Il Faust di Schumann
Sembra che già nel 1832, a ventidue anni, Schumann avesse accarezzato l’idea di mettere in musica il Faust di Goethe, terminato appena l’anno prima ma a lui ben noto, per quanto riguardava la prima parte della tragedia (1808), sin dagli anni dell’infanzia. Uno degli Intermezzi op. 4 per pianoforte — il secondo in mi minore — sarebbe stato ispirato dal canto di Gretchen all’arcolaio che inizia con le parole Meine Ruh’ ist hin, canto sul quale, diciotto anni prima, Schubert aveva creato un tipo di Lied assolutamente nuovo per carattere e forma e che Schumann avrebbe qui parafrasato mediante il pianoforte, forse a voler dare espressione a una pena d’amore, più probabilmente a uno stato interiore di profondo disagio esistenziale che di lì a poco sarebbe sfociato in una vera e propria, devastante crisi depressiva: la prima di una lunga serie. Schumann ne uscì inventandosi un mondo fittizio – la lega dei fratelli di Davide – e un impegno fantastico – la lotta contro i filistei -, abbandonando per il momento ogni idea faustiana.
Ripresa oltre un decennio più tardi, quest’idea si sarebbe sviluppata in una delle più corpose e impegnate partiture di Schumann, di un genere inedito la cui definizione risulta a prima vista problematica: non oratorio profano, benché sia intriso del suo spirito, impieghi i suoi mezzi compositi e ne adotti la veste drammatica non rappresentativa; non vera e propria opera destinata al teatro, benché il titolo – Scene dal «Faust» di Goethe – sembri sottolineare l’importanza dell’elemento scenico-drammatico; non sinfonia con voci e coro, per quanto l’incidenza della componente sinfonica sia di gran lunga superiore. E neppure, da ultimo, semplice illustrazione aggiunta dei passi virtualmente «musicali» presenti nel Faust, giacché l’intento di Schumann mira a raggiungere la piena unità e corrispondenza non soltanto di parole, fatti e suoni ma anche, in un senso assai più profondo, di pensiero, poesia e creazione musicale.
La stessa genesi, lunga e tormentata, della composizione, alla cui realizzazione occorsero quasi dieci anni, rispecchia l’impegno con cui Schumann, nel rivestire di musica un testo che lo entusiasmava tanto quanto lo ossessionava, strenuamente agì al fine di appropriarsi del Faust e ritagliarne un’interpretazione congeniale alla sua natura di artista; un’interpretazione, quella di Schumann, che dovendo fatalmente scegliere fra una massa incredibilmente ricca di temi e di situazioni, fin dal principio privilegiò quelle valenze mistiche e quelle risonanze spirituali che gli sembravano predestinate a incarnarsi nella sua musica. La via seguita appare a questo riguardo estremamente istruttiva e, indirizzata da questa ricezione del capolavoro di Goethe, condizionante per il significato stesso dell’opera.
Fu dunque alla fine del 1843 che Schumann decise di mettere in cantiere il progetto a lungo vagheggiato. Nel 1844, di ritorno da un viaggio in Russia con Clara, iniziò la composizione par-tendo dall’ultima parte del Secondo Faust, e precisamente dall’imponente scena finale del poema che, nella versione definitiva del musicista, costituirà la terza e ultima parte ma, dal punto di vista compositivo, è il nucleo centrale e originario del lavoro. Interrotta più volte, quest’ultima parte fu completata nell’aprile 1847, salvo aggiungersi, in luglio, una seconda versione del conclusivo Chorus Mysticus. Due anni dopo Schumann estese il lavoro a ritroso alla prima e alla seconda parte. Le tre scene iniziali, tutte dal Primo Faust (Scena nel giardino, Margherita davanti all’immagine della Mater dolorosa, Scena in duomo), videro la luce nella prima metà del 1849, insieme con la quarta, prima della seconda parte (Ariel e il risveglio di Faust), che si distacca dalle precedenti per un evidente salto di clima ma è in stretta relazione con esse «per contrasto»: e sembra che Schumann ne sentisse la necessità per sottrarsi all’oscuro incubo che lo assillava. Si attua qui infatti un primo passaggio verso l’atmosfera meno cupamente drammatica e più diffusamente simbolica del Secondo Faust, cui appartengono anche le due restanti scene delta seconda parte, Mezzanotte e Morte di Faust, composte nel 1850. Alla forma dell’opera così come noi la conosciamo mancava soltanto l’Ouverture, che Schumann stese per ultima nel 1853 riassumendovi, in una struttura saldamente sinfonica, il materiale musicale fondamentale e i tratti caratteristici elaborati nelle sette scene.
Il percorso tenuto da Schumann per estrarre dal Faust la materia di una composizione formalmente sui generis non segue, come è chiaro, un mero calcolo compositivo, ma nasce da precise scelte interpretative che stabiliscono una gerarchia fra le tre parti in base a significati non soltanto poetico-musicali ma anche metafisico-spirituali. Non è senza valore che Schumann cominciasse proprio dalla fine del poema. L’importanza dominante di questa vasta scena articolata in sette numeri non risiede tanto nel fatto che da sola essa occupi una buona metà del lavoro quanto piuttosto nel suo significato di trasfigurazione dei conflitti precedenti, subordinati e finalizzati alla contemplazione di una realtà immateriale di puri angeli e di essenze perfette cui la voce del coro (non soltanto nel conclusivo Coro mistico) conferisce toni di universale individualità. Non sembra esagerato asserire che Schumann vi abbia potuto vedere quella realizzazione dell’assoluto musicale cui la metafisica romantica della musica, da lui ripristinata anche teoricamente dopo l’applicazione pratica nella lotta contro i filistei, costituzionalmente tendeva; e niente meglio di questo Finale «incommensurabile» poteva esprimere l’aspirazione all’assoluto incondizionato, all’infinito come totalità organica riconquistata e divenuta, attraverso la musica, percepibile ed eloquente.
È in relazione con questo stadio ultimo delle possibilità espressive della musica – intrecciato con il tema della Redenzione e della progressiva conquista della Perfezione come svuotamento della Sehnsucht (nostalgia) e dello Streben (anelito a), stante l’interpretazione schumanniana dell’estrema visione di Goethe – che si dispongono le altre due parti del lavoro. La prima parte, drammatica e movimentata, ispirata dal Primo Faust, dipinge la vicenda amorosa di Faust e Margherita, e ad esserne protagonista, nella brevità essenziale delle tre scene, è la giovane donna: vittima predestinata del sacrificio, appena consumati gli attimi di una felicità fugace, costei si consegna intera al dolore e all’angoscia, solo per far risaltare più lucidamente il trionfo del riscatto.
La seconda parte, della quale è Faust il protagonista, trascende l’elemento terreno per svolgersi nel mondo fantastico degli spiriti (Elfi, ma anche spettri e dèmoni) e della natura. Il peso allegorico è marcato: Faust è un simbolo dell’umanità intera. È la parte più fiorita, suggestiva e romanticamente rigogliosa, del lavoro: gli stessi elementi descrittivi e illustrativi valgono a incorniciare i simboli che vi appaiono nel mondo di fiaba di una natura dai vasti confini.
Se la terza parte è il punto di arrivo e nello stesso tempo l’origine della partitura schumanniana, sarebbe sbagliato vederne l’articolazione come un movimento lineare e continuo di ascesa, o addirittura come un processo di tipo dialettico che trova la sintesi nella contemplazione mistica, dopo aver attraversato la regione delle vicende umane e quella degli spiriti e della natura. Le tre parti, o meglio le sette scene complessivamente, sono altrettanti quadri a sé stanti, non legati da continuità drammatica né tantomeno melodrammatica, che illuminano, a livelli differenti, un unico tema poetico: l’aspirazione all’assoluto incondizionato, privato di ogni carico materiale. (Sotto questo profilo il Faust di Schumann è opera fortemente ideologica in quanto risultato di una concezione estetica radicale; ma è anche opera autobiografica, che ci parla delle ossessioni, delle visioni e delle più intime aspirazioni del suo autore: e più volte, nei suoi sogni inquieti, Schumann si era visto circondato dagli Elfi, dilaniato dai Lemuri, trasportato in cielo dagli angeli). Né Faust, né Margherita, né Mefistofele hanno una storia in quanto personaggi di un’azione, men che mai se intesa in senso unitario e omogeneo: essi sono aspetti di un’unica realtà la cui vera sostanza sta nella musica che l’avvolge e ne dischiude le zone più riposte, per depurarsi infine nella concentrazione assorta e nella solennità intenzionale dell’apoteosi finale. E forse nessuno meglio di Schumann ha saputo cogliere questo senso di perfezione immanente cui il poema di Goethe da ultimo guarda, in una intuizione mistica che appare romanticamente la più prossima alla musica. Riassumendo: l’intenzione di musicare, del Faust, anzitutto la scena finale, è la ragione stessa dell’opera di Schumann. Essa condiziona la sua concezione globale. E le altre scene sono per così dire stadi preparatori di essa.
Il mito di Faust, attraverso il poema di Goethe, influenzò profondamente la cultura del’Ottocento ma non dette, a quanto pare, frutti musicali di pari altezza. Goethe aveva elevato quel mito, le cui origini risalivano a oltre tre secoli prima, a paradigma estetico non meno che concettuale e filosofico, senza tuttavia ridurre il gusto composito e la molteplicità di motivi che intorno ad esso ruotavano. Così facendo aveva ripresentato l’antica leggenda in tutta la sua attualità, ma per così dire esaurendola e non lasciandole spazio per ampliamenti e prosecuzioni, non almeno in ambito letterario e drammatico: nella sua incalcolabile ricchezza il Faust di Goethe è un’opera virtualmente aperta, ma in realtà chiusa in se stessa, cui soltanto la musica aveva modo di prestare un contributo congeniale. Del resto, la musica vi è richiesta in molti passi dichiaratamente operistici e coreografici, senza che per questo si pensasse a provvederlo una volta per tutte di musiche di scena originali: segno che, se da un lato la musica – come mezzo espressivo autonomo – avrebbe potuto esserne incentivata e influenzata, ciò non sarebbe potuto accadere in una posizione subordinata, meramente funzionale alla categoria applicata di «musiche di scena».
Ciononostante, è a prima vista singolare che in Germania, a parte Schumann, nessun musicista osasse affrontare direttamente e globalmente il testo di Goethe, che dette invece frutti doviziosi nel campo del Lied (una parziale eccezione può essere vista in Die efste Walpurgisnacht di Mendelssohn, che nella versione definitiva del 1843 influenzò senza dubbio Schumann). Fuori di Germania, invece, esso fu oggetto di svariate rielaborazioni, ognuna in qualche modo debitrice al poema e a suo modo sollecitata da spunti là presenti. Il filone più denso interessa il teatro d’opera, ma è quello che più immiserisce lo spirito originale del poema di Goethe, o quanto meno lo restringe: al Faust di Gounod (1859), che divenne una delle opere più popolari dell’Ottocento, non fu mai perdonata la drastica riduzione del soggetto goethiano a dramma borghese di tono spiccatamente lirico-sentimentale, tanto che in Germania esso circolò – e circola tuttora – col titolo cambiato in Margarethe. (Che questo banale accorgimento bastasse a trasformare un delitto di lesa maestà in fortuna duratura, è altro discorso). Quanto al nostro Boito, che nell’adattare il Faust a melodramma diversamente da Gounod ne utilizzò abbastanza fedelmente sia la prima che la seconda parte, già la scelta del titolo – Mefistofele (1868, seconda versione 1875) – indica un mutamento di rotta che accentua, rispetto a Goethe, il problema ideologico e spirituale dell’eternità del male. (La vera debolezza del Mefistofele di Boito sta nell’incapacità della musica di esprimere questa ricchezza di motivi drammaturgici e poetici).
Mentre la tragedia goethiana, nella sua originaria identità intessuta di alti valori estetico-filosofici, sembrava negarsi alla dimensione operistica – tanto che un ambizioso come Wagner, pur tentato, vi rinunciò, limitando a una Ouverture (1840, seconda versione 1855) e a sette brani sparsi dalla Prima parte (1832) il suo debito al tema, e un paladino di Goethe come Busoni preferì eludere il confronto e basare la sua creazione faustiana sull’antico spettacolo di marionette (Doktor Faust, 1925, incompiuto) —, un altro filone si impadronì del Faust per renderlo in una prospettiva ampliata alla musica sinfonica. Sono i casi della Faust-Symphonie di Liszt (1853-57) e dell’Ottava Sinfonia di Mahler (1906-07). Per quanto Liszt suddivida le tre parti della sua Sinfonia — definite «Charakterbilder», ossia raffigurazioni di caratteri – con chiari riferimenti ai personaggi principali di Goethe e Mahler accosti direttamente l’inno medioevale Veni creator spiritus alla scena finale del Faust quasi vedendo in essa il pendant di quello, è evidente che l’assunto goethiano è nel primo caso un programma extramusicale di contenuto spirituale e ideale, nel secondo un grandioso messaggio di fede e di speranza nella forza dell’amore (come Mahler spiegava in una lettera alla moglie del 1909). Insomma il Faust non vale qui per quello che è, summa di un atteggiamento estetico e filosofico che si costruisce passo dopo passo, ma quale sostegno fantastico da cui la grande forma della Sinfonia può trarre giovamento e nutrimento ampliandosi a dimensioni abnormi e inglobando anche i mezzi vocali, senza per questo perdere i suoi requisiti strutturali ed espressivi. I due filoni – quello operistico e quello sinfonico – si escludono dunque a vicenda in quanto concezioni radicalmente opposte di uno stesso tema; eppure, entrambe appaiono giustificate dalla ricchezza stessa della materia, dalla sua forma insieme spettacolare e astrattamente concettuale.
E Schumann? Schumann sceglie una via intermedia e del tutto personale che, per quanto effettivamente isolata, ha apparenti punti di contatto con la leggenda drammatica La Damnation de Faust (1846), che Berlioz aveva ricavato dalla versione francese del Faust di Gérard de Nerval incorporando le Huit scènes de Faust composte vent’anni prima. A parte il titolo della prima versione, punti di contatto in realtà non ce ne sono. Berlioz tende infatti a distaccarsi da Goethe nella misura in cui Schumann tenta di decifrarlo; là c’è un cammino verso una drammatizzazione che, senza giungere ad essere operistica, sottende una precisa drammaturgia e un’azione drammatica continua, incalzante, visionaria, per sfociare nella condanna di Faust e nel suo annientamento; qui invece una introspezione del dramma verso la pura contemplazione di quadri staccati, in sé compiuti, tenuti insieme da una logica musicale che ha il suo fondamento nell’elemento sinfonico e la sua mèta nell’aspirazione a raggiungere uno stato d’animo placato – «compenetrato nell’Essere e nel Tutto» (Schumann) -, nella sfera dell’università e del simbolo. Anche sotto questo riguardo, dunque, la posizione di Schumann è unica.
Nonostante le oscillazioni tra fasi d’ispirazione e di inaridimento, con la maligna incidenza di depressioni e crisi nervose ricorrenti, gli anni nei quali Schumann lavorò al Faust circoscrivono un periodo – l’ultimo prima del crollo definitivo – di relativa tranquillità e di forte impegno compositivo. Conclusa la serie stupefacente delle creazioni pianistiche giovanili, consolidata la sua posizione nel campo del Lied con la messe impressionante del 1840 (l’anno del matrimonio con Clara Wieck), Schumann aveva intrapreso una energica azione di sfondamento sul terreno delle grandi forme sinfoniche e da camera, per estenderla poi al teatro (con scarsissimo successo) e ai generi che consentivano di legare l’orchestra alle voci e ai cori, in un nuovo tentativo, sovente contraddittorio, di «spontanea» fusione poetico-musicale. L’oratorio Il Paradiso e la Peri (1841-43), l’opera Genoveva (1847-50), le musiche di scena per il Manfred di Byron (1848-51), l’indecifrabile Pellegrinaggio della rosa (1851), la Messa e il Requiem (1852), oltre naturalmente alle Scene dal «Faust», sono lavori che testimoniano lo sforzo di agganciare la musica a grandi temi ideologici, cui senza dubbio Schumann annetteva enorme importanza. L’influenza di Goethe, antica ma a lungo dissimulata dal più istintivo contatto con Jean Paul e Hoffmann, s’impone in questo periodo per la sua complessità meno soggettiva e più controllata. Il ciclo di Lieder und Gesänge op. 98a (1841) e il Requiem für Mignon op. 98b (1849), entrambi dal Wilhelm Meister – opera che Schumann stimava alla stessa altezza del Faust – , segnano l’approdo a un romanticismo più profondo e più sereno, nel quale la musica, senza perdere i suoi caratteri espressivi, diviene un mezzo per comunicare pensieri e stati d’animo assoluti.
Nelle Scene dal «Faust», che abbracciano l’intero periodo della piena maturità di Schumann – solitamente giudicato dalla critica un periodo di decadenza -, è possibile seguire le tracce di questi diversi atteggiamenti e scorgere i semi di un lavoro sperimentale sul linguaggio che non appare altrove in modo così esteso e grandiosamente ambizioso. I1 rapporto con il testo di Goethe, che Schumann adatta alle proprie esigenze tagliando e ricucendo i versi, parte senza dubbio da presupposti letterari ma è volto, più che all’intonazione della parola o della frase, alla caratterizzazione poetica dell’immagine e alla sua definizione musicale. Il trattamento estremamente differenziato delle voci soliste, ognuna delle quali incarna un personaggio reale e uno o più personaggi simbolici, spazia dalla molteplice varietà dello stile liederistico a modi di stampo operistico (dal recitativo all’arioso), mantenendo una linea di autonomia musicale anche nei passi più drammatici: a metà strada, un declamato aperto e flessibile, particolarmente adatto alle visioni estatiche della terza parte. Di grande impegno è la partecipazione del coro, protagonista di molti episodi e spinto a tessiture impervie (non soltanto all’acuto) secondo un uso che si rifà a tradizioni corali specificamente tedesche, tradizioni che del resto proprio Schumann contribuì ad arricchire e consolidare con un diuturno esercizio professionale. Ma è l’orchestra il mezzo attraverso il quale Schumann crea il clima poetico dell’opera, un’orchestra continuamente in primo piano non soltanto nei passaggi strumentali introduttivi o di collegamento ma anche nell’azione musicale vera e propria. La ricchissima varietà delle proposte timbriche, dove Schumann eccelle come maestro dei particolari e delle sottigliezze combinatorie, sembra nascere da un’idea di orchestrazione assoluta più che di strumentazione a tavolino: e a quanto pare è il senso poetico del sentimento a dettare questa caratterizzazione. Anche nei passi più compatti e imponenti circola all’interno della compagine strumentale una brulicante gradazione di accenti e di tinte che costituisce il tono fondamentale della scrittura schumanniana, di un musicista cioè tanto a disagio nella conduzione di un discorso sinfonico autonomo quanto adatto a mediarlo per mezzo di un nucleo poetico che si espande e, trasmutando, si evolve. L’inadeguatezza dello Schumann sinfonista è l’inadeguatezza di un postero di Beethoven non più in grado di concepire le grandi forme come architetture organiche e autosufficienti; ma se là un percorso armonico stratificato e deviante nuoce all’evidenza dell’insieme, qui è da ciò che deriva quella pertinente varietà armonica che, con le sue deviazioni e riconduzioni cicliche, collega e chiarisce episodi anche lontani fra loro. E vedremo nel dettaglio come proprio sotto il profilo armonico-tonale la partitura sia sorretta da simmetrie e corrispondenze che cementano le diverse scene in unità non drammatica ma strutturale-musicale, quasi a ribadirne l’interpretazione di fondo dei significati poetici e spirituali in un’ascesa, anche musicale, verso lo stadio supremo della definitiva compiutezza.
La prima esecuzione completa delle Scene dal «Faust» avvenne a Colonia il 13 gennaio 1862 sotto la direzione di Ferdinand Hiller. I giudizi furono discordi, ma per lo più negativi e critici verso le «disuguaglianze di qualità stilistica» presunte o riscontrate nel lavoro. Ancora oggi rimane opera di esecuzione non frequente. E opera controversa.
Schumann era morto da sei anni. Aveva potuto ascoltarne soltanto un’edizione incompleta nell’estate 1849 quando il lavoro, nello stato in cui si trovava, era stato eseguito a Dresda, Lipsia e Weimar – su interessamento di Liszt – in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita di Goethe. Liszt era stato assai più generoso dei futuri critici: «Quest’opera bella e grandiosa» – aveva scritto da Weimar all’amico – «ha suscitato l’impressione più bella e più grandiosa». E Schumann gli aveva risposto: «Gli attestati di simpatia che mi giungono da vicino e da lontano mi testimoniano che il mio lavoro non è inutile. Così noi tessiamo, tessiamo la nostra tela e finiamo per divenire tutt’uno con essa».
L’Ouverture è nella tonalità di re minore e si articola in una Introduzione («Lento, solenne») e in un movimento in forma di sonata («Poco più mosso»). I due temi, pur nettamente circoscritti, tendono più a confluire l’uno nell’altro che a contrapporsi drammaticamente; il materiale di contorno richiama figure delle scene già composte ma non alla lettera: più che di una anticipazione del materiale tematico vero e proprio è lecito parlare di una esposizione dei conflitti e di una introduzione nel clima spirituale e psicologico di ciò cui assisteremo. Ed è in questo senso significativo che la tonalità di fa maggiore, quella della trasfigurazione finale, appaia di passaggio già connotata di valore positivo e affermativo, e che l’Ouverture, così profondamente imbevuta del modo minore, culmini in una perorazione di tono innodico nella tonalità di re maggiore, cui si uni-forma anche la breve ma incisiva Coda, quasi a voler sintetizzare le tappe e i traguardi delle diverse scene e dell’opera intera.
Omettendo senz’altro presentazioni e convenevoli, Schumann comincia dal momento più intenso al dialogo fra i due: poche battute introduttive bastano a creare un clima di tenero idillio, nel quale il canto dei due innamorati si inserisce con naturalezza di tono affatto liederistico. Alla ferma dichiarazione di Faust, contrappuntata da un motivo arpeggiato ascendente, fa riscontro l’esitazione commossa di Margherita, echeggiata dall’orchestra con incisi di seconde discendenti e ascendenti rotti da brevi pause. L’armonia sottolinea quest’incertezza attestandosi sulla dominante e risolvendo di volta in volta, a seconda dello stato d’animo in quell’istante prevalente, su accordi minori o maggiori. Segue poi il giuoco, delicato e ingenuo, della margherita, che la ragazza sfoglia per conoscere il suo destino: su un pedale di dominante interrogativamente sospeso, si alternano ora direttamente triadi maggiori al «m’ama» e triadi minori al «non m’ama». Solo quando Faust, con trasporto, dichiara appassionatamente il suo amore, la tonalità di fa maggiore si espande in tutta la sua chiara forza risolutrice, appena increspata da un brivido di presentimento alle parole di Margherita «Tremo tutta» (effetto di tremolo nei secondi violini). Interviene a questo punto Mefistofele per annunciare che è tempo di separarsi: il suo recitativo, introdotto da una saltellante figura discendente del fagotto su un ritmo di duine che sfasa l’equilibrio metrico della scena (in tempo 12/8), più che interrompere turba per sempre la serenità dell’idillio. Gli fa eco la brusca interiezione di Marta. Sul congedo rapido dei due innamorati (le parole della breve chiusa sono di Schumann), l’orchestra fa riudire, in fa maggiore, le battute introduttive, questa volta ripiegate su se stesse, piano e come scomparendo.
N. 2. Margherita davanti all’immagine della Mater Dolorosa (Margherita sola). Tonalità di la minore/re minore/la minore. (Con la complicità di Mefistofele, Faust ha posseduto Margherita. Oppressa dall’angoscia e dal pentimento per le conseguenze della sua colpa – costei porta ora in grembo un bambino – Margherita si rivolge alla madre di Dio, proiettando nell’immagine del suo dolore davanti al figlio straziato sulla croce il proprio impotente smarrimento. E solo lei potrà, se non consolarla, almeno comprenderla e perdonarla.)
Questa scena, di un pathos tutto interiore (tanto diverso dall’esteriorità ad effetto del melologo di Wagner sullo stesso testo), è interamente dominata dalla figura del semitono discendente, cui una lunga tradizione – fin dai tempi di Haydn e Mozart – aveva attribuito il titolo di «formula del dolore». I1 colorito cupo dell’orchestra, dominata da viole e violoncelli e scossa da sforzati e indugi improvvisi, quasi colpi inferti a straziare l’anima, è lo sfondo su cui si inarca un canto lacerato, che si innalza verso l’alto solo per ricadere più pesantemente in basso. Le prime due terzine hanno il loro punto culminante nelle parole Not (pena) e Tod (morte); la terza, che descrive il dramma della madre di Dio, sfocia in un «Più mosso» che torna a intensificare, quasi in un ritorno ciclico, il peso affannoso di parole-chiave quali Weh (tormento) e Weinen (piangere), ancora una volta in un alternarsi di slanci verso l’acuto vanificati dal ricadere nella «formula del dolore». Una imprevista, distesa apertura si ha all’inizio della seconda parte – in re minore – allorché Margherita, con atto di pietà anzitutto verso se stessa, depone i fiori bagnati dalle sue lacrime nel vaso ai piedi dell’immagine santa: e per associazione, al ricordo del risveglio nella luce del primo sole, si ode una modulazione a fa maggiore. Con scarto improvviso, scabri accordi in fortissimo sferzano l’ultima disperata invocazione d’aiuto; indi, «Poco più lento», la ripresa variata della prima terzina sul tremolo dell’orchestra, cui tocca poi di sostituirsi al canto, ormai fattosi muto, per concludere la scena: e quasi non ci accorgiamo che la «formula del dolore» si è qui mutata nel suo inverso, in un semitono ascendente mormorato da viole e fagotti.
N. 3. Scena in duomo (Spirito Maligno, Margherita e coro). Tonalità di re minore/re maggiore/re minore. (La madre di Margherita è morta in seguito al sonnifero somministratole dalla figlia su istigazione di Mefistofele; Valentino, il fratello minore che intendeva vendicare l’onta della famiglia, è stato ucciso in duello da Faust. La tragedia di Margherita si consuma: mentre assiste in chiesa all’ufficio dei morti, uno Spirito Maligno le si avvicina e le parla, ricordandole le sue colpe.)
Momento impressionante, di violenta drammaticità, la scena in duomo innesta su possenti travature sinfonico-corali il dialogo fra Margherita e lo Spirito Maligno, altra incarnazione di Mefistofele; e il materiale presentato in precedenza, quello che aveva accompagnato l’entrata di Mefistofele da un lato e quello del dolore di Margherita dall’altro, si intrecciano fino a vette di altissima concentrazione espressiva. Lo Spirito Maligno agisce subdolamente su Margherita attraverso il ricordo; ed è un peso al quale la donna può opporre soltanto esclamazioni di disperazione. Intorno a lei risuonano, sempre più imperiose, le voci ammonitrici del Dies irae e gli appelli tremendi delle trombe del giudizio; alla strofa del Judex ergo una modulazione a re maggiore rende ancor più massiccia l’evocazione del giudice supremo. Margherita non regge e, quasi schiacciata dal carico dei suoni che la circondano e l’ammoniscono, perde i sensi, mentre ora le voci mormorano, in uno sconsolato re minore, le parole dello smarrimento e dell’espiazione (Quid sum miser tunc dicturus?), cui ormai anche Margherita è destinata.
N. 4. Ariel. Il risveglio di Faust (Ariel e coro. Faust). Tonalità di si bemolle maggiore nel primo episodio (Ariel), di mi minore/mi maggiore nel secondo (Il risveglio di Faust). (Margherita ha partorito e subito ucciso suo figlio, ed è stata incarcerata e condannata a morte. Invano Faust, oppresso dal rimorso, cerca di salvarla dal carcere: Margherita rifiuta di seguirlo e si rimette al giudizio di Dio. Sopravviene l’alba. Già quasi dall’oltretomba, Margherita ripete il nome dell’amato, additandogli nuovi orizzonti spirituali. Si chiude qui la prima parte del Faust di Goethe.)
Inizia la seconda parte della tragedia. Un luogo ameno. Faust, adagiato sull’erba fiorita, riposa inquietamente. È il crepuscolo. Intorno a lui aleggiano stormi di spiriti e di folletti, guidati da Ariel. È costui lo spirito etereo e generoso di shakespeariana memoria, che ora raduna gli elfi della foresta affinché preparino, al sorgere del sole, il risveglio di Faust, purificato e reso consapevole della sua nuova missione. Il primo episodio di questa scena è tripartito: nel canto di Ariel e nella risposta del coro degli spiriti Schumann rispetta’scrupolosamente le indicazioni del testo -che già di per sé richiede l’intervento della musica – sia nell’accompagnamento di arpe eolie per Ariel (reso con una geniale combinazione di arpa, violini e violoncelli) sia nella disposizione del coro a solo, diviso a due e più, alternando ed insieme. La ripresa della prima parte è affidata nuovamente al canto solitario di Ariel, che annuncia il sorgere del sole e il prossimo risveglio di Faust.
L’episodio del risveglio è interamente affidato al canto di Faust: una nuova energia lo penetra, la contemplazione dell’iride che il sole mattutino accende dal pulviscolo di una cascata lo restituisce all’attività. Nella lenta ma inesorabile progressione dal modo minore al modo maggiore si percepisce un nuovo entusiasmo, una volontà rianimata. Il canto di Faust è finalmente ampio e disteso. La natura, con i suoi suoni e le sue pulsazioni, è lo sfondo magico e misterioso che vivifica e puri-fica le sensazioni del personaggio. Alla violenta drammaticità delle scene precedenti subentra una calma rilassata, carica di attese e di vita ma non inquieta; della natura, più che semplicemente descriverla, la musica sembra voler cogliere l’essenza poetica con un lirismo che, se fa pensare al Mendelssohn del Sogno di una notte d’estate, è schumanniano per la dovizia d’intimità e di slanci effusivi, fino a costituire un repertorio completo di atteggiamenti e stilemi tipicamente suoi. In una parola, del suo romanticismo di sogno.
N. 5. Mezzanotte (Quattro donne grigie e Faust). Accentuata circolarità tonale che dall’iniziale si minore, passando attraverso fa maggiore/si bemolle minore/re bemolle maggiore/re minore, si ricongiunge a si minore e conclude perentoriamente in si maggiore. (Dall’inizio della seconda parte del Faust siamo passati direttamente al quinto atto, alla peripezia della tragedia. Ormai tutto converge sullo scioglimento del destino di Faust.)
Quattro fantomatiche figure femminili – Penuria, Insolvenza, Inedia e Cura – si avvicinano alla casa di Faust, inviate da Mefistofele per comunicargli che l’ora della morte è vicina. Ma una sola di esse, la Cura – l’unica che il ricco e operoso Faust possa temere -, potrà presentarsi a lui. Faust, solo nel palazzo, ha sentito l’arrivo delle quattro donne e sa cosa esso significhi: ma è stupito del fatto che una sola sia rimasta ad attenderlo. Non si potrebbe immaginare contrasto maggiore e più efficace tra questa scena notturna e quella del risveglio che la precede: e benché la scena della mezzanotte sia soltanto un momento di passaggio e di preparazione alla morte di Faust, Schumann costruisce qui qualcosa di assolutamente spettrale e immaginario, lasciandosi coinvolgere ben oltre la facciata persino un po’ ironica del simbolismo goethiano. E bisognerà attendere gli incubi notturni e i deliri di Wagner per avere qualcosa di simile nell’Ottocento musicale.
Il dialogo tra Faust e la Cura occupa la parte centrale della scena e richiama un clima sonoro allucinato, teso, inquietante, fatto quasi solo di recitativi senza canto. Per quanto privo dell’ausilio delle arti magiche cui ha definitivamente rinunciato, Faust resiste alla Cura e si erge eroicamente ad arbitro del proprio destino: riprenderà i grandiosi lavori già progettati e fiderà solo nella ragione e nell’azione. Sarcasticamente la Cura lo deride e col suo soffio l’acceca. Faust comprende: ora che non vede più con gli occhi, saprà scorgere attraverso la luce che gli brilla dentro e si spingerà risolutamente verso l’ultima azione. Un tema solenne ed energico in si maggiore, ripreso dalla Coda dell’Ouverture, annuncia fin troppo inequivocabilmente che il suo trionfo è vicino, spezzando un poco l’incanto e l’ambigua, seducente tensione di questa scena sfuggente.
N. 6. Morte di Faust (Mefistofele e coro di Lemuri. Faust e coro). Tonalità di re minore/la bemolle maggiore (fa minore)/do maggiore. Schumann intitola Morte di Faust questa scena, che in Goethe ha semplicemente un’indicazione d’ambiente: «grande cortile antistante il palazzo». Faust è deciso a portare a termine un grande atto in favore dell’umanità: erigere una città ideale e contornarla di una diga. Ma Mefistofele trama un nuovo inganno: quel che si costruirà è una fossa per seppellire il corpo di Faust, giacché l’anima gli appartiene. E per ciò chiama a sé i Lemuri: il loro approssimarsi è descritto in orchestra da una sfrenata danza macabra ritmata da squilli di tromba. Per la prima volta nella versione di Schumann, Faust e Mefistofele si trovano l’uno di fronte all’altro; alle minacce ora serie ora grottesche del demonio Faust risponde con tranquilla pacatezza: il suo canto, arioso ed espanso, assume a simbolo il semitono discendente di Margherita, ma come fosse trasfigurato e svuotato del dolore. Nell’ultimo monologo, l’invocazione di Faust all’attimo fuggente rappresenta il momento di maggiore intensità espressiva: una modulazione insistita e ripetuta a do maggiore (che qui appare curiosamente la tonalità della morte, contro ogni tradizione) prepara una sospensione in cui la fatalità dello scorrere del tempo è per così dire esorcizzata dalle parole stesse di Faust e dalla sua nobile, calma frase ascendente («Fermati dunque, sei così bello! »). Egli sa che a quell’attimo è legata la sua fine. Un vibrante interludio orchestrale, ancora punteggiato dai segnali dei tromboni, conclude la sua vicenda terrena. L’epilogo, nel quale il recitativo di Mefistofele si perde e scompare nel rarefatto diatonismo del coro (ingenua ma di sicuro effetto la caduta melodica alle parole «va giù!»), informa che «tutto è compiuto». Quel che segue, il corale orchestrale che chiude la seconda parte, già respira l’atmosfera della Trasfigurazione e assicura dell’avvenuta salvezza di Faust.
N. 7. Trasfigurazione di Faust (scena finale del Faust, in sette parti o sezioni). «Gole montane. Bosco, rupi, solitudine, Santi anacoreti distribuiti su per il monte fra gli scoscendimenti»: questo il quadro figurativo dell’ultima scena. Musicata integralmente nei suoi 267 versi, essa presenta una straordinaria complessità e varietà di aspetti pur nella rigida simmetria formale che la governa e nella distribuzione gerarchica, dal basso verso l’alto, dei personaggi maschili e femminili, che si corrispondono anch’essi: Pater Ecstaticus, Pater Profundus e Pater Seraphicus da un lato, Magna Peccatrix, Mulier Samaritana e Maria Aegyptiaca dall’altro. Al di sopra degli uni il Doctor Marianus, al di sopra delle altre la Mater Gloriosa. Parallelamente nella sfera angelica si hanno il coro dei Fanciulli Beati da una parte e il coro delle Penitenti (da cui emergerà Una poenitentium, colei che un giorno era chiamata Margherita) dall’altra: essi confluiranno in una nuova triade, quella di Angeli, Angeli Novizi e Angeli Perfetti, per giungere a contemplare infine tutti insieme in unità la perfezione della gerarchia celeste nel conclusivo Chorus Mysticus.
Vediamo adesso brevemente una per una le sette sezioni dell’ultima scena (sette, come sette sono complessivamente le Scene dal «Faust»). La simmetria tonale e formale è qui molto più stretta che nelle altre due parti e si dispone secondo una figura ascensionale istintivamente richiesta dal senso stesso del testo.
N. 1.
Tonalità di fa maggiore. In questa introduzione a sfondo descrittivo la costruzione musicale realizza un senso ascendente col progressivo sovrapporsi degli strumenti secondo la successione degli armonici: dal fa basso dei contrabbassi si raggiunge il sol acuto dei flauti, punto culminante dell’architettura sonora, per poi ridiscendere, con un incastro sempre più fitto e ravvicinato di ritardi e appoggiature, alla conquista della triade perfetta di fa maggiore, tonalità fondamentale di questa scena. L’immobile fissità che distingue questo prologo è data dalla regolarità dello schema ritmico ternario composto (9/8) e dalla trasparenza di una strumentazione che procede per fasce sonore continue senza strappi o scosse. All’introduzione orchestrale fa seguito il coro, basato sull’effetto dell’eco: soprani e contralti incominciano il canto, tenori e bassi lo riprendono in un sinuoso intreccio contrappuntistico, che a poco a poco muove lo sfondo statico del paesaggio poetico-musicale. (Il procedimento usato da Schumann somiglia a quello concepito da Wagner per l’inizio dell’Oro del Reno.)
N. 2. Tenore solo: Ewiger Wonnebrand, glühendes Liebesband (Pater Ecstaticus). Tonalità di re minore. Pater Ecstaticus è figura in perenne movimento, volteggiante in alto e in basso a collegare tra loro sfere superiori e inferiori: il «fuoco eterno dell’estasi» significa per lui solo nostalgia infinita e inappagata attesa di placarsi nella perfetta immobilità dell’essenza divina. Il suo movimento perpetuo è reso dal violoncello solo con una figura che, estendendosi all’orchestra, accompagna da capo a fondo il canto, a sua volta caratterizzato dalla mancanza di riposo sul tempo forte della battuta, quasi a voler simboleggiare il desiderio di un «legame ardente d’amore» che non giunga a realizzarsi. (Si noti di passaggio che il tema del violoncello è strutturalmente affine a quello che sin dall’Ouverture caratterizzava la forza del male, ossia Mefistofele, e che qui, con ardita metafora, esso si ribalta nel proprio opposto – ossia il Bene – in uno stadio di incompletezza e di ricerca.)
N. 3. Basso solo: Wie Felsen-Abgrund mir zu Füssen (Pater Profundus. Poi Pater Seraphicus e coro di Fanciulli Beati).
Tonalità di si bemolle maggiore. Pater Profundus, confinato nella regione più bassa della gerarchia celeste, esperimenta Dio per mezzo della conoscenza razionale e intellettuale: ha «pensieri profondi e giusti» ma non possiede la fiamma dell’intuizione rivelatrice. Al suo canto pervaso di immagini della vita terrena Schumann presta mediazioni di carattere analogico e imitativo, slanciandosi nell’evocazione della natura selvaggia animata dal soffio dell’amore divino con una citazione dalla Sinfonia «Renana», composta in quell’anno (terzo tempo, «Nicht schnell»). I1 canto plastico del Pater Profundus si chiude in una assorta invocazione affinché Dio plachi i suoi pensieri e illumini il suo cuore.
Gli subentra senza soluzione di continuità il Pater Seraphicus (voce di baritono), che abita nella regione media fra la terra (il cui ricordo è in lui ormai del tutto placato) e le sfere degli angeli. Egli non è solo. Sono con lui i Fanciulli Beati (coro di ragazzi) cioè coloro che, nati alla mezzanotte, sono morti in tenera età e benché salvi non hanno potuto raggiungere lo stadio superiore degli Angeli in quanto privi dell’esperienza del male e della vita (si ricordi il Limbo della tradizione cattolica). Sarà compito del Pater Seraphicus mostrar loro il mondo attraverso i propri occhi angelici e trarli gradatamente, colmando l’esperienza che manca loro, alla perfezione suprema.
Nel suo candore «infantile» e quasi popolaresco, così prossimo al mondo innocente e sereno del Des Knaben Wunderhorn prima della «catastrofe» (e dopo la catastrofe saranno i bambini di Mahler, anche nell’Ottava Sinfonia), questo episodio rappresenta un’oasi di conciliazione e di tenerezza prima che l’ascesa riprenda verso il suo compimento. Si ascolti come la musica lievemente accompagna il progressivo salire dei fanciulli verso l’alto, in un ritmo che via via si fa più rapido e incalzante senza tradire alcuna fretta, con la cadenza delle cose prescritte; e invece la nota affettuosamente umoristica del brivido di paura che si impadronisce dei fanciulli allorché il Pater Seraphicus accenna al male che pur esiste sulla terra, ed essi chiedono di tornare subito nei cieli al sicuro.
N. 4. Coro: Gerettet ist das edle Glied (Angeli, Angeli Novizi, Angeli Perfetti, Fanciulli Beati).
Tonalità di la bemolle maggiore/mi maggiore/sol bemolle maggiore/si bemolle maggiore. Questa vasta e composita sezione tutta corale, posta al centro delle sette che formano la scena finale, è assai più che in Goethe un nodo cruciale dell’interpretazione schumanniana. Si compie qui la vera salvazione di Faust e la sua trasfigurazione in simbolo dell’umanità vittoriosa e spiritualizzata. La didascalia definisce il quadro scenico: «in volo nelle parti più alte dell’atmosfera, gli Angeli recano la parte immortale di Faust»; «Chi si affatica sempre a tendere più oltre, noi possiamo redimerlo», cantano gli Angeli. Ed è su questi versi, intonati dal coro con particolare ieraticità, che è costruito l’intero episodio. La massiccia orchestrazione, la veemente fermezza del coro, descrivono l’effigie di un trionfo assoluto, scandito al ritmo di una marcia solenne. Ecco poi il canto di un soprano solo (Jene Rosen, aus den Händen), che espone su toni più leggeri e vivaci il significato della vittoria sul male, subito ripreso dal coro dei soprani e concluso, con gioiosa esultanza, da tutti gli Angeli Novizi. Salendo ancora di un gradino, si presentano gli Angeli Perfetti, che pur nella loro perfezione recano ancora un residuo della dolorosa esistenza terrena: il loro canto sembra quasi voler figurare una compiutezza nell’«Amore eterno» inclinando dall’articolazione contrappuntistica – tendenzialmente qui modulante – alla quiete e all’unità dell’insieme omofonico. La ripresa del tema del soprano solo, quasi a mo’ di ritornello, rischiara questa penombra e riporta alla tonalità di la bemolle maggiore, chiudendo così il primo episodio.
Una brusca modulazione enarmonica a mi maggiore introcuce il secondo episodio. Tocca ora agli Angeli Novizi esporre la visione della trasfigurazione di Faust. Nuovamente il coro si fraziona e si ricompone come in balia di un’eccitazione irrefrenabile. Mentre i Fanciulli Beati accolgono Faust nella schiera celeste, una luce adamantina si diffonde tutt’intorno. La trasfigurazione sta per compiersi: una linea ascendente verso l’acuto (esposta in progressione da clarinetto, oboe e flauto) punteggia la definitiva salita in cielo di Faust. Il tessuto armonico si apre di nuovo allargandosi distesamente e modulando a si bemolle maggiore, tonalità nella quale avviene la ripresa del coro iniziale (Gerettet ist das edle Glied) in un fugato robusto e potente.
N. 6. Basso solo: Dir, der Unberührbaren (Doctor Marianus, Mater Gloriosa, Coro delle penitenti, Magna Peccatrix, Mulier Samaritana, Maria Aegyptiaca, Una poenitentium chiamata un tempo Margherita, Fanciulli Beati).
Tonalità di si bemolle maggiore/do maggiore/la maggiore. Aperta e chiusa dalle parole compìte del Doctor Marianus, questa penultima sezione presenta in rapido avvicendamento le figure femminili delle tre peccatrici pentite, desunte dai Vangeli e dagli Atti dei Santi (Magna Peccatrix è colei che singhiozzando versò ai piedi del Salvatore il suo prezioso balsamo; la Mulier Samaritana offerse da bere a Gesù; Maria Aegyptiaca fu una cortigiana che, respinta dal Tempio, si ritirò nel deserto a vita di penitenza per quarantasette anni, lasciando il proprio nome scritto sulla sabbia). Il significato dell’ascesa verso il vertice riguarda ora l’Elemento Femminile, la cui celebrazione avverrà nel conclusivo Coro mistico. La purezza della Mater Gloriosa e la carità delle peccatrici, il cui canto tende ora a fondersi, risplende nell’apparizione di una delle penitenti, chiamata un tempo Margherita: costei, come sappiamo, è già salva, ma non perdonata, e la giustificazione dei suoi atti si compie ora qui nel ricordo del suo dramma, ma come vòlto in positivo e riscattato dal tripudio di fede che la circonda e riscalda. Significativamente questa apparizione è contrassegnata dalla stessa struttura formale e quasi dalle stesse parole con cui Margherita si era rivolta, in vita, all’immagine della Mater Dolorosa: divenuta semplicemente «Una poenitentium», può ora rivolgersi alla Mater Gloriosa – rovescio di quell’immagine – come placata; e là dove erano parole di pena e di dubbio sono ora accenti di gioia e di certezza. Scortata dai Fanciulli Beati, Margherita può riunirsi secondo il suo desiderio a Faust nella beatitudine delle supreme sfere celesti.
La trasfigurazione dell’esperienza in spirali sempre più elevate è il tema di fondo di questo episodio. Elemento caratterizzante è il ritmo, che nel suo progressivo intensificarsi e accrescersi rende quasi allegoricamente la propulsione dell’ascesa e si distende infine nel movimento statico e circolare delle terzine, continuum che fluisce senza più divenire.
IV. 7. Chorus Mysticus: Alles Vergängliche ist nur ein Gleichnis (soli e
Tonalità di do maggiore/fa maggiore. Gli indefinibili versi finali del Faust rappresentano per Schumann il compimento dell’opera ma anche, come già abbiamo detto, il suo nucleo originario. Il fatto che egli li abbia musicati in due versioni, la seconda delle quali è un’ulteriore riduzione di una pagina già esemplarmente scarna e concisa nonostante la densità dei significati, rivela la piena consapevolezza di un impegno gigantesco.
Dal punto di vista formale – ché ad altra analisi non potremmo in questa sede neppure avvicinarci – il Coro mistico finale è diviso in tre parti. La prima («Lento», in do maggiore) espone integralmente gli otto versi del testo in una progressiva espansione di concentrata solennità, secondo la tecnica del doppio coro – a blocchi alternati e poi sovrapposti – e con sostegno tematico di tre tromboni. La seconda («Vivace», in fa maggiore) si articola in un fugato tra orchestra e coro, a cui si aggiungono i quattro solisti, su un testo costituito dagli ultimi due versi e a ritroso dal quinto e sesto (invertiti) e terzo e quarto. La terza («Più mosso») chiude l’opera in fa maggiore, ribadendo questi quattro versi e con particolare insistenza gli ultimi due (Das Ewigweibliche/zieht uns hinan) in un contesto che torna omofonico e a cori alternati come nella prima parte ma tende, più che ad ascendere, a fissarsi in circolare inmmobilità, per poi assottigliarsi nel graduale diminuendo delle sonorità in un diafano velo di pause e di incisi ribattuti. L’evidente simmetria dell’impianto formale sembra voler identificare la chiusa con un ordine e una proporzione d’equilibrio alfine raggiunto anche sul piano linguistico: ed è in questo senso significativo che do maggiore, tonalità della morte di Faust, sia qui usato esplicitamente, come dominante, in funzione di fa maggiore, tonalità della Trasfigurazione. A sua volta la tecnica ad incastro adoperata da Schumann può far pensare a tre stadi di uno sviluppo altrettanto simmetrico, che riassume per l’ultima volta e condensa le tre parti dell’opera: dal vuoto al pieno (figurativamente, dal basso verso l’alto) nella prima parte, articolazione e movimento del «pieno» (anche nella ricchezza di mezzi e di elementi linguistici quali contrappunto, ritmo e armonia) nella seconda parte; corrispondente ritorno, «a specchio», dal pieno al vuoto (ossia dall’alto verso le altezze incommensurabili delle sfere celesti, che si ripercuotono anche in basso) nella terza parte. Se la pausa «musicale» e la frantumazione del testo a minimi incisi ribattuti sono gli elementi strutturali della chiusa, l’ultima intonazione del verso finale ormai non «trae verso l’alto» ma si spegne in pianissimo nella tessitura grave, mentre violini e viole tratteggiano un tenue arabesco discendente per raggiungere, sul pedale dei bassi, le note della triade di fa maggiore. Da ultimo, il vuoto silenzio. E non appare dubbio che il silenzio verso cui l’opera tende fosse sentito da Schumann come la perfezione raggiunta con l’opera, al di là dell’opera.
Wolfgang Sawallisch / Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino. Coro di Voci bianche “”Guido Monaco”” di Prato, diretto da Fiorella Cappelli