Con il Fidelio di Beethoven eseguito in forma di concerto sotto la direzione di Lorin Maazel l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha virtualmente chiuso la sua stagione, non contando le trionfali appendici di Bernstein direttore di se stesso (ma Songfest non è uno dei suoi pezzi più significativi) e di Mehta in tournée con la New Philharmonic (ma a Roma è toccato, fra i vari programmi, il pezzo più prelibato, la Quinta Sinfonia di Mahler). L’inserzione di un’opera come Fidelio nel programma della massima istituzione di concerti italiana si giustificava con la celebrazione del 40° anniversario della Liberazione, ma non costituiva di per sé una novità. Non solo a Santa Cecilia, ma anche altrove, la prassi di eseguire opere destinate al teatro in forma, come si diceva un tempo, “”accademica””, è ormai invalsa e sottintende talvolta una polemica più o meno aperta verso l’invadenza della regìa moderna. Non era però questo il caso della presente occasione, per quanto la possibilità di ascoltare una volta tanto Fidelio senza preventive, esibite distinzioni fra buoni e cattivi, e soprattutto senza rivestimenti di simboli nazisti e fascisti e latino-americani, lasciando parlare la musica di Beethoven, era quasi un salutare bagno di purificazione. Fidelio, del resto, è opera eminentemente statica e oratoriale, nella quale gli accadimenti musicali, nel loro progressivo trapasso dalla sfera individuale a quella universale, si prestano in maniera problematica a una realizzazione adeguata sulla scena: sia per la presenza dei dialoghi parlati, che raffreddano l’incalzare del dramma, sia per la sproporzione fra la piena continuamente rinnovata delle invenzioni musicali e il parallelo svolgersi dell’azione nei diversi ambienti e situazioni. Come rendere per esempio all’altezza della musica il passaggio dal clima settecentesco e idilliaco dell’inizio al metafisico delinearsi dei destini individuali nel Quartetto, dall’eruzione degli opposti stati d’animo nelle grandi arie di Pizarro e di Leonora allo struggente inno alla luce del coro dei prigionieri?
Tagliando la testa al toro, Maazel propone il Fidelio senza dialoghi parlati e purtroppo anche senza il melologo che apre la seconda scena del secondo atto: decisione incomprensibile, quest’ultima, giacché toglie il riferimento alla discesa nel carcere della salvatrice Leonora e il senso di ciò che segue. Curiosa è anche la rinuncia alla Leonora n. 3 tra il primo e il secondo quadro di quest’atto: giacché se in teatro questa pagina dovrebbe essere doverosamente soppressa in nome dell’economia drammatica, proprio l’esecuzione in forma di concerto parrebbe la sede più adatta per colmare la mancanza della scena ribadendo la concentrazione sinfonica con uno squarcio di accresciuta intensità espressiva. Fatte salve queste riserve, Maazel rende la partitura in modo magnifico e anche interpretativamente interessante. E chiaro che l’orchestra assume un ruolo di primo piano e diviene la protagonista del discorso musicale: ma non è forse così anche in realtà, giusta la determinante tessitura sinfonica e la ricchezza in essa di gesti e sfumature drammatiche interamente racchiusi nella musica?
Maazel passa senza strappi dall’idillio alla tragedia e da questa alla trasfigurazione finale sottolineando la continuità del percorso drammatico e musicale. Nella sua visione non ci sono tensioni che non possano essere risolte dall’analisi della partitura: e se dunque le asprezze e le dolcezze vengono smorzate a attutite, il senso plastico ed espressivo risalta con nitidezza di contorni nel contesto di una fondamentale unità stilistica. Il Fidelio di Maazel è un monumento della classicità che viene offerto con partecipazione immediata, senza indugi o forzature. Non per questo i nodi cruciali vengono elusi o minimizzati: essi hanno un peso giusto sia nella preparazione che nello scioglimento, un equilibrio che si trasmette anche nel bilanciamento delle sonorità, nella pastosità dei timbri e nella calibratura delle linee melodiche. E c’è anche la giusta proprietà delle accensioni drammatiche, lo scatto perentorio nei momenti culminanti, la distensione là dove la musica sembra contemplare se stessa e attingere le soglie del sublime. Insomma, un Fidelio quasi ricondotto allo stato di musica pura, assoluta (ciò non è tutto, certo, ma senz’altro abbastanza). Più che buona la prova dell’orchestra, guidata dal gesto di Maazel con sicurezza e flessibilità, aiutata dalla magistrale capacità del direttore di anticipare e svelare ogni problema e insidia con caratterizzante pertinenza. Eccellente il coro istruito da Norbert Balatsch con cura suprema della dizione e degli spessori fonici, quasi si trattasse di un coro tedesco con in più una caratura vocale tipicamente italiana per luminosità e rotondità. Congrua e appropriata la prestazione della compagnia di canto, in cui spiccavano la Leonora di Elisabeth Connell e il Pizarro di Hermann Becht, accanto a una valorosa pattuglia di giovani di belle speranze (Georgina Resick, Helmut Berger-Tuna, Walter Groenroos). Doppiamente apprezzata la prova del tenore Thomas Moser, costretto, per indisposizione del collega Brenneis, ad accollarsi la parte di Florestano dopo aver cantato nel primo atto quella di Jaquino. E quell’incidente imprevisto sembrava messo lì a bella posta per ricordarci che Fidelio, come tutte le opere di teatro, vive anche di inconvenienti pratici e appartiene all’oggi e all’ora delle nostre esperienze e precarietà.
Musica Viva, n. 7 / 8 – anno IX