Mai come quest’anno a Salisburgo si sono accese le discussioni e le polemiche sulle sorti e sul futuro del festival. Agnes Baltsa che deve andarsene dopo aver litigato con Karajan, James Levine che nella patria della tradizione consacrata maltratta Mozart come se si stesse allenando al punching-ball, compagnie di canto sempre più ordinarie e indisciplinate. Salisburgo ha da essere un festival esclusivo. Non piace perciò l’idea della coproduzione (le uniche due novità di quest’anno, l’opera Die schwarze Maske di Penderecki e il balletto di Béjart sul Martirio di San Sebastiano erano appunto tali), e non piace che Karajan si ostini a dare la precedenza al suo Festival di Pasqua, come farà anche l’anno prossimo col nuovo Don Giovanni. In un’edizione fatta quasi soltanto di riprese, spesso inferiori alle attese o comunque non giudicate all’altezza degli anni scorsi, assume un valore significativo il trionfo riservato ai concerti dei grandi nomi, ormai tutti legati ad altri teatri e indisponibili chissà per quanto tempo a nuove produzioni d’opera a Salisburgo. Dopo il fast-food di Levine, e a parte Karajan, chi raccoglierà l’eredità interpretativa mozartiana?
Neppure l’apertura all’opera contemporanea proseguita con la prima mondiale di Penderecki ha avuto il successo sperato, che era invece arriso sia alla spettacolare fantasmagoria del Re in ascolto di Berio sia alla geniale rivisitazione di Henze dell’ Ulisse monteverdiano. Quelli erano, tutto sommato, prodotti che univano allo chic dell’attualità una robusta e composita teatralità in grado di vivacizzare e armonizzarsi con il clima festoso che regna da sempre a Salisburgo; ma la tetra danza macabra di Penderecki, con i suoi simboli sofferti e i suoi surreali travestimenti, oltre a pretendere la conoscenza dei contenuti non propriamente elementari del testo di Hauptmann, non offriva musicalmente occasioni granché ghiotte o appetibili. Se si mette nel conto che Die schwarze Maske, pur essendo l’unica novità dell’anno, è già programmata in una diecina dei maggiori centri del mondo (a cominciare da Vienna che l’ha coprodotta), non desta meraviglia che l’interesse non fosse quello sperato e atteso.
Così, ha buon gioco chi afferma che Salisburgo deve mantenersi fedele alle sue tradizioni. La rappresentazione di Capriccio di Strauss a cui abbiamo assistito (opera rara, che l’anno venturo però da noi sarà presente in ben due edizioni, a Bologna e al Maggio Fiorentino) può essere considerata l’emblema vivente di questa tradizione e di quel rituale che i frequentatori abituali di Salisburgo ben conoscono: passeggiata mattutina negli incantevoli dintorni, pranzo leggero per non appesantire lo spirito, pomeriggio diviso fra ripasso di libretto e magari spartito, abluzioni e vestizione (quasi come un giocatore di calcio prima di una partita importante), ingresso ispirato al Festspielhaus e, dopo la recita, cena in uno dei tanti deliziosi ristoranti con l’impressione addosso di aver assistito a un evento unico al mondo. Se questa è Salisburgo, l’unicità dell’evento sia proprio nel significato di quella tradizione di cui si invoca, forse con un principio di inattualità, il mantenimento. Questo Capriccio, così come si dà a Salisburgo, è un godimento ineffabile che alla fine, a lasciarsi andare, ti conduce alla soglia della smemoratezza e della trasfigurazione. L’opera in sé, con quel suo miscuglio di intellettualismo e di sublime ingenuità, certo vi si presta in modo particolare; ma il clima emotivo e artistico che l’impregna, traluce qui con una forza espressiva che coinvolge e ammalia, come se l’ambiente stesso ne fosse un elemento. Razionalmente, hai un bel dire che la direzione di Horst Stein potrebbe essere più sottile e sfaccettata, che la compagnia di canto, pur dominata da una superba Anna Tornowa-Sintow, potrebbe essere più omogenea e fine, che certi effetti della regia di Johannes Schaaf sono talmente rileccati da apparire al limite convenzionali: detto questo, lo dimentichi per immergerti di nuovo nell’atmosfera tersissima di un’avventura conturbante e immensamente seducente, il cui ricordo non si vorrebbe mai più smarrire. Ecco l’emblema della tradizione a Salisburgo. Difficile non lasciarsi conquistare.
Accade così anche di ascoltare il giorno appresso Abbado e Pollini in un concerto beethoveniano (l’Imperatore e la Quinta) e di accorgersi che anche artisti di celebrato rigore interpretativo risentono di questa atmosfera: la grinta tragica di Pollini si scioglie in una purissima gioia di intense emozioni, la conquista espressiva di Abbado trova accenti di incomparabile morbidezza e flessibilità. Sono tappe che segnano una carriera; quando addirittura non la eternano, come è il caso della voce di Fischer-Dieskau che, risuonata a Salisburgo per la prima volta nel 1951, ancora vi ritorna per una serata di lieder dedicata a Wolf, suggellata dalla sua classe e dalla sua intelligenza. E anche questa è tradizione. Il fascino di Salisburgo e del suo Festival si basa su una magia che è anche retorica e forse illusoria, come di chi sia indotto, ogni volta inevitabilmente, a indossare una maschera: che non è però quella nera di Penderecki.
Musica viva, n. 10 – anno X