Il concerto del direttore finlandese con la Chamber Orchestra of Europe a Ferrara
Ferrara – Smaltita la sbornia della folle giornata con Abbado e i Berliner, «Ferrara Musica» è tornata alla quiete dei suoi compiti istituzionali, con il primo ciclo di concerti (l’altro sarà in autunno) della Chamber Orchestra of Europe nella sede stabile prescelta per le sue attività in Italia. Si è riscoperto così il gusto della normalità, della buona musica senza eventi preannunciati. E nella normalità qualcosa di antico, anzi di nuovo.
Jukka-Pekka Saraste, prima di tutto. Un direttore poco più che trentenne, di origie finlandese, finora sconosciuto in Italia, dove non aveva mai diretto, o tutt’al più noto per qualche promettente incisione discografica: il biglietto da visita ritenuto oggi assolutamente indispensaile, a priori, per intraprendere una carriera di successo. Ma Saraste non sembra davvero un prodotto industriale.E c’è da credere che difficiliente lo diventerà. Dietro quell’aspetto da robusto falegname o marinaio del Nord, si cela però una natura musicale di prom’ordine, genuina, tanto poco propensa a esprimersi con gesti plateali quanto tesa a spremere la sostanza della musica, senza curarsi dell’apparenza e dello spettcolo.
La vetrina a lui offerta da Ferrara Musica» era probante: due concerti con programmi impegnativi, imperniati su pezzi assai insidiosi di Stravinsky (l’Ottetto per strumenti a fiato e le più tarde Danze concertanti) e su due sinfonie isolate di Beeaoven, l’Ottava e la Quarta; oltre al Concerto per violoncello di Schumann con l’estrosa Natalja Gutman e a due sublimi Arie di Mozart, cantate da Bernadette Manca di Nissa. Saraste appartiene a una ristretta generazione di direttori per i quali la tecnica non è più un problema e non ancora un fine. Forse il fatto di provenire da una civiltà appartata e lontana dalle grandi tradizioni lo aiuta ad accostarsi alla musica con naturalezza e immediatezza, quasi provando il piacere della scoperta e la forza delle idee chiare, non pretestuose o sofisticate Il mestiere solido unito a un innato equilibrio stilistico portano a risultati interpretativi perfino anomali, paradossalmente, purtroppo perché veri e cordiali.
Sfruttando un organismo prodigiosamente duttile e fresco come la Chamber Orchestra of Europe, complessa che sa mutar pelle nelle
mani di chi lo guida senza perdere nessuna delle sue qualità specifiche (e non a caso capace di suonare i Brandenburghesi di Bach senza direttore, con disciplina e vivacità supreme), Saraste ha dato una lettura scintillante delle Danze concertanti, puntando sull’evidenza dell’invenzione musicale più che sul gioco intellettualistico dei riferimenti e delle citazioni. Si capisce che per lui Stravinsky è un classico senz’altri aggettivi, con un’impronta personale, novecentesca. E un atteggiamento analogo presiedeva l’esecuzione della Quarta di Beethoven, sintesi di una riflessione più distesa sui rapporti, già messi a dura prova, dell’organizzazione della forma sinfonica. Saraste, più che mettere l’accento sul senso di attesa e di irrequietezza che circola in questa Sinfonia, l’affronta con calma e compattezza, senza esuberanze e strategie capziose, ma con momenti di intenso abbandono. Di quest’opera non vuol rivelarci particolari o significati inediti; gli basta riviverla appassionatamente, in tutta la sua sostanza poetica e musicale, e realizzarla adeguatamente.
Non foss’altro che per averci fatto conoscere un direttore che ha tutte le carte in regola per fare onestamente e luminosamente la sua professione, «Ferrara Musica» ha segnato questa volta un punto a favore. Anzi, due: se si considera la partecipazione della Manca di Nissa nel concerto conclusivo. Questa cantante, che già si è fatta onore in prove importanti del repertorio settecentesco (su tutto l’Orfeo di Gluck alla Scala), è un’autentica fuori-classe. Non avrà il fascino della diva o le pose della primadonna (e non è detto che sia un male), ma possiede in cambio una delle voci di contralto più vere e potenti che si possano ascoltare oggi, una musicalità straordinaria e una proprietà stilistica rara. Nelle sue Arie mozartiane (quella impetuosa che chiude Mitridate re di Ponto, l’opera di un genio quattordicenne, e il tenero commiato della scena «Ombra felice», K.255), non si limitò a cantare. Semplicemente, incantò.
da “”Il Giornale””