Robert Schumann – Quintetto in mi bemolle maggiore per due violini, viola, violoncello e pianoforte op. 44

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Non è un caso che tutti i primi 23 numeri d’opera del catalogo di Schumann, ovvero i suoi primi dieci anni di attività, siano dedicati al pianoforte. Con le opere pianistiche Schumann aveva tuttavia esplorato una sola delle molteplici possibilità creative: l’aspetto più libero, dettato dalla fantasia, che trovava la sua migliore espressione su uno strumento in continua evoluzione tecnica, per il quale il compositore poteva continuamente inventare un linguaggio nuovo. Ma nella musica per pianoforte soltanto una forma, quella della sonata, consentiva di avvicinarsi all’altro aspetto compositivo profondamente sentito dai musicisti romantici, ossia il confronto con le grandi forme classiche, sulle quali incombeva l’imponente figura di Beethoven.

Che Schumann, continuando la sua carriera artistica, non potesse esimersi dall’affrontare le forme maggiori, dalla sonata al quartetto d’archi alla sinfonia, lo certificano fra l’altro le pressanti richieste e insistenze dei suoi stessi amici musicisti. In una lettera del 1839 Franz Liszt riassumeva con queste parole un’opinione diffusa nella cerchia dei novatori romantici: «Credo di aver già espresso in una mia lettera precedente il desiderio che voi scriviate qualche brano d’insieme: trii, quartetti, quintetti o settimini. Mi perdonate se insisto ancora su questo punto? Mi sembra che il successo, anche il successo commerciale, non mancherà certo loro». Ma più che da Liszt o dall’ombra di Beethoven, l’incoraggiamento più forte veniva a Schumann dall’influenza di Mendelssohn, musicista per il quale sentiva una profonda amicizia, non esente da un senso di ammirazione, a tratti anche reverenziale: «Mendelssohn è colui al quale io mi rivolgo come a un’alta montagna. Egli è un vero Dio». Mendelssohn evidentemente rappresentava per Schumann l’ideale della serenità e dell’equilibrio non disgiunti, come dimostravano i suoi primi Quartetti op. 12 e 13, da una ferrea volontà di confrontarsi con i modelli beethoveniani. E proprio a Mendelssohn, che li accoglierà con stupore e ammirazione, sa-ranno dedicati i tre Quartetti per archi op. 41, con i quali Schumann sentirà di aver finalmente raggiunto il proprio scopo: convincere i contemporanei delle capacità creative del loro artefice anche al di fuori del pianoforte e del Lied.

I motivi per i quali Schumann, dopo un decennio quasi esclusivamente pianistico, decidesse di dedicarsi dapprima ai Lieder (nel 1840 videro la luce praticamente tutti i suoi grandi cicli, da Myrthen a Liederkreis a Dichterliebe, fino al magnifico Frauenliebe und-Leben), poi alla musica da camera e alla sinfonia, possono essere ricercati, oltre che in una maggiore o “”diversa”” necessità espressiva, anche in una nuova condizione psicologica e spirituale: la gioia e l’esuberanza suscitate nel suo animo della nuova vita familiare dopo l’agognato matrimonio con Clara, sebbene alternandosi a improvvise crisi depressive, gli facevano sentire il pianoforte e la voce quasi come “”troppo ristretti””. Ciò non implicava affatto l’esclusione dello strumento prediletto dai suoi interessi, ma anzi affidava ad esso nuovi compiti in una nuova, più alta destinazione nella musica da camera: eccettuati i tre Quartetti per archi summenzionati, tutte le altre composizioni schumanniane di questo genere comprenderanno infatti il pianoforte.

In vista dei suoi primi lavori cameristici, che fiorirono tanto copiosi quanto notevoli già nel solo anno 1842, Schumann si era dedicato diligentemente a uno studio sistematico dei classici: particolarmente dei quartetti di Haydn, Mozart e Beethoven. Per rafforzare la propria preparazione armonica e contrappuntistica si era rivolto con nuova attenzione al Wohltemperiertes Klavier di Sebastian Bach, un’opera da lui già ben conosciuta fin dagli anni in cui – allievo di Friedrich Wieck – aveva cercato di affinare le capacità alla tastiera. Lo studio delle forme classiche e del contrappunto armonico tradizionale sono egualmente riconoscibili sia nei Quartetti op. 41 che nel Quintetto op. 44 e nel Quartetto op. 47 (quest’ultimo per pianoforte e tre soli archi, violino, viola e violoncello); esiti fortunati di un’ispirazione senza incertezze in un clima di fiducia incondizionato, pervaso davvero da uno spirito rinnovato. Il grado di maturazione e di certezza al quale Schumann era pervenuto per affrontare questi impegni cameristici è dimostrato dalla strabiliante celerità dei tempi di composizione: i soli mesi di giugno e luglio del 1842 per i tre Quartetti per archi, l’autunno dello stesso anno per il Quintetto e il Quartetto con pianoforte.

Tra questi il Quintetto in mi bemolle maggiore op. 44, l’unico che riunisca il pianoforte e la classica formazione del quartetto per archi, si erge come un lavoro superbamente riuscito, tanto spontaneo e toccante nell’emozione quanto equilibrato e chiaro nella tessitura. Clara, dedicataria e prima interprete dell’opera, lo giudicava a ragione «magnifico, pieno di forza e di freschezza»: giacché in queste pagine Schumann sembra far rivivere tutta intera la vena vivace e la brillantezza delle sue sperimentazioni pianistiche, impreziosite da una scrittura degli archi ora tersa e levigata ora densa e impetuosa. La pienezza del sentimento che sembra dominare da cima a fondo la partitura risveglia immagini di marcato senso romantico ma si presta anche a un’indagine psicologica più minuta e interiorizzata, oscillando tra esuberanti esplosioni di felicità e cupe depressioni, in cui sembra riapparire tutta la tragedia della realtà.

I quattro tempi del Quintetto sono articolati in modo così compatto che l’intreccio delle parti mette in luce collegamenti riconoscibili e la struttura nel suo complesso segue il corso di una logica fluente e continua, quasi naturale. Il primo tempo, Allegro brillante, si apre con un terna ampio, energico e scattante, affidato ai cinque strumenti, cui segue, con efficace contrasto, un secondo tema intimamente lirico e cantabile, in sonorità leggere e delicate. Da questo contrasto nasce lo sviluppo, basato sull’elaborazione di un frammento del motivo iniziale in un’atmosfera infocata e sempre più appassionata, quasi inquieta.

Il secondo movimento doveva intitolarsi inizialmente Marcia funebre, ma questo titolo fu cambiato poi con quello di In modo d’una Marcia (“”Un poco largamente””), forse per riportarlo su un piano di maggior neutralità e nascondere la stretta dipendenza di questo brano dall’analogo tempo lento dell’Eroica di Beethoven. Se la temperatura espressiva qui s’innalza considerevolmente, la scrittura rimane di una straordinaria essenzialità, sia nell’eleganza delle singole parti che nella trasparenza dell’insieme; senza che venga mai meno la pregnanza dell’ambiguo senso di fatalità del tema esposto dal primo violino nella progressiva intensificazione drammatica delle variazioni (colta stupendamente in forma di virtuale dissolvenza cinematografica da Ingmar Bergman nella citazione di questo tema come Leitmotiv del suo ultimo capolavoro Fanne e Alexancler).

Il terzo tempo, Scherzo (Molto vivace), è avviato dal pianoforte solo con una figura melodica ascensionale di spumeggiante vivacità, con slancio nuovamente forte e marcato; il primo Trio invece si ricollega tematicamente all’Allegro brillante iniziale con la ripresa delle due prime battute a intervalli rovesciati (discendenti anziché ascendenti), mentre il secondo si sviluppa come un incalzante moto perpetuo. La volontà di conferire unità ciclica alla composizione viene ribadita con ancora maggiore determinazione nell’ultimo movimento, Allegro ma non troppo, allorché nel fugato della coda il tema del primo movimento viene combinato con un controsoggetto che non è altro che il tema del finale stesso, a sua volta strettamente imparentato con la figura enigmatica che al centro scandiva l’incedere fatale della marcia.

Hagen Quartett, Paul Gulda
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1994-95

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