Robert Schumann – Requiem per soli, coro e orchestra op. 148

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Negli anni trascorsi a Düsseldorf, a partire dal 1850, Schumann manifestò sempre più decisamente l’intenzione di dedicarsi a composizioni che, rivolgendosi al grande pubblico, avessero anche una funzione didattica e altamente pedagogica, di guida morale e spirituale. Se tale obiettivo era sempre stato al vertice dei suoi interessi, anche nei tumultuosi anni giovanili, il mutamento di prospettiva nella fase della maturità si realizzò nel passaggio da un individualismo portato all’eccesso, di chiara marca rivoluzionaria, a una visione più pacata e riflessiva, popolare in senso positivo, dei compiti dell’arte: dove lo stesso principio della «religione dell’arte””, di cui Schumann aveva fatto il proprio credo artistico fin da quando si era definito nel 1830 “”religioso senza religione», si trasformò sensibilmente nelle intenzioni, accostandosi non solo ai temi elevati della religione ma anche a un tipo di religiosità più attiva e partecipe, insieme spontanea e diretta.

Non erano soltanto i compiti connessi all’incarico che ricopriva a Düsseldorf, quello di direttore generale della musica, a spingerlo in questa direzione. Giacché se è vero che quei compiti consistevano – oltre che nella organizzazione e nella direzione di un’orchestra professionale e di una società corale di dilettanti – anche nell’obbligo di due o tre esecuzioni musicali di rilievo all’anno per il servizio religioso cattolico, altrettanto vero è che Schumann aveva accettato con entusiasmo quell’incarico proprio perché esso corrispondeva pienamente a una esigenza fortemente sentita. In una lettera del gennaio 1851 al suo ammiratore di Oldenburg August Strackerjan egli scriveva: «Impegnare le proprie forze per la musica sacra rimane l’obiettivo più alto dell’artista. Ma in gioventù siamo tutti ancora troppo radicati nella terra, con le sue gioie e i suoi dolori; con l’avanzare dell’età, anche i rami tendono a elevarsi. E, come spero, questa età non sarà più troppo lontana per quel che aspiro a fare».

Secondo la concezione di Schumann la musica sacra dove-va essere ispirata da un «sentimento bello, poetico e veramente religioso nella sua totalità». Ciò non escludeva, anzi al contrario richiedeva, che la musica di chiesa venisse pensata anche per la sala da concerto, in una unione ideale di religione e arte. Allo stile di chiesa si addicevano ancora «forme artificiose» come il canone e la fuga; ma al tempo stesso occorreva che perfino dalle costruzioni più abilmente intrecciate trasparisse «una segreta melodia». E non gli mancavano i modelli a questo proposito. Oltre alla musica sacra di Haydn e Mozart, Schumann conosceva a fondo la Missa solemnis di Beethoven e con il suo coro di Düsseldorf aveva preparato la Messa in si minore di Bach. Fin dal 1835 gli era nota l’esistenza di cinque Messe di Schubert, sebbene nessuna fosse stata pubblicata prima della sua morte; tra i Requiem apprezzava particolarmente per il suo rigore quello in do minore, del 1816, di Cherubini, mentre il monumentale Requiem di Berlioz, del 1837, lo aveva lasciato atterrito e impressionato. Da tutte queste esperienze Schumann fu fortificato a cercare la propria strada nell’ambito della musica sacra e da concerto, quasi sdoppiandosi nella composizione successiva, a brevissima distanza, di una Messa e di un Requiem.

Questi due lavori strettamente legati alla liturgia cattolica, nati rispettivamente tra il febbraio-marzo e l’aprile-maggio del 1852, sono gli ultimi due a recare un numero d’opera nel catalogo di Schumann (op. 147 e op. 148). Tale circostanza, ancor più avvalorata dalla dichiarazione di Schumann secondo cui un Requiem lo si scrive solo «per se stessi», accresce inevitabilmente il significato simbolico dell’opera come testimonianza estrema dell’arte creativa di Schumann in rapporto alla vita, che di lí a poco gli sarebbe letteralmente sfuggita dalle mani. Essa non deve tuttavia venir troppo enfatizzata: Schumann non intese affatto affidare al suo Requiem l’ultima parola, né congedarsi drammaticamente con esso dal mondo. Al contrario, la sua aspirazione era anzitutto di rinnovare la tradizione della musica sacra, coniugando la semplicità e la purezza di un

autentico sentimento religioso, oggettivato in forme austere, con la necessità di far parlare l’antico spirito cristiano in un linguaggio musicale adatto ai tempi, e dunquetanto personale quanto autonomo. Da questo punto di vista sia la Messa che il Requiem sono frutti maturi di un magistero compositivo interamente ripensato ed esercitato, ma non sono specificamente destinati alla sola funzione liturgica.

E’ singolare, soprattutto se si pensa alla rapidità con cui fu composto, che del Requiem esistano così tanti schizzi e studi preliminari, come per nessun’altra opera di Schumann: la costruzione musicale è talmente perfetta nelle sue proporzioni e simmetrie da sembrare quasi il risultato di un calcolo. Ciò non deve sorprendere, anche se contrasta con l’immagine convenzionale di Schumann derivante dall’alta temperatura emotiva e passionale delle sue composizioni pianistiche. È invece proprio l’aspetto oggettivo della meditazione sulla morte a interessare il compositore, quale espressione di un sentimento religioso sereno e cristianamente rivolto all’accettazione del mistero della fede; da cui risulta, al polo opposto, una visione mistica dell’Aldilà come regno dello spirito pacificato, lontano da ansie e conflitti terreni. Il tono che predomina è anch’esso di-steso, caratterizzato com’è da una assenza di contrasti perfino nei momenti più intensamente drammatici, come per esempio il «Dies irae», e da una “”opacità”” di fondo che neutralizza la luce troppo violenta e assorbe anche i timbri scuri dei registri gravi, rendendoli opalescenti. La scelta della tonalità d’impianto di re bemolle maggiore concorre a creare un clima armonico morbido e vellutato, innervato però da procedimenti contrappuntistici di austera pienezza e forza plastica. E la stessa strumentazione, di classica trasparenza, si uniforma a questa atmosfera di levigata compostezza, senza rinunciare a vibrare con partecipe adesione sentimentale, ma come trasfigurata in una sua intatta lontananza.

Di fondamentale importanza è la funzione del coro, che si erge ‘a voce collettiva, quasi sovraindividuale, di fronte alla celebrazione del rito della messa funebre: fin dall’inizio, intonando gravemente, con calma solennità, le paro-le del «Requiem aeternam», esso mette in rilievo la disposizione concentrica della forma, simbolo della ciclicità della vita e della morte, per poi ribadire nel successivo «Te decet hymnus», quasi festosamente, la completa remissione nella gloria di Dio. Una figura musicale esprime questo concetto con evidente pregnanza: il motivo di quattro note di due quarte ascendenti in progressione verso l’alto, cui corrisponderà simmetricamente la sua inversione, sembra collegare cielo e terra in un’unica promessa.

Solo nei passi per così dire umanamente più toccanti e individualmente più responsabili intervengono i quattro solisti, staccandosi tutti insieme dal coro. E ciò accade in tre punti significativi del Requiem: prima nel quasi sussurrato «Kyrie eleison», poi nel tremebondo interrogativo del «Quid sum miser tunc dicturus?» e infine nel delicatissimo epilogo del “”Benedictus””. Quest’ultimo è unito all’«Agnus Dei» senza soluzione di continuità, in un pezzo tonalmente unitario che trascolorando nell’enarmonia si ricollega all’inizio del Requiem, a confermare il principio circolare che ne sta alla base. Alle voci femminili soliste sono invece

affidati i momenti più intimamente lirici, di tono confinante con il Lied: al soprano solista il «Recordare, Jesu pie» e l’iniziale consacrazione dell’«Hostias», poi completato in duetto col contralto; al contralto solista l’intero «Qui Mariam absolvisti» e la preghiera contrita «Oro supplex et acclinis». Non può sfuggire in queste scelte, nella distribuzione del testo tra solisti e coro, una precisa attenzione tanto al valore delle parole quanto alle situazioni e ai significati che vi sono sottesi.

Nonostante la divisione in nove parti, ognuna con un suo ben definito carattere, il Requiem di Schumann presenta una straordinaria continuità di svolgimento, ulteriore riprova della sua fondamentale unitarietà. E come se un unico respiro – ampio, solenne, misurato – lo avvolgesse da cima a fondo, in un ininterrotto, grandioso arco tenuto insieme da una disciplina insieme musicale e spirituale: grazie alla raggiunta consapevolezza della fine predestinata, e senza nulla far presagire dell’imminente tracollo psichico, Schumann si congeda dal mondo con un’opera piena di speranza e di comprensione, nella quale la saldezza costruttiva di una musica senza residui di sbalzi è emblema essa stessa di forza spirituale, materializzando lo spirito nella sua forma più alta e perfetta e nello stesso tempo trascendendolo al di là della religione.

Wolfgang Sawallisch, Norbert Balatsch / Paola Munari, Maria Josè Trullu, Carlo Putelli, Antonio Pirozzi, Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1995-96

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