Roma: Un Requiem tedesco

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La consuetudine di inaugurare la stagione di concerti dell’Accademia di Santa Cecilia con un’opera sinfonico-corale di vaste dimensioni, di quelle che nella storia della musica contano, ha inteso offrire quest’anno una congrua anticipazione delle celebrazioni brahmsiane che nel 1983, ricorrendo i centocinquant’anni dalla nascita del compositore, si annunciano dovunque particolarmente intense: ecco dunque per l’occasione il Requiem tedesco, a Roma preceduto – accoppiamento classico – dalla Ouverture tragica. Nulla da dire, ovviamente, sulla scelta, che oltretutto era legata alla possibilità di disporre di un direttore adattissimo quale Wolfgang Sawallisch, da anni colonna portante dei programmi romani di Francesco Siciliani. Resta semmai da notare che il Requiem tedesco, nonostante le sue non infrequenti apparizioni, rimane da noi opera quanto mai ostica non soltanto per il pubblico (che difatti seguì con alterna attenzione, lasciandosi anche andare a un applauso importuno fra il sesto e il settimo brano) ma anche per l’orchestra e per il coro, in palese, si direbbe quasi costituzionale difficoltà di fronte alla impervia densità e al colore tutto particolare della scrittura brahmsiana: per aver ragione della quale, sovente, non bastano l’impegno e la qualità dei singoli né il livello, a Santa Cecilia ancora piuttosto alto, degli insiemi, ma si richiedono equilibri ben calcolati e immedesimata concentrazione, raggiungibile soltanto attraverso prove lunghe e assidue. Sono osservazioni, queste, che esorbitano dal caso specifico, ma che in esso hanno trovato almeno parzialmente verifica. Da cui quel senso di cosa non completamente risolta che la realizzazione ha lasciato, pur risultandone un concerto di tutto rispetto e di forte rilievo fra ciò che in Italia, con i tempi che corrono, si può ancora ascoltare. Sawallisch è direttore verso i1 quale nutriamo un’ammirazione sconfinata, anche, se non soprattutto, come interprete. I lineamenti più caratteristici della sua personalità (rigore professionae, profonda conoscenza celle tradizioni, sovrano equilibrio, intima cordialità nell’accostarsi alle musiche he ama) sono doti autentiche, e non preliminari: giacché inevitabilmente disegnano un percorso interpretativo. Che esso non abbia le seduzioni, le impennate o le modernità di altri direttori, non deve necessariamente esser considerato un limite. Anzi. Se non una virtù oggi sempre più rara, esso costituisce senza dubbio un punto di riferimento che, riallacciandosi ai modelli di una scuola storica in via di estinzione, indirettamente dà un senso ad altri, più nuovi e forse davvero attuali, modi di intendere quell’oggetto misterioso in perenne trasformazione che è l’interpretazione musicale. Dote principale di Sawallisch è la chiarezza. Ciò vuol aire ch’egli agisce sulla partitura per metterne in rilievo la logica compositiva, l’itinerario formale, i nessi espressivi, con intenti prima di tutto unitari, sintetici. Partendo dall’osservazione del tutto, ogni parte vede in Funzione dell’organicità dell’insieme, al fine di fissare i pilastri – linguistici, stilistici formali – della costruiione globale: il che significa anche dare immediatamente all’ascoltatore la sensazione di possedere le chiavi per entrare nel cuore di una musica, nel suo composito mondo poetico e spirituale. Nello stesso tempo, cosa forse ancora più importante, Sawallisch comunica questa sicurezza anche ai musicisti suoi collaboratori, in un atteggiamento deliberatamente ispirato all’ideale del fare musica insieme (fatto che lo rende molto amato dalle nostre orchestre, incondizionatamente). Se queste sono complessivamente le doti fondamentali di Sawallisch, loro tratti complementari sono la tensione volta a sottolineare senza forzature il lato espressivo e la sensibilità per gli aspetti più luminosi, più compiuti, più

evidentemente positivi della musica: quegli aspetti, insomma, che gli fanno amare la grande tradizione classica e romantica come felice continuità, splendida affermazione di valori esterni.

Sotto il profilo interpretativo, Sawallisch ha del Requiem tedesco una visione molto austera, rituale, quasi dottrinaria, come di opera profondamente radicata nella spiritualità germanica; ma ne coglie, più sottilmente, anche l’aspetto drammatico, l’oscillazione continua tra la professione di fede e la cupa atmosfera funebre, da Requiem appunto. Elementare, ma vincente, l’idea di legare questi opposti sentimenti, con tutta la gamma di sfumature intermedie, a elementi stilistici e strutturali precisi: da un lato il corale, principio di individuazione di una religiosità biblica ma anche di una identità nazionale, che riceve la più esemplare estrinsecazione negli opulenti edifici contrappuntistici, permeati di richiami bachiani; dall’altro lato il Lied e il ripiegamento intimista (massime nella assorta contemplazione del quinto numero, con soprano e coro, omaggio di Brahms alla memoria della madre). La riflessione che non rimane estranea alle ragioni del cuore, allo sgomento del dolore. Senza evitare di dar conto delle fratture, di cui il Requiem tedesco è per buona parte intessuto, Sawallisch costruisce il discorso basandolo su una accentuata scansione ritmica, dove cioè è il ritmo, in forza della sua perentoria presenza (la marcia funebre del secondo pezzo) o viceversa della sua indugiante sospensione (l’ultimo, concentrico numero) a sostenere coerentemente il processo espressivo e musicale; evidenzia le simmetrie, le riprese, i ritorni, specchio di quell’ansia formale sempre presente in Brahms, ma qui in modo tutto particolare; e snebbia infine gli stessi impasti timbrici, puntando alla luminosità dei colori, non alla sovrapposizione di macchie sonore indistinte.

Che si trattasse comunque di scelte precise e coerenti, di un’idea propria dell’opera, era dimostrato dalla differenziazione nettissima di mondi sonori fra il Requiem e l’Ouverture tragica: qui, come ben si addice al lavoro di un Brahms più maturo e già individualmente indirizzato verso la piena conquista della Sinfonia, Sawallisch ha tirato fuori accenti più marcati, dinamiche più sbalzate, colori più accesi, passaggi più sinuosi, rapporti più frastagliati; coniugandoli però sempre sul piano della forma musicale, e facendo risaltare così l’opposizione quasi gestuale, di stampo teatrale, fra i due temi, o meglio fra due sezioni tematiche già in sé variamente elaborate e ricche di idee collaterali, alla maniera più autenticamente brahmsiana.

Accanto alla prova tutto sommato adeguata dei due solisti del Requiem tedesco, il soprano Barbara Bonney e il baritono Jorma Hynninen, l’orchestra e il coro hanno dato il massimo e con buoni risultati, fatte salve le parziali riserve avanzate all’inizio. Che poi questo massimo non coincida né con la perfezione né con il massimo in assoluto, è cosa che in questo momento deve apparire chiara agli stessi dipendenti di Santa Cecilia, i quali in un comunicato diffuso al concerto rimarcavano le condizioni precarie e difficili nelle quali si trovano a dover lavorare. Senza entrare nel merito specifico delle richieste, ci pare che non sia giusto gettare loro la croce addosso; dopo tutto, una volta tanto, essi rivendicavano non soltanto indennità e miglioramenti salariali, ma anche il diritto di lavorare di più e meglio, con maggiore professionalità e impegno. Diritto che sembrava perfino sentito alla stregua di un dovere.

Musica Viva, n. 12 – anno VI

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