese sul terrore del vuoto e dell’assenza.

Fin dalle prime Sinfonie, che spesso risuonano come giochi innocenti di familiari esercitazioni, molto dicendo con affabile spontaneità ma ancor più tacendo di ciò che mai si vorrebbe confessare, si avverte nella interpretazione secca del direttore una sensazione di angoscia che assomiglia assai a un disagio esistenziale ricomposto dalla musica, ma non interamente cancellato. La ruvidezza del suono ottenuta con colpi d’arco corti e spiccati, con uscite dei fiati aspre e perentorie, con sottolineature dinamiche refrattarie alle sfumature e ai passaggi graduali, è l’elemento dominante di una lettura che si sviluppa in ampiezza e densità, toccando nella Sinfonia in do maggiore detta “La Grande” momenti di apocalittica disperazione: fin dalla frase iniziale del corno spezzata in tratti che la fanno assomigliare a un amaro singhiozzo, su cui costruire un lamento cosmico. Ma senza indugiare in rimpianti e consolazioni illusorie, affrontando anzi virilmente un compito di consapevole sfida. La tenacia del ritmo è l’altro e complementare aspetto che Harnoncourt mette in risalto nel percorso sinfonico schubertiano: un ritmo marcato e ossessivo, dove tra forte e sforzato c’è una sostanziale differenza, come tra chi afferri saldamente la realtà e si accorga poi di aver sognato improbabili approdi. Salvato e perduto dalla sua stessa vertigine.

Tanto poco tutto ciò sembra rispondere alla nostra idea del romanticismo quanto ineluttabilmente ci spinge a cogliere l’essenza di un atteggiamento romantico eterno e infinito: l’anima di Schubert entro e oltre il suo tempo. Paradossale, ma non troppo, che questo esito tangibile riesca a un musicista impegnato a ricostruire il vero, con mezzi intellettuali, e capace da ultimo di intuire la verità, con la forza dell’emozione.

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